Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 32152 Anno 2025
RITENUTO IN FATTO Penale Sent. Sez. 4 Num. 32152 Anno 2025 Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Con l’ord inanza in epigrafe indicata, il Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di NOME COGNOME avverso l’ordinanza Data Udienza: 01/07/2025
con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Locri, in data 3 marzo 2025, ha applicato al predetto la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione al reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
1.1. A ll’ udienza camerale, la difesa aveva prodotto visura camerale, comunicazione RAGIONE_SOCIALE e una fattura di acquisto di sementi, sostenendo che si trattava di droga leggera di produzione lecita, della quale peraltro non era stata al momento accertata la percentuale di THC.
Avverso l’ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’indagato sollevando due motivi con cui rispettivamente deduce:
2.1. Violazione di legge ed omessa valutazione di tutta la documentazione prodotta dalla difesa in sede di giudizio di riesame; manifesta illogicità per contraddittorietà della motivazione tra quanto emerge dalla documentazione prodotta dalla difesa e quanto motivato dai Giudici nell’ordinanza ricorsa e perché la misura non poteva essere applicata sussistendo una causa di non punibilità prevista dall’art. 4 L. 242/2016. Il difensore evidenzia di aver prodotto, in sede di riesame, una visura del registro delle imprese da cui risulta che il COGNOME, tra le altre attività, è titolare di azienda agricola, con sede in contrada INDIRIZZO del Comune di Grotteria a far data dal 1° luglio 2021 e tutt’ora in essere, avente quale tipo di attività quella inerente alla ‘coltivazione di spezie, piante aromatiche e farmaceutiche’ , codice ATECORI 01.28, diversamente da quanto è dato leggere nell ‘ordinanza impugnata . L’omessa v alutazione dell’ anzidetta circostanza, di assoluto rilievo ai fini della verifica della lecita attività di coltivazione di cannabis light da parte dell’indagato, ha inficiato l’intero giudizio di riesame, posto che nel caso di specie si versa in una causa di non punibilità prevista dell’anzidetto art. 4 L. 242/2016. Nel caso di specie, la motivazione dell’ordinanza è priva dell’indicazione di elementi di fatto da cui emergerebbe la qualificata probabilità che l’indagato abbia coltivato sostanza vegetale di tipo cannabis con un THC di valore superiore allo 0,6%, come pure è priva dell’indicazione di elementi di fatto che siano dimostrativi che la sostanza vegetale detenuta fosse destinata a fini ricreativi. Il confezionamento della stessa sarebbe stato unicamente finalizzato alla conservazione della sostanza;
2.2. Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, nonché mancanza e manifesta e logicità della motivazione in ordine alla sussistenza di esigenze cautelari. I giudici del riesame non hanno effettuato lo scrutinio di una serie di elementi necessari ai fini della valutazione delle esigenze cautelari e dei criteri di adeguatezza e
proporzionalità della misura applicata, ovvero la personalità dell’imputato, avulso da contesti criminosi ed incensurato, nonché il comportamento collaborativo tenuto in occasione del compimento dell’attività di polizia giudiziaria. Il Tribunale del riesame ha ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione della condotta delittuosa facendo esclusivo riferimento alle modalità del fatto mentre sul punto avrebbe dovuto fondare il suo giudizio principalmente sulla personalità dell’indagato.
Con requisitoria scritta, il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre ricordare che, in tema di misure cautelari personali, «allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità ed ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828. In motivazione, la S.C., premesso che la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo, ha posto in evidenza che la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza). Questa Corte, inoltre, ha più volte chiarito che, in tema di misure cautelari, la nozione di gravi indizi di colpevolezza non è omologa a quella che serve a qualificare il quadro indiziario idoneo a fondare il giudizio di colpevolezza finale (Sez. 4, n. 17247 del 14/03/2019, COGNOME, Rv. 276364; Sez. 4, n. 53369 del 09/11/2016, COGNOME, Rv. 268683;
Sez. 4, n. 38466 del 12/07/2013, Kolgjini, Rv. 257576). Invero, al fine dell’adozione
della misura è sufficiente l’emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare “un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato” in ordine ai reati addebitati. I detti indizi, pertanto, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. (per questa ragione l’art. 273, comma 1bis cod. proc. pen. richiama l’art. 192, commi 3 e 4, medesimo codice, ma non il comma 2 del medesimo articolo, il quale oltre alla gravità, richiede la precisione e concordanza degli indizi). Deve, peraltro, ricordarsi che la valutazione del peso probatorio degli indizi è compito riservato al giudice di merito e che, in sede di legittimità, tale valutazione può essere contestata unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili, viceversa, le censure che, pure investendo formalmente la motivazione, si risolvano nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal giudice, spettando alla Corte di legittimità il solo compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi del diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Il controllo di logicità, peraltro, deve rimanere “all’interno” del provvedimento impugnato, non essendo possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate. In altri termini, l’ordinamento non conferisce alla Corte di cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura, nonché al Tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, risultanti cioè prima facie dal testo del provvedimento impugnato, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr. Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, P.M. in proc. Tiana , Rv. 255460).
Occorre preliminarmente osservare che l’art. 2 della legge n. 242/2016 è stato modificato dal decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48 (convertito dalla legge 9 giugno 2025, n. 80) e che tale modifica non ha introdotto norme più favorevoli rispetto a
quelle previgenti, sicché, ai fini della decisione, deve farsi riferimento alle norme in vigore all’epoca dei fatti. Il controverso tema dei rapporti tra la disciplina contenuta nel Testo Unico stupefacenti -che incrimina la coltivazione delle sostanze indicate nella tabella II (tra le quali vi è la cannabis in ogni sua varietà) -e la legge n. 242/2016 -contenente «Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa» -è stato affrontato da questa Corte di legittimità con la sentenza delle Sezioni Unite n. 30475 (del 30/05/2019, COGNOME, Rv. 275956). Prescindendo dall’analisi della disciplina nazionale e sovranazionale che costituisce la cornice normativa in cui si è inscritta la disciplina introdotta con la legge n. 242/2016, è sufficiente ricordare che, secondo le Sezioni Unite, le coltivazioni incentivate dalla legge 242/2016 si collocano nell’alveo delle colture consentite ai sensi dell’art. 26 d.P.R. 309/1990. Come la sentenza in esame sottolinea, quest’ultima norma richiama l’art. 14 (disposizione che, al comma 2 lett. b , impone l’introduzione nella tabella II di ogni varietà di cannabis ) e, tuttavia, introduce un’eccezione al divieto quando la canapa sia coltivata «esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, d iversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea». Muovendo da queste premesse, la sentenza sostiene che «il sintagma contenuto nell’art. 1, comma 2, legge n. 242 del 2016, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tr atta ‘non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza’, delinea l’ambito dell’intervento nor mativo» e tale intervento «riguarda un settore dell’attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall’ambito dei divieti stabiliti dal T. U. stup. in tema di coltivazioni». Secondo il supremo Collegio, «ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare. Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui all’art. 14, d.P.R. n. 309/1990 (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis ) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell’attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell’Unione europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle modifiche introdotte all’art. 26, comma 2, T.U. stup., dal decreto -legge n. 36 del 2014» (così, testualmente, Sez. U., n. 30475 del 30/05/2019, COGNOME, cit., pag. 11 della motivazione).
Secondo il supremo Collegio, la coltivazione della cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla legge n. 242/2016, è stata definita non solo «mediante l’indicazione della varietà di canapa di cui si tratta», ma anche «in considerazione dello
specifico ambito funzionale dell’attività medesima, che non contempla l’estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa». Ne consegue che dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dall’art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, tale coltivazione non può essere destinata alla commercializzazione di «foglie, infiorescenze, olio e resina» (pag. 13 della motivazione). Le Sezioni Unite citate hanno affrontato anche il tema delle soglie percentuali di THC che, secondo alcuni orientamenti, costituivano il discrimine della liceità della commercializzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L . Avendo riguardo ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge n.242/2016, ha nno precisato che tali valori sono stati introdotti per tutelare gli agricoltori operanti nella filiera agroalimentare delineata dalla legge, i quali, pur avendo impiegato qualità di canapa consentite, potrebbero aver ottenuto un prodotto contenente una percentuale di THC superiore al limite massimo consentito perché compresa tra lo 0,2 e lo 0,6 %. L’art. 4, comma 5, legge n. 242/2016, stabilisce, infatti, che in questi casi nessuna responsabilità possa essere posta a carico dell’agricoltore che abbia rispettato le prescrizioni di legge e l’art. 4, comma 7, nel prevedere la possibilità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6%, ribadisce, anche in tal caso, che la responsabilità dell’agricoltore è esclusa. In tale prospettiva, le Sezioni unite hanno sostenuto che le richiamate percentuali di THC non possono essere valorizzate al fine di affermare la liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. , ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 o allo 0,2% e hanno concluso che la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, può integrare il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. Stup., anche quando il con tenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7, della legge del 2016. Hanno fatta salva, però, la verifica della concreta offensività del fatto e, quindi, della capacità drogante della sostanza, intesa quale attitudine a provocare o meno effetti psicogeni.
4. Dei principi affermati nella predetta sentenza delle Sezioni Unite fa corretta applicazione il Tribunale di Reggio Calabria che ha ricordato come il dato ponderale del fogliame e delle inflorescenze rinvenute nel caso di specie sia logicamente incompatibile con il ciclo di una coltivazione avviata non prima di fine giugno 2024, periodo a cui risale il presunto acquisto di sementi di cannabis sativa documentato dall’indagato mediante la fattura prodotta; come lo stato di essicazione della sostanza, la positività alla marijuana e la sua suddivisione in confezioni di diversa dimensione, alcune delle quali addirittura in involucri di cellophane termosaldati, lascino
ragionevolmente intendere la loro destinazione agli scopi ricreativi non consentiti dalla disciplina di settore, non essendo stato in grado l’indagato di dimostrare il contrario; come, se davvero il COGNOME si fosse occupato di coltivazione intensiva della canapa indiana nel rispetto dei limiti di legge, si fatichi a comprendere la ragione per cui non fosse munito di tutta la documentazione imposta dall’art. 3 L. 242/16 e non fosse in grado di indicare nel dettaglio gli esercenti commerciali con cui aveva concordato la fornitura di un così elevato quantitativo di sostanza. A ciò il Tribunale ha aggiunto la titolarità di una partita IVA afferente all’edilizia, ossia ad un settore merceologico del tutto estraneo a quelli cui la coltivazione di canapa sarebbe riconducibile. Ha ritenuto di scarso valore liberatorio la relazione tecnica a firma del geometra COGNOME, illustrandone diffusamente le ragioni. Ha, infine, concluso nel senso di ritenere la considerevole quantità di stupefacente in sequestro e la sua peculiare modalità di confezionamento altamente significative di uno stabile, redditizio, inserimento dell’indagato nel mercato della droga in qualità di produttore e distributore capace di soddisfare la domanda.
Si tratta, all’evidenza, di motivazione congrua e non manifestamente illogica e, pertanto, immune da censure.
Quanto alle esigenze cautelari e all’adeguatezza della misura in corso, oggetto del secondo motivo di ricorso, occorre, preliminarmente, rammentare che, secondo l’orientamento di legittimità, che il Collegio condivide, l’ordinamento non conferisce alla Corte di cassazione alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti di merito, rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del Tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME COGNOME, Rv. 276976; Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv. 261400).
L’insussistenza delle esigenze cautelari (art. 274 cod. proc. pen.) -al pari dell’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (art. 273 cod. proc. pen.)- è, quindi, rilevabile in Cassazione soltanto qualora si traduca nella violazione di specifiche norme di legge o nella manifesta illogicità della motivazione secondo la logica e i principi di diritto, rimanendo “all’interno” del provvedimento impugnato; il controllo di legittimità non può, infatti, riguardare la ricostruzione dei fatti.
Ciò detto, la motivazione dell’ordinanza impugnata si appalesa del tutto immune dai dedotti vizi. Il giudizio di esclusiva idoneità della misura in atto viene giustificato in ragione delle particolari modalità del fatto e della personalità dell’indagato. Il Tribunale
di Reggio Calabria ha evidenziato come le peculiari caratteristiche della detenzione, il quantitativo di sostanza rinvenuta nella disponibilità dell’indagato, le modalità di confezionamento ed occultamento dello stupefacente sono tutti elementi che dimostrano l’abitualità dell’uomo alla perpetrazione di condotte di analogo tenore e la sua indiscussa inclusione in un circuito criminale funzionale alla commercializzazione della sostanza prodotta; conseguendone il concreto ed attuale pericolo che, ove non sottoposto ad adeguato presidio cautelare, quale la misura cautelare in corso, il ricorrente sia «altamente orientato a reiterare condotte criminose analoghe a quelli odiernamente sub iudice , In quanto appare evidente, dalle circostanze della condotta, che lo stesso non fosse al proprio primo episodio delittuoso, avendo agito, invece, nella ripetuta, stabile e strutturata attuazione di un consolidato piano criminoso, ideato e realizzato con la collaborazione di soggetti appartenenti a contesti abitualmente dediti al traffico di sostanze stupefacenti (…)».
Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 1° luglio 2025
Il Consigliere estensore NOME
Il Presidente NOME COGNOME