Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 16534 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 16534 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
Sui ricorsi presentati da:
NOME NOMECOGNOME nato ad Albano Laziale il 28/03/1987;
NOME COGNOME nato in Iraq il 19/11/1976 (CUI CODICE_FISCALE),
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 02/07/2024.
visti gli atti e il provvedimento impugnato; esaminati i motivi del ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore genera Dr. NOME COGNOME cui il P.G. si è riportato in udienza, che ha concluso per l’inammissibilità
entrambi i ricorsi.
udito, per l’imputato COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME del Foro di Roma, che si è riport al ricorso insistendo per il suo accoglimento.
Con sentenza del 02/07/2024, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Velletri del 12/09/2023:
in accoglimento della domanda di concordato in appello sulla pena, con rinuncia agli altr motivi, rideterminava la pena applicata ad NOME COGNOME in anni quattro di reclusione ed euro 18,000 di multa per il delitto di cui agli artt. 73-80 d.P.R. 309/1990;
condannava NOME COGNOME alla pena di anni quattro di reclusione ed euro 18,000 di multa/ per il delitto di cui agli artt. 73-80 d.P.R. 309/1990.
Avverso tale sentenza gli imputati propongono, tramite i rispettivi difensori, separa ricorsi per cassazione.
3. Il ricorso di NOME
Con l’unico motivo di ricorso denuncia che, erroneamente, non è stata rimodulata la pena accessoria, irrogata in primo grado nella durata di cinque anni, in misura corrispondente all pena principale, diminuita a seguito di concordato in appello in quattro anni di reclusione, violazione dell’articolo 37 cod. proc. pen..
4. Il ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Con il primo motivo, lamenta violazione dell’articolo 4 della legge n. 242 del 2016 e deg articoli 73 e 80 del d.P.R. n. 309 del 1990, per l’erronea applicazione della normativa in tema detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti in luogo della norma prevista per semilavorati della canapa con finalità agroindustriali.
Sostiene il ricorrente che, nella sua qualità di coltivatore agricolo, regolarmente autorizz avrebbe coltivato canapa per la preparazione di fibre tessili o oli essenziali; in questo caso norma prevede che, qualora il principio attivo presente in tale vegetale sia superiore allo 0,6% come nella specie, dovrebbe disporsi solo la confisca e la distruzione della sostanza, esclusa l responsabilità penale del produttore della canapa.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta mancanza e illogicità della motivazione dell sentenza impugnata, che non si sarebbe confrontata con la documentazione allegata agli atti a dimostrazione della piena liceità dell’attività commerciale svolta nell’ambito dell’attiv impresa.
L’imputato ha prodotto fatture e documentazione relative all’acquisto delle sementi e all regolarità dell’attività commerciale; l’immobile oggetto della perquisizione, contrariamente quanto affermato dalla sentenza impugnata, era poi legittimamente utilizzato e tutte le utenze erano a nome della ditta individuale.
4.3. Con il terzo motivo lamenta vizio di motivazione in relazione all’aggravante dell’ingen quantità di sostanza stupefacente.
Sostiene il ricorrente che, pur ammettendo che il quantitativo di THC complessivamente rinvenuto è leggermente superiore rispetto a quanto previsto dalle Sezioni Unite della Cassazione (Sez. U., n. 36258 del 24/05/2012, COGNOME, Rv. 253150 – 01), la Corte d’appello avrebbe applicato l’aggravante in un caso, quello odierno, che non può essere ricondotto a quello di «estrema gravità», cui la giurisprudenza ormai riconduce l’ipotesi di cui all’art. 80 t.u.s..
4.4. Con il quarto motivo, lamenta vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuan generiche, che sarebbero state negate in ragione di contatti dell’imputato con ambienti criminali che tuttavia non sono stati provati in alcun modo, mentre non sono stati considerati altri pro meritevoli di considerazione: la collaborazione con le autorità che sono intervenute in sede d perquisizione dell’immobile; la lunga durata dell’attività imprenditoriale svolta senza problem l’incensuratezza.
In data 24 gennaio 2025 l’Avv. NOME COGNOME per l’imputato NOMECOGNOME depositava rinuncia al mandato difensivo.
RITENUTO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è manifestamente infondato.
Quanto alla commisurazione delle pene accessorie le Sezioni Unite di questa Corte, superando una giurisprudenza di opposto tenore (Sez. 3, n. 8041 del 23/01/2018, Rv. 272510 – 01), hanno stabilito che (il corsivo è del Collegio) «la durata delle pene accessorie per le q la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui al 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen. (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 276286 – 01; Sez. 3, n. 18879 del 17/04/2024, T., Rv. 286311 – 01).
L’articolo 29 c.p., invece, prevede che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni 5, ossia in misura fissa.
Nel caso di specie, pertanto, pur essendo stata irrogata, a seguito di concordato in appello, una pena di anni 4 di reclusione, la durata della pena accessoria della interdizione dai pubbli uffici doveva rimanere stabilita in anni 5.
Il ricorrente, che del resto ha rinunciato a tutti i motivi di appello diversi da quello sull principale, non può pertanto dolersi della pena accessoria, applicata dalla Corte territoriale ne misura stabilita dalla legge.
Il ricorso di NOME COGNOME è complessivamente infondato.
I primi due motivi possono essere analizzati congiuntamente e sono inammissibili.
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Come correttamente sottolineato anche dal P.G., analoga doglianza è stata già ampiamente valutata da entrambi i giudici del merito, che hanno concordemente ritenuto che «non può ritenersi che la sostanza stupefacente in questione fosse oggetto della lecita attivit produzione della società del Calabretta».
Tra gli elementi che adeguatamente supportano questa conclusione, oltre alla circostanza che l’imputato ha esibito «una sola fattura di acquisto risalente al 2019», è stato considerato fatto che la sostanza è stata rinvenuta in un capannone diverso dal luogo dove avrebbe dovuto essere svolta l’attività d’impresa.
Ruolo decisivo avrebbero avuto anche le modalità di presentazione della sostanza, rinvenuta in quantità rilevante, suddivisa in panetti (alcuni dei quali contenenti sostanza marro compatta) e in cilindri, tali da consentire di inferire che essa non fosse destinata alla preparaz di fibre tessili, «peraltro neanche rinvenute nel capannone».
La documentazione, oggi nuovamente esibita dal ricorrente, nulla aggiunge a quanto già concordemente valutato dai giudici del merito in modo certamente non illogico, trattandosi di una sola fattura e di una sola etichetta relativa a tre anni prima del sequestro, laddov aggiunge per mero tuziorismo il Collegio – il periodo di maturazione delle piante di cannabis sativa varia, a seconda del tipo botanico, dai tre ai sei mesi, mentre le operazioni di macerazione stigliatura e pettinatura, finalizzate alla produzione di filato tessile, richiedono mediam qualche mese (con delle differenze dipendenti dalla natura industriale o artigianale del processo) tempi incompatibili con la remota epoca di emissione della fattura esibita dall’imputato.
La sentenza impugnata si pone quindi in linea di continuità con l’orientamento di questa Corte, secondo cui (il corsivo, ora e in appresso, è del Collegio) «in tema di stupefacenti, inte il reato di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la coltivazione di canapa d varietà iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai se dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, da parte coltivatore diretto, allorquando emerga la prova di una finalità diversa da quella indicata dall’art. 2 della legge 2 dicembre 2016, n. 24» (Sez. 4, n. 16155 del 17/03/2021, COGNOME, Rv. 281150 – 01), circostanza positivamente valutata dalla sentenza impugnata con motivazione certamente non illogica.
Il Collegio evidenzia peraltro come, nel caso di specie, non possa ritenersi applicabi l’articolo 4, comma 7, I. 242/2016, invocato dal ricorrente a discarico.
Ed infatti, occorre ricordare che, a norma del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (GUCE 26/10/2012), tra i prodotti oggetto della politica agricola comune (art.38-44) è inclusa la «la canapa greggia, macerata, stigliata, pettinata o altrimenti preparata, ma non fil stoppa e cascami (compresi gli sfilacciati)», come previsto dall’allegato I del Trattato.
A tali prodotti è assegnato il codice doganale 5302.
Analogamente, la Convenzione Unica sugli stupefacenti di New York del 30 marzo 1961 (recepita in Italia con I. 5 giugno 1974, n. 412), all’articolo 28 stabilisce che le sue dispos non si applicano «alla coltivazione della pianta di cannabis fatta a scopi esclusivamente industriali (fibre e semi) o di orticoltura».
Per dare concretezza a tali previsioni, l’articolo 1, comma 3, lettera a), della I. 242 del 2 stabilisce che il sostegno e la promozione assicurate dalla legge riguardano la coltura finalizzat «alla coltivazione e alla trasformazione» della canapa, con ciò rendendo evidente la differenza tra le due operazioni.
L’articolo 4, a sua volta, letto nella sua interezza (comma 1: «il Corpo forestale dello Sta è autorizzato a effettuare i necessari controlli, compresi i prelevamenti e le analisi di laborat sulle coltivazioni di canapa»; comma 4: «qualora gli addetti ai controlli, ai sensi del comma 1 reputino necessario effettuare i campionamenti con prelievo della coltura, sono tenuti a eseguirli in presenza del coltivatore e a rilasciare un campione prelevato in contraddittorio all’agricoltore stesso per eventuali controverifiche»; comma 5: «qualora all’esito del controllo il contenut complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge»; comma 6: «gli esami per il controllo del contenuto THC delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativ dell’Unione europea e nazionale di recepimento»), rende evidente che la norma si riferisce alle sole operazioni di «coltivazione» di canapa, termine che, secondo una accezione più restrittiva, va inteso come sinonimo di «piantagione» (ossia riferito alle piante prima del raccolto), e secondo una accezione più ampia, come riferito all’attività del coltivare un terreno o determinat piante, comprendente le operazioni che vanno dalla preparazione del terreno, alla raccolta e allo stoccaggio del prodotto. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Va quindi escluso che la speciale causa di esclusione della responsabilità prevista dal comma 7 della disposizione in parola («il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall’autor giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui a comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento. Nel caso di cui al presente comma è esclusa la responsabilità dell’agricoltore») possa trovare applicazione alle attività di «trasformazione» della canapa, successive alla «coltivazione», che come visto sono considerate separatamente dallo stesso legislatore.
In particolare, va senz’altro escluso che essa possa applicarsi ai «derivati» della canapa indiana (come la pasta di colore scuro rinvenuta nel corso della perquisizione), ricavati attravers suddette operazioni di trasformazione della pianta, successive alla raccolta e allo stoccaggio.
I primi due motivi di ricorso, pertanto, non confrontandosi criticamente con le due conformi motivazioni di merito e con la vigente legislazione, sono inammissibili per genericità.
6. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello, dopo aver rammentato i principi contenuti nelle sentenze delle Sezioni Unite COGNOME (Sez. U., n. 36258 del 24/05/2012, COGNOME, Rv. 253150 – 01) e COGNOME (Sez. U, n. 14722 del 30/01/2020, COGNOME, Rv. 279005 – 01), riaffermando che in relazione alle cosiddette droghe leggere l’aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità di principio attivo è inferiore a due chilogrammi, ossia 4.000 volte il valore massimo, in milligrammi (valore – soglia determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ha spiegato che nel caso di specie – tale principio attivo era ben superiore al quantitativo soglia (di circa il ossia 3 kg., e non «di poco», come invece sostenuto dal ricorrente) e che «le modalità della condotta, posta in essere in modo professionale con organizzata attività di coltivazione, sono indicative della … pericolosità e dell’elevato livello di potenziale compromissione della sal dell’ordine pubblico».
La sentenza non presenta alcun deficit motivazionale, facendo anzi buon governo dei principi enucleati dalla Corte. Ed infatti, le citate sentenze delle Sezioni Unite hanno chiarito che re in ogni caso, ferma la possibilità (e non l’obbligo) per il giudice, nell’esercizio del pot valutazione in concreto cui è tenuto, di valorizzare, per corroborare il dato rappresentato d superamento del limite, tutti quegli elementi di fatto mirati a considerare la realtà specifica già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva individua anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 quali indici di per sé esaustivi del ricorrenza dell’aggravante (Sez. U. COGNOME, cit.; Sez. 3, n. 19441 del 19/03/2014, Aquino, Rv 259753; Sez. 6, n. 46301 del 15/10/2014, Sala, n.m. sul punto; Sez. 5, n. 22766 del 03/05/2011, COGNOME, n.m. sul punto; per una sintesi, Sez. 3, n. 37530 del 11/07/2019, Fagbemi, n.m.).
Anche dopo la sentenza COGNOME (Sez. 3, n. 37530 del 11/06/2019, COGNOME, n.m., citata anche dal ricorrente), questa Corte ha infatti ritenuto che i parametri ivi enunciati valgono s «in negativo», nel senso che, al di sotto degli accennati valori quantitativi, l’aggravante (ex 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990) deve ritenersi «in via di massima» non sussistente, così precorrendo il dictum delle Sez. U. COGNOME la quale, al par. 14, parla di «criterio “aritmetic ” temperato dalla discrezionalità giudiziale».
La Corte territoriale si è attenuta a tali principi, ritenendo – non illogicamente – sussi gli elementi, ulteriori rispetto al dato ponderale, per configurare l’aggravante contestata.
6. Il quarto motivo è infondato.
Questa Corte ritiene che le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale «concessione» del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non
contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena” (cfr., Sez. 2, n. 1 del 14.3.2017, COGNOME; Sez. 2, n. 30228 del 5.6.2014, COGNOME); il loro riconoscimento non costituisce, pertanto, un diritto dell’imputato, conseguente all’assenza di elementi negativi, richiede elementi di segno positivo (v. ex multis sez. 3, n. 24128 del 18/3/2021, COGNOME, Rv. 281590; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, n.m.); inoltre, stante la ratio della disposizione di cui all’art. 62-bis cod. pen., al giudice di merito non è richiesto di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (sez. 2 3896 del 20/1/2016, Rv. 265826; sez. 7 n. 39396 del 27/5/2016, Rv. 268475; sez. 4 n. 23679 del 23/4/2013, Rv. 256201), rientrando la stessa concessione di esse nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena all gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (sez. 6 n. 41365 del 28/10/2010, R 248737). Non è neppure necessario esaminare tutti i parametri di cui all’art. 133 cod. pen., ma è sufficiente specificare a quale si sia inteso far riferimento (sez. 1, n. 33506 del 7/7/2010, 247959; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, COGNOME, Rv 242419).
Rileva altresì la Corte che «il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai della concessione della diminuente, non é più sufficiente il solo stato di incensuratezz dell’imputato (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01; Sez. 1, Sentenza n, 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986 – 01)».
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che ostassero al riconoscimento dell circostanze atipiche le «modalità di esecuzione della condotta», le quali evidenziano non solo «un’organizzazione e programmazione, ma anche una non occasionalità della stessa nonché necessari collegamenti con ambienti criminali».
Coglie nel segno il Procuratore generale laddove evidenzia che la Corte di merito ha tenuto in debita considerazione la circostanza che la distribuzione di quantitativi di stupefacenti del di quelli rinvenuti presuppone necessariamente il contatto con ambienti criminali, valutazione certamente non illogica e che giustifica il diniego.
In conclusione, il Ricorso di NOME COGNOME va dichiarato inammissibile, mentre quello di COGNOME COGNOME va rigettato.
Entrambi gli imputati vanno condannati al pagamento delle spese processuali, mentre il solo NOMECOGNOME non sussistendo elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza
versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», deve essere condannato al versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in
euro 3.000,00.
P.Q.M.
•
Rigetta il ricorso di NOME COGNOME che condanna al pagamento delle
Spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 4 marzo 2025.