Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 35825 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 35825 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto dal:
NOME COGNOME, nato a MILANO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia del 21/02/2025 visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione, COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata del 21 febbraio 2025, la Corte d’appello di Brescia ha riformato solo in relazione al trattamento sanzionatorio la decisione del Tribunale di Bergamo in data 23 maggio 2024, con la quale è stata affermata la responsabilità penale di NOME COGNOME per il reato di bancarotta semplice – così riqualificato il fatto originariamente al medesimo ascritto ai sensi degli artt. 216, 223, comma 2, n.2 1.f. – nella qualità di amministratore di “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita il 21 giugno 2018.
Avverso la sentenza indicata della Corte d’appello di Brescia ha proposto ricorso l’imputato, con atto a firma del difensore, AVV_NOTAIO, affidando le proprie censure a due motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si deduce violazione di legge e vizio della motivazione in riferimento all’affermazione di responsabilità per avere la Corte di merito presunto la gravità della colpa sulla base della condotta dell’imputato che, ritardando l’istanza di fallimento, avrebbe aggravato il dissesto, in tal guisa formulando una mera presunzione e trascurando gli elementi segnalati dalla difesa, invece indicativi della prospettiva di continuità aziendale, dimostrata dalle richieste di rateizzazione dei debiti erariali, e dalla causa del dissesto, riferibile alla mancata esazione di crediti per rilevanti importi; circostanze tali da ricondurre il processo decisionale dell’imputato nel limite della ragionevolezza.
In tal modo, ad avviso dell’appellante, la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi di diritto enunciati in tema di colpa grave nell’aggravamento del dissesto, limitandosi ad un giudizio presuntivo.
2.2. Con il secondo motivo, denuncia vizio della motivazione, sub specie di apparenza, per avere la Corte territoriale recepito per relationem la sentenza di primo grado, senza confrontarsi con le ragioni dell’impugnazione, meramente elencate in premessa e rimaste, nel merito, irrisolte.
Con la requisitoria scritta del 22 settembre 2025, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione, NOME COGNOME, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1.11 primo motivo è, complessivamente, infondato.
1.1. Il ricorrente assume che, nel riqualificare il fatto rispetto all’originar imputazione di bancarotta impropria, dapprima il Tribunale e, conformemente, il giudice dell’impugnazione, si siano affidati ad una mera presunzione di colpa, omettendo di verificare, in concreto, il giudizio di prevedibilità-evitabili dell’aggravamento del dissesto, nei termini di gravità postulati dalla fattispecie ritenuta sussistente.
Trattasi di deduzione generica e, nel complesso, non conducente.
1.2. Premesso che, ai sensi dell’art.217, comma 1, n.4, legge fall., é punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo 216 della stessa legge, ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che l’omissione della tempestiva richiesta di dichiarazione del proprio fallimento, causa di aggravamento del dissesto, deve essere sorretta dal coefficiente psicologico della colpa grave, che non è presunta ex lege (Sez. 5, n. 18108 del 12/03/2018, COGNOME, Rv. 272823 – 01; Sez. 5, n. 38077 del 15/07/2015, Preatoni, Rv. 264743; Sez. 5, n. 43414 del 25/09/2013, Pg in proc. Zille e altri, Rv. 257533).
Il delitto in esame mira – come noto – ad evitare che l’esercizio continuato dell’impresa, anche a fronte di una situazione di obiettiva impossibilità di far fronte alle proprie obbligazioni, possa prolungare lo stato di perdita.
Come osservato nella sentenza n. 18108 del 2018, cit, si è discusso se il requisito della colpa grave si riferisca solo alle altre condotte, identificat oggettivamente dalla loro causalità orientata all’aggravamento del dissesto, ovvero se esso connoti in realtà l’intero complesso dei fatti riconducibili alla previsione incriminatrice in esame, investendo, pertanto, anche la condotta di omessa o ritardata richiesta di fallimento. La questione è evidentemente posta dalla presenza nella norma dell’attributo «altra», che qualifica il grado della colpa (grave) immediatamente dopo la descrizione della condotta appena indicata. Tanto – si è sostenuto – potrebbe indicare che il legislatore abbia considerato come intrinsecamente ed inderogabilmente grave la colpa di chi ometta di richiedere tempestivamente il proprio fallimento, ponendo tale comportamento quale parametro del grado di colpa da ricercarsi invece, di volta in volta, nelle diverse condotte
contestate alla stregua della stessa incriminazione; ma può significare altresì – come pure è stato prospettato – che, in quanto coefficiente psicologico comune a tutte le condotte riconducibili alla norma in esame, la colpa grave debba essere accertata anche nell’ipotesi della ritardata istanza di fallimento.
Il punto in discussione non è quindi, a ben guardare, se la colpa grave sia elemento psicologico che caratterizza le plurime condotte descritte nella fattispecie incriminatrice, conclusione sulla quale le opinioni riportate finiscono per concordare; il quesito è, invece, se la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall’imprenditore in stato di insolvenza.
Nella delineata prospettiva, la soluzione affermativa è stata ritenuta priva di ragionevolezza e, in ogni caso, non postulata dalla formulazione letterale della disposizione normativa.
Sotto il primo profilo, non sfugge come il ritardo nella determinazione dell’imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che varia dall’estremo dell’assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell’opinabile valutazione sull’efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L’eterogeneità di siffatte situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. In tal senso, è stato condivisibilmente rilevato come il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento sia ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato.
Per altro verso, il rilievo per cui la norma postuli espressamente un’«altra grave colpa» per le condotte diverse da quella di ritardato fallimento non implica, necessariamente, che quest’ultima sia intesa dal legislatore come manifestazione tipica di colpa grave. È infatti possibile una lettura che sottintende tale condotta come punibile in quanto connotata, in concreto, da colpa grave, al pari di altri comportamenti non tipizzati altrimenti che per la loro efficienza causale rispetto all’aggravamento del dissesto; sicché, in altri termini, la tardiva richiesta di fallimento assume la consistenza di un’omissione penalmente rilevante ove oggetto di una scelta caratterizzata da colpa di livello grave (in tali termini, Sez. 5, n. 18108 del 2018, Rv. 272823 – 01, cit).
Questa opzione interpretativa, oltre ad essere non incompatibile con il dato letterale, neppure contrasta con l’orientamento per il quale la norma incriminatrice non richiede comportamenti ulteriori che concorrano con la mancata richiesta di
fallimento ed il conseguente aggravamento del dissesto, anche solo per effetto del mero proseguimento dell’attività di impresa (Sez. 5, n. 13318 del 14/02/2013, Viale, Rv. 254986): oggetto di punizione è l’aggravamento del dissesto dipendente dal semplice ritardo nell’instaurare la concorsualità, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti (Sez. 5, n. 28609 del 21/04/2017, COGNOME, Rv. 270874).
In conclusione, la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento in proprio deve essere, in sé stessa, determinata da un atteggiamento gravemente colposo, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie.
1.3. A siffatti principi si è attenuta la sentenza impugnata.
Nel caso in esame, ed a maggior ragione alla luce della ratio decidendi dell’operata derubricazione, la Corte territoriale, lungi dal far discendere la sussistenza di colpa grave a carico dell’imputato dalla mera circostanza del ritardato deposito dell’istanza di fallimento, ha dato compiuta prova degli elementi da cui desumere la piena conoscenza da parte del ricorrente dello stato di decozione in cui versava l’impresa; elementi da cui si evince come il COGNOME potesse adeguatamente rappresentarsi preventivamente che la scelta di ritardare la presentazione dell’istanza di dichiarazione di fallimento avrebbe potuto, del tutto ragionevolmente, determinare l’aggravamento del dissesto.
A tal fine, la Corte di merito ha valorizzato plurimi e concorrenti indicatori, quali:
l’insorgenza del debito tributario, risalente agli anni 2014-2015, a breve distanza temporale dalla costituzione della società (25 settembre 2013);
la rateizzazione di siffatto debito erariale, quantificato in oltre 400.000,00 euro a fronte di un passivo inferiore a 600.000,00 euro, rimasta solo in minima parte adempiuta, senza la rappresentazione di ragioni, eventualmente sopravvenute ed imprevedibili, che ne avrebbero potuto giustificare l’inottemperanza;
l’ingravescenza dello stesso debito in seguito al maturare degli interessi ed il perdurante aggravio dei costi di gestione che avrebbero determinato i dipendenti ad avanzare istanza di fallimento per le retribuzioni non corrisposte;
la cessazione dell’attività nel 2016, la messa in RAGIONE_SOCIALE e la nomina del liquidatore nel 2017 quando lo stato di crisi si palesava irreversibile.
In particolare, la Corte di merito ha dapprima richiamato le dichiarazioni del curatore fallimentare, che evidenziavano la sussistenza di un andamento negativo della società sin dal 2014 e la difficoltà a fronteggiare le obbligazioni sociali si dall’avvio dell’attività di impresa, la cronica esposizione debitoria nei confronti dell’Erario ed il progressivo aumento dei debiti insoluti anche nei confronti dei
dipendenti; quindi la Corte ha conferito rilievo allo specifico ruolo preminente nella società rivestito dall’imputato, che ne deteneva il 98% del capitale, alla consistenza dell’esposizione debitoria, sempre crescente, e, soprattutto alla mera procrastinazione che la rateizzazione del debito tributario ha significato, alla luce della sostanziale inerzia nel pagamento dei ratei.
A fronte di siffatto, articolato, costrutto motivazionale, che delinea puntualmente le coordinate di un qualificato profilo di gravità della colpa, il ricorso finisce per ribadire l’asserita mancata considerazione dei crediti vantati dalla società, che in tesi avrebbero indotto l’imputato a proseguire nell’attività d’impresa, confidando ragionevolmente nella sua evoluzione positiva.
Ma di siffatti crediti il ricorrente non circostanzia puntualmente né la natura, né l’esigibilità, né l’eventuale esperimento di azioni recuperatorie, sì da evidenziare elementi di irragionevolezza nella prognosi postuma di inevitabilità della decozione che la Corte d’appello ha puntualmente svolto e posto a fondamento dell’accertamento di gravità della colpa.
Il punto della censura, con la quale si deduce vizio della motivazione in riferimento all’asserita preterizione delle censure proposte con l’appello è, pertanto, complessivamente infondato.
Il secondo motivo resta – per le ragioni già evidenziate – assorbito ed è, comunque, manifestamente infondato.
Già dalla lettura della sentenza impugnata si rileva come la Corte di merito abbia adottato un metodo di tipo evidentemente confutativo, ponendosi in dialettico confronto con i motivi di gravame, in tal modo articolando la motivazione secondo lo standard richiesto da questa Corte (ex multis Sez. 3, n. 38126 del 06/06/2024, Amore, Rv. 287104 – 01).
Alla luce di quanto sin qui argomentato, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato ex art. 616 cod. proc. pen. al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processu
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2025
Il Consigliere estensore
GLYPH Il Presidente