Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6723 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6723 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 25/01/1973
avverso la sentenza del 19/04/2024 della Corte di appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME con atto del proprio difensore, impugna la sentenza in epigrafe indicata, che ne ha confermato la condanna per il delitto di cui all’art. 73, comrna 4, d.P.R. n. 309 del 1990, per aver coltivato 109 piantine di cannabis ed aver detenuto un quantitativo di marijuana già essiccata e pronta per l’assunzione in misura tale da poterne ricavare 7.328 dosi singole giornaliere.
Il ricorso consta di cinque motivi, con cui si denunciano violazioni di legge e vizi della motivazione sui seguenti capi e punti della decisione.
2.1. Esclusione della detenzione della sostanza per il solo uso personale.
Gli argomenti di confutazione possono così sintetizzarsi: a) la comunità scientifica contesta la rigidità del parametro della dose media giornaliera; b) il dibattimento ha permesso di accertare la condizione di tossicodipendenza cronica, smodata e multipla dell’imputato; c) le indagini non hanno consentito di individuare eventuali acquirenti; d) l’imputato non disponeva di significative somme di denaro in contanti; e) la sentenza non si è confrontata con le conclusioni e gli argomenti del consulente di parte, che ha concluso per la compatibilità del quantitativo rinvenuto con le esigenze di consumo dell’imputato; f) la decisione si rivela contraddittoria, svalutando la condizione di tossicodipendenza dell’imputato ai fini del giudizio di responsabilità, ma poi valorizzandola in punto di trattamento sanzionatorio; g) lo stesso consulente del Pubblico ministero, al pari di quello della difesa, ha escluso che le piantine rinvenute potessero provenire da cannabis indica, così attestando che esse non erano idonee alla produzione di sostanza stupefacente.
2.2. Diniego della rinnovazione istruttoria in appello, per l’espletamento di una consulenza tecnica difensiva sulle piante.
La sentenza di primo grado aveva svalutato la consulenza tecnica della difesa, in quanto eseguita solo su base documentale, senza un esame diretto dei campioni sequestrati. Il difensore dell’imputato ha, quindi, chiesto di poterla rinnovare ai giudici di appello, ma questi ultimi, fraintendendone l’istanza, hanno escluso la necessità di procedere a perizia, immotivatamente aderendo alla determinazione del primo giudice circa la inconcludenza della consulenza di parte.
2.3. Utilizzabilità della consulenza tecnica del Pubblico ministero, in quanto eseguita ai sensi dell’art. 359 e non 360, cod. proc. pen., pur trattandosi di accertamento irripetibile, poiché condotto su sostanze vegetali e, come tali, soggette a modificazioni, secondo quanto confermato dallo stesso ufficiale di polizia giudiziaria delegato dal Pubblico ministero all’esecuzione di detta indagine.
La Corte d’appello si è limitata a rilevare la possibilità del contraddittorio sui relativi esiti attraverso l’esame dell’autore della stessa, senza tuttavia prendere posizione sull’irripetibilità o meno dell’accertamento.
2.4. Diniego dell’ipotesi lieve (art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990).
Esclusa, per le ragioni già dette, l’attitudine alla produzione di sostanza stupefacente delle piantine rinvenute, deduce la difesa che la portata offensiva della condotta si sarebbe dovuta valutare con riferimento alla sostanza residua, sulla quale, però, la motivazione è del tutto assente.
In ogni caso, considerandosi la mancanza di organizzazione, l’assenza di acquirenti e di disponibilità in contanti, la condizione di grande assuntore dell’imputato e la vastità del territorio di riferimento, la condotta si presenterebbe di lieve entità.
2.5. Diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Sul punto, non sembra esservi in sentenza una risposta specifica e, comunque, la sentenza omette di considerare l’immediato riconoscimento di responsabilità da parte dell’imputato, il percorso riabilitativo da lui sùbito intrapreso in carcere, la sua costante partecipazione alle udienze. La Corte d’appello ha dato risalto in senso contrario alle capacità economiche di costui, ritenendole sufficienti per acquistare la droga senza necessità di coltivarla: tuttavia – obietta il ricorso – detta valutazione, in assenza di una specifica indagine patrimoniale e dei costi necessari per soddisfare le elevate esigenze di consumo di Liti tossicodipendente estremo, si presenta apodittica; e, in secondo luogo, non considera che la sostanza comunemente in commercio risulta altamente nociva, per cui è più sicuro per la salute coltivarsela in casa.
Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
Ha depositato memoria di replica il difensore ricorrente, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Nessuno dei motivi di ricorso può essere ammesso.
2. Il primo censura la valutazione del materiale probatorio compiuta dai giudici di merito e chiede, perciò, alla Corte di cassazione un giudizio sul fatto, che le è precluso. È qui sufficiente osservare, allora, che nessuna delle circostanze di fatto addotte dal ricorrente si presenta inconciliabile con le conclusioni cui sono pervenuti quei giudici, così da rendere le stesse manifestamente illogiche e, perciò, censurabili in questa sede.
Indiscusse, infatti, sono la detenzione della sostanza da parte dell’imputato; la quantità di essa, ragionevolmente reputata esuberante rispetto alle esigenze anche di un consumatore accanito; l’esistenza di una significativa organizzazione strutturale per la coltivazione, costituita da diversi vani dedicati e da varia strumentazione. E, anche per quel che riguarda le piantine rinvenute, il consulente del Pubblico ministero si è semplicemente espresso in termini di possibile
esclusione della varietà “indica” e solamente a causa delle pessime condizioni di conservazione di esse al momento del suo esame, ma, in ogni caso, ha riscontrato nelle stesse il principio attivo, pur non avendone potuto stabilire con precisione la quantità.
Il secondo motivo, con cui la difesa si duole del rigetto della richiesta di poter rinnovare in appello la propria consulenza di parte sulle piante sequestrate, è, se non altro, aspecifico.
Il diniego della rinnovazione istruttoria in appello è sindacabile in cassazione solamente nella misura in cui la conseguente lacuna probatoria comprometta la completezza e la logicità della motivazione.
Tanto non si è verificato nel caso in esame, perché – come la sentenza spiega puntualmente – la consulenza tecnica sulle piante era stata disposta dal Pubblico ministero non per stabilire la quantità di principio attivo in esse presente, ma esclusivamente per accertarne la natura: dato, quest’ultimo, che non è controverso e che, quindi, è tale da rendere superflua detta indagine supplementare.
Il terzo motivo, in tema di utilizzabilità della consulenza tecnica del Pubblico ministero, è manifestamente infondato.
Tale indagine – come s’è detto – ha avuto ad oggetto soltanto l’aspetto qualitativo del materiale esaminato e non quello quantitativo: l’affermazione contenuta in sentenza, secondo cui, almeno entro detti limiti, si trattava di accertamento tecnico ripetibile, risulta, allora, adeguatamente motivata ed il ricorso non oppone ad essa specifici rilievi critici.
Il quarto motivo, col quale si lamenta la mancata derubricazione nell’ipotesi lieve, di cui al comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990, invoca anch’esso un giudizio di puro merito, deducendo essenzialmente la minore considerazione riservata dalla Corte d’appello ad alcune circostanze di fatto rispetto ad altre, ma non confutando criticamente la rilevanza di quelle valorizzate in sentenza.
Dovendo lo scrutinio di legittimità fermarsi, invece, alla verifica della non manifesta irragionevolezza delle valutazioni compiute da quei giudici, deve concludersi per la non censurabilità sul punto della decisione impugnata, che ha dato rilievo non soltanto alla natura organizzata della coltivazione, ma anche alla consistenza della produzione attraverso di essa realizzata, entrambe obiettivamente non compatibili con la minima offensività richiesta per potersi ravvisare l’ipotesi lieve.
Analogo limite presenta, infine, il quinto motivo, in tema di mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Sul punto, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133, cod. pen., da esso considerati preponderanti, e non si presenti quale frutto di mero arbitrio o di ragionamento del tutto illogico, contraddittorio od immotivato.
La sentenza in esame si conforma a tale principio, offrendo una plausibile spiegazione del diniego di tali attenuanti, in ragione della scarsa rilevanza del contributo probatorio offerto dall’imputato e della verosimile assenza di difficoltà economiche tali da rendere comprensibile, benché non giustificabile, la sua scelta criminosa.
La difesa, dal suo canto, si limita a contestare tali assunti, senza tuttavia spiegare perché debbano ritenersi arbitrari o manifestamente illogici, e perciò chiedendo alla Corte, anche sotto questo profilo, un inammissibile giudizio di puro merito.
L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod, proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 1’11 dicembre 2024.