Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 11964 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 11964 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME NOME nato a Roma il 02/04/1984; NOME nata ad Anzio il 17/07/1975; nel procedimento a carico dei medesimi; avverso la sentenza del 20/05/2024 della Corte di Appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sost. Procuratore Generale dr. NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in ordine alla posizione di NOME NOME e la dichiarazione di inammissibilità per il ricorso di NOME.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del tribunale di Latina del 25 febbraio 2022, con cui NOME e NOME erano stati condannati per il reato ex art. 73 del DPR 309/90 per coltivazione di marjivana.
Avverso la predetta sentenza NOME e NOME mediante il rispettivo difensore, hanno proposto ricorso per cassazione.
NOME deduce con il primo motivo vizi di violazione di legge in ordine all’art. 73 del DPR 309/90 e di carenza di motivazione in ordine
all’elemento soggettivo del reato. Si contesta che il ricorrente fosse consapevole della illiceità della piantagione per la sola ragione per cui egli era un coltivato diretto, in quanto non poteva aprioristicamente conoscere – nel quadro della disciplina relativa alla coltivazione della canapa – la futura evoluzione del ciclo colturale di semi acquistati regolarmente. Ed anzi, la predetta qualificazione, in uno con il rispetto di requisiti sanciti ex lege 242/16 e la regolare locazione del terreno coltivato, facilmente raggiungibile e mostrato dal ricorrente agli inquirenti, confermerebbe l’assenza del dolo.
Con il secondo motivo rappresenta il vizio di motivazione, per il diniego delle circostanze attenuanti generiche operato sulla base di mere clausole di stile, pur a fronte della collaborazione offerta dal ricorrente, e pe l’intervenuto discostamento dal minimo edittale della pena. Quanto alla pena, non si sarebbe dato atto della valutazione dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen.
NOME con il primo motivo deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione ai motivi nuovi proposti ex art. 585 cod. proc. pen. in data 11.4.2024 e 18.4.2024, rimasti privi di analisi e di risposta. I motivi dell’11.4.2024 avrebbero avuto riguardo al tema della responsabilità ascritta alla ricorrente, afferendo a ragioni di carattere giuridico che sarebbero state già illustrate nei motivi principali dal precedente difensore, avv.to COGNOME Quanto al motivo del 18.4.2024, esso avrebbe avuto riguardo alla nullità della intervenuta campionatura della sostanza sequestrata, quale censura già sollevata dal difensore dell’imputato avv.to COGNOME, così da essere anche esso ammissibile per intervenuto effetto estensivo dell’appello del predetto coimputato.
Con il secondo motivo deduce vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 40 cod. pen., 110 cod. pen, 73 DPR 309/90. Mancherebbe la motivazione sul ritenuto coinvolgimento della ricorrente, a fronte della illogica valorizzazione della presenza, all’interno della abitazione della stessa, di numerose piantine di marijuana oggetto peraltro di separato procedimento. Piuttosto, sarebbe potuto emergere un caso di connivenza non punibile.
Con il terzo motivo rappresenta vizi di violazione di legge e di motivazione, in ordine alla legge 242/2016 e alle direttive comunitarie nn. 1307/2013 e 1155/2017. Si sostiene la inutilizzabilità della consulenza tecnica e la nullità della previa campionatura effettuata. Sul punto le censure della difesa
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sarebbero rimaste senza risposta e si osserva che sarebbe inutilizzabile l’esito della campionatura delle sostanze repertate, siccome effettuata senza seguire la disciplina dettata con L. 242/2016 per la effettuazione della medesima.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Come già evidenziato con sentenza di questa sezione del 7.12.2018 n. 10809, non massimata, deve premettersi che la coltivazione non autorizzata di piante da stupefacenti è punita ai sensi dell’art. 73 del D.P.R. 309/90, laddove include tra le varie condotte penalmente rilevanti anche quella di chiunque coltivi senza autorizzazione piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope. In ragione del mancato richiamo nell’ambito della previsione di cui all’art. 75 del D.P.R. citato, le condotte di coltivazione assumono rilevanza penale anche in caso di uso solo personale della sostanza stupefacente. In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. U. n. 28605 del 24/04/2008 Di COGNOME, Rv. 239920 – 2389921) che hanno precisato come ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti sia irrilevant l’eventuale destinazione ad uso personale, sebbene sia comunque indispensabile la verifica, in concreto, dell’offensività della condotta, con riferimento al idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. Su questo ambito di operatività dell’art. 73 citato, con riferimento alla condotta di coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, è intervenuto il Legislatore con novella di cui all’art. 1 comma 4 del D.L. 20 marzo 2014 n. 36 convertito, con modificazioni, nella L. 16 maggio 2014 n. 79, laddove all’art. 26 comma 1 del DPR 309/90 ha previsto che «salvo quanto stabilito nel comma 2 è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’art. 14 ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali diversi da quelli di cui all 27 consentiti dalla normativa dell’Unione Europea.» All’articolo 27 prima citato si prevede la possibilità del rilascio di un’autorizzazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope in favore di soggetti contemplati agli artt. 16 e 17, che contenga, tra l’altro, l’indicazione della specie di coltivazione e dei prodotti che s intendano ottenere; con la precisazione, contenuta nel comma 3 del medesimo articolo, per cui in tali ultimi casi l’autorizzazione è valida «oltre che per coltivazione anche per la raccolta, la detenzione, e la vendita dei prodotti ottenuti», purchè però effettuata esclusivamente dalle ditte titolari di autorizzazione per la fabbricazione e l’impiego di sostanze stupefacenti. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
A fronte della illustrata cornice normativa, il legislatore ha ritenuto d intervenire per ulteriormente disciplinare l’attività di coltivazione della canapa mediante la legge 242/2016 (intitolata «disposizioni per la promozione della
coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa»), la quale reca « per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della c (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla ridu dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonchè come coltura da impie quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazi (cfr. art. 1).
L’art. 1, comma 2, delimita l’ambito applicativo della legge, la quale si ri «alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo com delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambi di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei re stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubbl ottobre 1990, n. 309».
Il comma 2 del medesimo articolo 1 specifica le finalità della coltura della ca così disciplinata, quali:
la relativa coltivazione e trasformazione;
l’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di can provenienti da filiere prioritariamente locali;
lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati del e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economi ambientale;
la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;
la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, a didattiche e di ricerca.
L’art. 2, nel precisare al primo comma che la coltivazione di canapa confor alle prescrizioni di cui alla L. 242/2016 non richiede una preven autorizzazione, stabilisce ulteriormente, nel definire i prodotti ricavabi coltivazione della predetta tipologia di canapa, l’ambito entro la quale op disciplina in parola. Dispone infatti, al comma 2, che dalla canapa coltiva sensi del comma 1 e’ possibile ottenere:
alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle disciplin rispettivi settori;
semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburant forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compr energetico;
materiale destinato alla pratica del sovescio;
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e
materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonchè di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
coltivazioni destinate al florovivaismo.
Particolare attenzione è dedicata altresì alla fase della coltivazione ed ai relativi controlli. Infatti l’art. 4 disciplina le modalità dell’attività di campioname svolta dai soggetti deputati ai controlli sulle coltivazioni, con particola riferimento alla determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC).
Nel caso in cui all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 pe cento, si prevede che nessuna responsabilità sia « posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge» (il quale ha tra l’alt l’obbligo, di cui all’art. 3, di conservare sia cartellini della semente acquistata pe un periodo non inferiore a dodici mesi sia le fatture di acquisto della medesima per il periodo previsto dalla normativa vigente). Nel caso in cui, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3 dell’art. 4, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione sia superiore allo 0,6 per cento, l’autorità giudiziaria potrà procedere al «sequestro o distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla citata legge». Pur essendo esclusa comunque, in tal caso e, dunque, in presenza delle predette condizioni, la responsabilità dell’agricoltore.
Si tratta di una previsione che appare rispettosa del Regolamento (UE) n.1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio (art. 32 paragrafo 6) recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, secondo cui la percentuale di THC non deve superare, appunto, lo 0,2%
Può anticiparsi che la ratio di questo limite, che caratterizza la coltivazione di canapa incoraggiata e incentivata dalla legge n. 242 del 2016, è di intuitiva evidenza: quella soglia individua una percentuale di THC così esigua da essere inidonea a provocare qualsivoglia effetto stupefacente o psicotropo.
Consegue che la liceità della coltivazione della canapa e dei prodotti di quella filiera che da essa derivano soggiace all’esigenza, tradotta nel citato limite, per cui la percentuale di THC deve essere priva di efficacia drogante.
Come emerge chiaramente dalla lettura delle norme in cui si articola la disciplina riportata, l’oggetto della stessa è esclusivamente la coltivazione della canapa, comprensiva della successiva filiera agroindustriale, come definita, oltre che dall’art. 1 comma 2 nella sua tipologia, anche attraverso l’esplicita individuazione
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dei settori finali di riferimento, ulteriormente descritti anche mediante l’indicazione dei prodotti ricavabili dal tipo di coltivazione consentita. Tali final e prodotti, assieme alla tipologia di sementi utilizzabili ed alla prova delle stesse (assicurata ai sensi del citato art. 3 mediante la conservazione dei cartellini della semente e delle fatture di acquisto della medesima) definiscono nel contempo il campo delle “prescrizioni” citate dall’articolo 4 comma 5 della L. 242/2016, quali condizioni il cui rispetto assicura l’esonero da responsabilità penale del coltivatore nel caso in cui, all’esito dei controlli svolti, il contenuto complessivo THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento.
Deve rilevarsi, in altri termini, che il legislatore ha elaborato la disciplina parola, di promozione innanzitutto della coltivazione della canapa, avendo cura nel contempo di garantire al coltivatore che ne rispetti l’intera disciplina spazi di esonero dalla responsabilità astrattamente configurabile in virtù della applicazione della normativa di cui al D.P.R. 309/90, come illustrata in premessa con riferimento al settore in esame. Depongono in tal senso plurime indicazioni: 1) il riferimento e la delimitazione dei limiti massimi di THC presenti nella coltivazione; 2) il richiamo alla possibilità per l’Autorità giudiziaria di interven con il sequestro della coltivazione per la relativa distruzione; 3) la precisazione stessa dell’esonero “da responsabilità”, solo a date condizioni, del coltivatore.
Lo spazio di liceità che viene così definito in ordine alla coltivazione della canapa oggetto della L. 242/2016 risulta essere il seguente: 1) deve trattarsi della coltivazione della tipologia di canapa indicata dalla legge, che sia finalizzata ai settori agroalimentari di cui all’art. 2 comma 2 citato; 2) il livello massimo consentito presente in coltura non può essere superiore allo 0,2 %: 3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei soli prodotti tassativamente elencati dal citato art. 2 comma 2.
Il rispetto delle predette condizioni fa sì che sia lecita anche l commercializzazione dei prodotti ricavabili dalla coltivazione come disciplinata con la legge citata, riconducibili alle tipologie e settori espressamente contemplati dalla legge .
In tale quadro, occorre precisare che qualora il livello di THC superi il predetto limite dello 0.2% ma rimanga entro il valore massimo dello 0,6 % la coltivazione, ove ne emerga l’offensività ovvero l’idoneità della sostanza ricavabile a produrre un effetto drogante, potrà ritenersi oggettivamente illecita, ai sensi dell’art. 73 D.P.R. 309/90 e nel quadro dei principi stabiliti dall giurisprudenza di legittimità per la coltivazione di sostanze stupefacenti, pur escludendosi comunque la responsabilità del coltivatore che abbia rispettato le condizioni di legge. In tale ultimo caso il Legislatore ha ritenuto, in sostanza, di non porre a carico del coltivatore vicende a lui non imputabili e ascrivibili
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piuttosto al naturale ciclo colturale pur a fronte di un tipo botanic tendenzialmente suscettibile di rimanere nell’ambito dei livelli massimi consentiti.
Diversamente, non si spiegherebbe la scelta di escludere espressamente la responsabilità dell’agricoltore che abbia comunque rispettato le prescrizioni di legge allorquando la percentuale di THC risulti superiore alla predetta soglia.
L’incidenza parzialmente derogatoria della L. 242/2016 sulla norma di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 con riferimento alla coltivazione di sostanze stupefacenti e alla relativa commercializzazione, come ora descritta, ne impone una lettura assolutamente restrittiva trattandosi di disciplina di carattere eccezionale sotto tale aspetto.
Ed invero, con riferimento invece al commerciante di prodotti a base di canapa, deve riconoscersi sul piano oggettivo la possibilità della configurabilità del reato ex art. 73 comma 4 DPR 309/90 ove sussistano i profili oggettivi oltre che soggettivi necessari. A partire dalla necessaria concreta efficacia psicotropa della sostanza alla luce della verificata percentuale di THC, considerata secondo le attuali valutazioni tecniche.
Egualmente deve dirsi quanto alla possibilità di procedere al sequestro dei prodotti derivanti dalla coltivazione di canapa pur svolta in ossequio alla L. 242/2016 allorquando sussista il fumus del reato ex art. 73 comma 4 DPR 309/90 ossia, per quanto qui particolarmente interessa, quando si accerti una percentuale di THC idonea a produrre un significativo effetto drogante.
Tale interpretazione appare la più aderente al dato normativo ed alla sua ratio, perché da una parte esonera da responsabilità l’agricoltore che abbia rispettato le disposizioni di legge nel caso in cui la percentuale di THC, presente nelle piante coltivate, sia idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo, non essendo a lui ascrivibile in tal caso la naturale evoluzione del ciclo colturale a fronte di sementi comunque appartenenti alle varietà previste dalla legge e come tali a basso contenuto di THC. Dall’altro, garantisce il rispetto del principio secondo cui i prodotti derivati dalla coltivazione della canapa possono essere liberamente commercializzati – nei settori di cui alla L. 242/2016 – a condizione che la quantità di THC non sia tale da provocare alcun effetto stupefacente o psicotropo, atteso che, diversamente, trova applicazione la disciplina generale prevista dall’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. Va, peraltro precisato che ove il prodotto a base di canapa non rientri tra quelli espressamente contemplati dall’indicato art. 2, comma 2, ciò non è di per sé sufficiente per la configurabilità del delitto punito dall’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990, dovendosi accertare l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
2. E’ in questa prospettiva che deve esser analizzata la questione dedotta dal Valente con il primo motivo. Con cui si contesta che il ricorrente fosse consapevole della illiceità della piantagione, per la sola ragione per cui egli era un coltivatore diretto, in quanto non poteva aprioristicamente conoscere – nel quadro della disciplina relativa alla coltivazione della canapa -la futura evoluzione del ciclo colturale di semi acquistati regolarmente. Ed anzi la predetta qualificazione, in uno con il rispetto di requisiti sanciti ex lege 242/16 e l regolare locazione del terreno coltivato, facilmente raggiungibile e mostrato dal ricorrente agli inquirenti, confermerebbero la assenza del dolo.
Si tratta di censura invero generica, atteso che pur rivendicando l’operatività della suindicata disciplina in materia di coltivazione di canapa, al fine di sfruttarne gli spazi che escludono la responsabilità del coltivatore anche a fronte del superamento, entro certi limiti, del livello di THC, come sopra illustrato, i ricorrente non allega l’intervenuto rispetto delle plurime condizioni, requisiti e comprovati ambiti di operatività della coltivazione, propri della predetta cornice normativa, nel cui ambito soltanto, come sopra ampiamente evidenziato, è possibile promuovere rivendicazioni difensive del tipo in esame. Limitandosi al solo, parziale ed insufficiente richiamo all’acquisto regolare delle sementi. Il motivo è quindi inammissibile.
3. Tale è anche il secondo motivo: a fronte di una adeguata quanto non manifestamente illogica motivazione, che legittimamente si articola nella assenza di elementi positivi, in linea, sul punto, con noti e conclamati indirizz giurisprudenziali di legittimità, oltre che nella specificazione dei giudici, per cui circostanza della riferita coltivazione, da parte dei coimputati, è stata non autonoma e sostanzialmente irrilevante, sul rilievo per cui la scoperta di piantine in casa e del contratto di locazione avrebbe comunque condotto al rinvenimento della coltivazione stessa da parte degli operanti.
Emerge una adeguata motivazione espressa, anche per il trattamento sanzionatorio, fondata sulla gravità di un fatto connotato da organizzazione e professionalità, come anche descritta nella sentenza conforme di primo grado, come tale da valutare con la seconda sentenza per la ricostruzione complessiva della motivazione. In proposito, va ribadito che resta insuperato l’insegnamento di Sez. U, n. 5519 del 21/04/1979, COGNOME, Rv. 142252, secondo cui è da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla misura della pena allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art. 133 cod. pen., ritenuto prevalent e di dominante rilievo, non essendo tenuto il giudice ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in u visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di
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quelli ritenuti rilevanti e decisivi (così, in motivazione, anche Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo; si veda anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013).
Il primo motivo proposto nell’interesse di NOME è inammissibile. Quanto ai motivi nuovi del 11.4.2024, essi non sono specificati in ricorso nelle loro articolazioni, come formulate in sede di appello, né è illustrata la relativa decisività. In contrasto con il principio per cui, in tema di ricorso pe cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell’appello dei motivi articolati con l’atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell’impugnazione e la decisività del motivo negletto, al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di rico contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3 – n. 8065 del 21/09/2018 GLYPH (dep. 25/02/2019 ) Rv. 275853 – 02). Quanto ai motivi del 18.4.2024, va richiamato il principio generale delle impugnazioni, concernente la necessaria connessione tra i motivi originariamente proposti e i motivi nuovi, per cui in assenza, come riportato in ricorso, di un corrispondente motivo proposto con atto di appello dalla stessa difesa che ha proposto il predetto nuovo motivo, viene meno la predetta condizione di validità dello stesso, senza che si possa “sfruttare” la preesistenza di analoga censura proposta con distinto atto di impugnazione avanzato da altro coimputato. Come si cerca di proporre nel caso in esame. Va aggiunto che anche per esso, comunque, non se ne specifica la portata e la
decisività.
Il secondo motivo appare manifestamente infondato, atteso che la Corte ha evidenziato – con rinvio alle pagine della prima sentenza che descrivono, nella sostanza, una piena consapevolezza e disponibilità anche da parte della ricorrente di tutto quanto rinvenuto dagli operanti e riconducibile alla coltivazione, non da ultimo rilevando anche la fornitura, da parte di entrambi gli interessati, del contratto di affitto del terreno usato per la coltivazione in serre una piena fungibilità dei medesimi in rapporto ai fatti loro contestati.
Quanto al terzo motivo dedotto nell’interesse di NOME, esso si collega al tema del rispetto delle procedure previste dalla L. n. 242 del 2016 e relativi controlli. Trattasi di questione giuridica, per cui vige il generale princip secondo il quale il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura
costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. in tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 NOME). Tanto precisato, da una parte occorre richiamarsi a quanto osservato in sede di esame del primo motivo proposto dal COGNOME per rilevare come, in mancanza di piene deduzioni circa la riconducibilità della vicenda nell’ambito della cornice normativa della legge prima citata, viene meno anche la possibilità di operare un corretto e pertinente richiamo alla disciplina dei controlli di cui alla legge medesima. Dall’altra e per completezza, va osservato che in tema di controlli sulla coltivazione della canapa come disciplinata nei termini già illustrati, rileva innanzitutto l’art. 4 della citata le ma va allora preliminarmente richiamato anche l’inciso, contenuto nel primo comma della disposizione citata, che fa “salvo ogni altro tipo di controllo da parte degli organi di polizia giudiziaria eseguito su segnalazione e nel corso dello svolgi- mento di attività giudiziarie”. Il riferimento ad “altro tipo di controll rende ragione della finalità diversa – e, quindi, della modalità diversa di esecuzione dell’ “altro tipo di controllo” contemplato dalla norma – che il controllo eseguito dalla polizia giudiziaria, finalizzato all’acquisizione di elementi di prova per l’accertamento di un reato, nella specie in materia di stupefacenti, riveste rispetto ai “controlli” contemplati dalla generale previsione dettata, per il solo Corpo Forestale dello Stato (oggi, Carabinieri forestali), dal comma 1 dell’art. 4 (cfr. già Sez. 3, n. 28501 del 08/03/2024, Rv. 286691 – 01). Questi ultimi, infatti, sono i controlli, compresi i prelevamenti e le analisi di laboratorio, che s dovessero rendere necessari sulle coltivazioni di canapa: la procedura, per i campionamenti con prelievo della coltura, ai sensi del comma 4 prevede anche la presenza obbligata del coltivatore e l’obbligo di rilasciare un campione prelevato in contraddittorio – all’agricoltore stesso, per eventuali controverifiche. Ai sensi del comma 6, gli esami per il controllo del contenuto di tetraidrocannabinolo delle coltivazioni devono sempre riferirsi a medie tra campioni di piante, prelevati, conservati, preparati e analizzati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell’Unione europea e nazionale di recepimento. Si tratta, quindi, di controlli finalizzati ad accertare il rispetto del condizioni in base alle quali la L. n. 242 del 2016 consente la liceità della coltivazione e non invece i controlli, svolti dalla polizia giudiziaria, che hanno tipicamente finalità diverse. La questione è quindi manifestamente infondata. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i
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ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2025.