Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 2129 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 2129 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE presso la CORTE D’APPELLO di VENEZIA nonché sul ricorso proposto da: COGNOME nato a CAMPOBASSO il 13/02/1965 nel procedimento a carico di quest’ultimo, avverso la sentenza del 01/03/2024 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi, riportandosi alla memoria depositata; uditi gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente NOME COGNOME che hanno chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso della Procuratore generale territoriale e hanno illustrato i motivi del proprio
ricorso e un motivo aggiunto, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Venezia, a seguito di annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione, Sez. 1, sentenza n. 13123 del 2024, mandava assolto NOME COGNOME dai reati contestati ai capi 4), 4-bis), 8) e 8-bis) per i delitti di traffico di influenze e collusione militare – per insussistenza del fatto, residuando la sola responsabilità penale per il capo 9).
Per quel che rileva, rispetto ai ricorsi per cassazione ora in esame, va evidenziato che il 21 luglio 2020 il Tribunale di Venezia aveva giudicato NOME COGNOME ritenendolo responsabile dei reati di traffico di influenze illecite di cui ai capi 4) e 8)(artt. 110, 346-bis, commi primo e terzo, cod. pen.), collusione militare di cui ai capi 4-bis) e 8-bis ) (artt. 110 cod. pen., 3 I. 9 dicembre 1941, n. 1383), nonché del delitto di accesso abusivo alla banca dati dell’Anagrafe tributaria, come contestato al capo 9) (artt. 81, comma secondo, 110, 326, 615-ter, commi primo, secondo, n. 1, terzo, cod. pen.).
Rileva anche, ai fini della migliore comprensione del ricorso del Procuratore generale territoriale, come l’imputazione contestata al capo 4-bis) per il delitto di collusione militare, contestazione così formulata nei confronti di NOME COGNOME in concorso con NOME COGNOME nonché con NOME COGNOME e NOME COGNOME per i quali si è proceduto separatamente: «reato di cui agli artt. 110 c.p. e 3, Legge 1383 del 1941, perché il COGNOME quale Tenente Colonnello della Guardia di Finanza, in servizio presso il Comando Regionale Veneto, con sede a Venezia, in concorso con RAGIONE_SOCIALE NOME, commercialista incaricata di assistere le società nel corso delle verifiche fiscali e innanzi alla GdF e nelle vertenze con l’Agenzia delle Entrate, colludeva con gli imprenditori COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali amministratori di fatto della società “RAGIONE_SOCIALE” (rispettivamente anche amministratori unici nel periodo dal 30/07/2015 al 26/01/2016 il RAGIONE_SOCIALE e dal 25/08/2012 al 07/09/2015 il COGNOME), e della società “RAGIONE_SOCIALE“, nonché NOME COGNOME anche quale amministratore unico e legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE“, con le condotte descritte al precedente capo d’imputazione, al fine di frodare la finanza. In particolare il COGNOME si faceva consegnare denaro ed un orologio per un valore complessivo di 40.000 euro, promettendo interventi presso l’Agenzia delle Entrate diretti a far conseguire agli imprenditori una riduzione delle contestazioni loro mosse, ad impedire un’estensione delle verifiche nei confronti dei soci, comunicando in anticipo notizie circa ulteriori attività ispettive su società a loro riconducibili, ed infine consigliando loro stratagemmi ed argomenti per ribattere ai rilievi mossi in verifica, istigandoli a procurarsi false dichiarazioni attestanti la detenzione all’estero invece che in Italia di veicoli della
società a loro in uso, a far sparire la contabilità compromettente detenuta presso la sede societaria. Con il concorso di COGNOME NOME la quale istigata dal COGNOME, teneva la condotta descritta al capo 4) ed inoltre predisponeva e faceva pervenire ai militari della GdF, che stavano eseguendo la verifica fiscale nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, falsi documenti e false dichiarazioni sull’utilizzo delle autovetture d proprietà della società, sul loro stato e luogo ove queste si trovavano. In provincia di Venezia, dal settembre 2015 al dicembre 2016».
Il capo 4), al quale in parte rinviava l’imputazione di collusione militare ora riprodotta, contestava il reato di cui agli artt. 110, 346-bis, primo e terzo comma, cod. pen. al Corrado, il quale, «sfruttando le relazioni esistenti con il NOME, dirigente dell’Agenzia delle Entrate, già capo settore controlli e riscossione sino al 31/01/2016, e poi dal 01/02/2016 capo ufficio grandi contribuenti della Direzione Regionale del Veneto, con sede a Venezia, indebitamente si faceva dare e promettere dagli imprenditori COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali amministratori di fatto della società “RAGIONE_SOCIALE” (rispettivamente anche amministratori unici nel periodo dal 30/07/2015 al 26/01/2016 il BAGGIO e dal 25/08/2012 al 07/09/2015 il COGNOME), e della società “RAGIONE_SOCIALE“, nonché NOME COGNOME anche quale amministratore unico e legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE, la corresponsione di 70 mila euro, di cui 40 mila euro che gli venivano effettivamente corrisposti, comprensivi di un orologio di valore, e la promessa di future assunzioni in società del gruppo, come prezzo della propria mediazione illecita verso il DAVID. Con il contributo di COGNOME NOME, commercialista incaricata di assistere le società nel corso delle verifiche fiscali e innanzi alla GdF e nelle vertenze con l’Agenzia delle Entrate, la quale consapevole degli illeciti propositi e di quanto illecitamente dato e promesso al COGNOME, fungeva da intermediario tra il COGNOME e il NOME, al fine di far ottenere in sede di accertamento tributario agli stessi imprenditori una riduzione degli importi contestati in sede di verifica fiscale, di impedire che le verifiche si espandessero o avessero riflessi negativi nei confronti dei soci delle verificate, comunicando al COGNOME e al COGNOME i suoi interventi presso l’Agenzia delle Entrate, effettuati su incarico e grazie alle conoscenze del COGNOME, avallando e garantendo in tal modo l’esistenza delle relazioni riferite dal CORRADO agli imprenditori». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
I motivi dei ricorsi per cassazione, proposti dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia e quello nell’interesse di NOME COGNOME saranno enunciati a seguire nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il ricorso del Procuratore generale distrettuale deduce vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello non avrebbe valutato che il delitto di collusione militare, contestato al capo 4-bis), non si riferiva esclusivamente alla condotta contestata al capo 4), bensì anche a ulteriori comunicazioni illecite. La Corte territoriale avrebbe omesso la valutazione di tale parte della condotta contestata, pur essendo astrattamente configurabile il delitto militare anche in relazione ai comportamenti tesi a eludere e sviare le indagini della polizia tributaria, nonché relativi a comunicazioni al privato di notizie riservate circa le attività di ufficio de militare.
Per altro, su tali ulteriori condotte, anche relative alla verifica fiscale apertasi in relazione alla RAGIONE_SOCIALE si era ampliamente soffermata la sentenza di primo grado (foll. 48-51), cosicché l’assenza di motivazione della pronuncia ora impugnata, quanto alla esclusione della responsabilità dell’imputato in merito, integrerebbe il vizio di motivazione dedotto.
Tanto più che in sede di rinvio, per pacifico orientamento giurisprudenziale, il giudice può rivisitare il fatto con pieno apprezzamento e autonomo giudizio, fatto salvo il declinato principio di diritto.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è articolato in due motivi, oltre che in un motivo nuovo.
4.1 D primo motivo lamenta vizio di motivazione quanto alla dosimetria della pena.
La Corte territoriale, determinandola nella misura di anni uno e mesi quattro di reclusione in ordine al capo 9), ha fissato la pena base in misura superiore al minimo, pari alla media edittale, valorizzando la reiterazione della condotta criminosa e la gravità del fatto, da trarsi dalla circostanza che gli accessi abusivi, ex art. 615-ter cod. pen., risultavano posti in essere da un alto ufficiale della Guardia di finanza e per finalità del tutto estranee ai compiti di istituto.
A fronte di tale motivazione il ricorrente rileva come si verta in tema di motivazione apparente, in quanto gli elementi richiamati risultano già dalla imputazione e, per altro, la reiterazione è già valutata con i due aumenti per la continuazione, mentre anche la motivazione relativa alla gravità consiste nella stessa condotta criminosa prevista dalla norma incriminatrice.
Si verterebbe, quindi, in una quantificazione superiore al minimo edittale, in assenza di una motivazione sostanziale. Inoltre, il ricorrente rileva che la sentenza di primo grado prevedeva la pena base per il più grave reato di collusione militare nella misura di anni tre di reclusione – a fronte del minimo di anni due – il che avrebbe dovuto condurre anche il giudice del rinvio a determinare la pena in misura correlativamante proporzionata, non essendo la prima quantificazione
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oggetto di impugnazione e sussistendo il divieto di reformatio in peius, dovendo pure considerarsi che la sentenza annullata aveva determinato la pena in misura prossima al minimo.
4.2 Il secondo motivo lamenta vizio di motivazione quanto alla dosimetria della pena, caratterizzato da un trattamento peggiorativo rispetto a quello previsto per il coimputato NOME, con il quale esiste una differenza di un anno di reclusione, non giustificata, a fronte del numero di accessi del Corrado – tre – rispetto a quelli del NOME, in numero di due. Sussisterebbe dunque contraddittorietà nella decisione senza alcuna giustificazione congrua in ordine al diverso trattamento sanzionatorio, a fronte di condotte speculari.
La sentenza COGNOME – intervenuta dopo la presentazione del ricorso in cassazione – nega la possibilità della retroazione della interpretazione delle Sez. U. COGNOME anche nel caso di specie, in quanto più sfavorevole e non prevedibile evoluzione della precedente consolidata giurisprudenza.
4.3 II motivo aggiunto, infine, lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 2 e 5 cod. pen., 25 Cost. e 27 CEDU. In particolare, il motivo richiama la sentenza della Sez. 6, n. 28594 del 26/03/2024, dep. 16/07/2024, COGNOME, Rv. 286770 – 01 che ha affermato che costituisce causa di esclusione della colpevolezza il mutamento di giurisprudenza “in malam partem”, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata, enunciata dalle Sezioni Unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere che, in futuro, le Sezioni Unite avrebbero attribuito rilievo a quella condotta, rivedendo il precedente orientamento in senso peggiorativo. Il caso esaminato riguardava, appunto, il delitto di accesso abusivo a sistema informatico o telematico. La richiamata pronuncia ha annullato senza rinvio la decisione di condanna emessa in relazione a un fatto commesso medio tempore, fra la sentenza delle Sez. Unite, n. 4694 del 2011, dep. 2012, COGNOME che ai fini della configurabilità del reato di accesso abusivo aveva escluso la rilevanza delle finalità dell’accesso medesimo al sistema – e la sentenza delle Sez. Unite, n. 41210 del 2017, COGNOME, che aveva invece richiesto che tale finalità non fosse compresa tra quelle istituzionali per le quali era stata attribuita la facoltà di accesso. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il motivo aggiunto richiama anche i passaggi di Sez. 6 COGNOME, nei quali si fa riferimento all’insegnamento della Corte cost. n. 364 del 1988 che in relazione all’art. 5 cod. pen. richiede la consapevolezza da parte dell’agente quanto al diritto vivente: nel caso di NOME COGNOME, nella prospettiva delle Sez. U. COGNOME, aveva potere-dovere di accesso alla banca dati COGNOME, in difetto di prassi o direttive che ne limitassero oggettivamente l’accesso, cosicché non essendo rilevante la finalità
privatistica dell’accesso, divenuta tale solo con l’intervento di Sez. U. COGNOME, si verterebbe in tema di overruling sfavorevole del tutto imprevedibile.
La difesa di NOME ha depositato anche una memoria con la quale, in replica al ricorso della Procura Generale territoriale, deduce l’inammissibilità dello stesso, in quanto solleciterebbe la Corte di legittimità a valutazioni versate in fatto e, quindi, non consentite, oltre a non confrontarsi con la sentenza rescindente, che aveva escluso la sussistenza del delitto di collusione militare.
Inoltre, generico risulterebbe il ricorso della Procura veneta, allorché lamenta la motivazione illogica, non indicando quale sia il salto logico nel quale è incorsa la sentenza di appello.
I ricorsi sono stati trattati, con intervento delle parti, essendo quello della Procura generale territoriale depositato il 28 giugno 2024, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, di. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5 -duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell’art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME ha concluso, riportandosi alla memoria depositata, per l’inammissibilità di entrambi i ricorsi.
Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso della Procura generale presso la Corte di appello di Venezia è fondato, mentre quello nell’interesse di NOME COGNOME è inammissibile.
Quanto al ricorso proposto dal Procuratore generale territoriale va premesso quanto segue.
2.1 La sentenza della Corte di cassazione, in ordine al reato di collusione militare di cui al capo 4 -bis, oggetto dell’attuale doglianza, premetteva che per il delitto di traffico di influenze – di cui al capo 4 – era necessaria anche la individuazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio e ciò rendeva fondati i motivi
primo, secondo, terzo e quinto del ricorso. In particolare, la Corte di legittimità, in conclusione dell’esame dei predetti motivi, al fol. 11 della sentenza affermava che «icostruita in questi termini la fattispecie dell’art. 346-bis cod. pen., nella sua formulazione antecedente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, è evidente che il traffico di influenze si concretizza solo quando l’intermediario prezzolato agisce per turbare il corretto svolgimento dell’attività della pubblica amministrazione, sfruttando le sue relazioni privilegiate con il destinatario della pressione, che induce a commettere un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio, che deve essere esattamente individuato nei suoi elementi costitutivi ».
In sostanza – cfr. par. 2.1.1 – «la Corte di appello di Venezia non poteva limitarsi a ritenere illecita l’attività di mediazione posta in essere da NOME COGNOME, sic et simpliciter, ma doveva, alla luce delle emergenze probatorie, individuare l’atto o eventualmente gli atti, contrari ai doveri di ufficio che l’imputato si era impegnato a fare compiere ai responsabili dell’Agenzia delle Entrate di Venezia». Aggiungeva la Corte che tale ricognizione «postulava una valutazione critica delle dichiarazioni rese dagli amministratori dell’azienda sottoposta a verifica», da correlarsi poi «alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME», la cui attendibilità andava vagliata alla luce della ricostruzione della fattispecie di traffico di influenze operata dalla Corte di legittimità. Ciò valeva sia in relazione alla vicenda Baggio che in relazione alla vicenda Cattolica Assicurazioni (cfr. par. 2.1.1). Le doglianze accolte venivano qualificate dalla Corte, a più riprese, come «incongruità argomentative».
Quanto ai delitti di collusione militare, al par. 2.2, i relativi motivi di ricorso quarto, sesto e settimo, venivano ritenuti ‘assorbiti’ dalla Corte di cassazione ravvisando l’assenza, per ragioni sovrapponibili a quelle indicate per il delitto di traffico di influenze, di un adeguato «percorso argomentativo» in ordine alla sussistenza dei delitti sub capi 4-bis e 8-bis.
A fronte di tali doglianze, e stante l’annullamento in merito al reato di traffico di influenze collegato a quello militare, la Corte di cassazione faceva discendere l’assorbimento delle censure difensive dei motivi sesto e settimo «dal fatto che la configurazione del reato di cui all’art. 3 legge n. 1383 del 1941 presupponeva la dimostrazione di intese illecite tra NOME COGNOME e i terzi con cui si rapportava, finalizzate ad attenuare le conseguenze degli accertamenti tributari eseguiti, nel corso del 2015, nei confronti delle società di cui ai capi 4 bis della rubrica. Tuttavia, l’inquadramento di tali intese illecite postulava la preliminare enucleazione dell’atto o eventualmente degli atti contrari ai doveri d’ufficio che NOME COGNOME avrebbe dovuto fare compiere, forte delle sue, asserite, relazioni privilegiate, ai responsabili dell’Agenzie delle Entrate di Venezia, su cui, per le
ragioni esposte nei paragrafi 2.1 e 2.1.1, cui si rinvia ulteriormente, si impone un nuovo giudizio».
Aggiungeva la Corte rescindente che «nel compiere le verifiche che le vengono demandate in sede di rinvio, la Corte di appello di Venezia dovrà tenere conto del fatto che il delitto di cui all’art.3 della legge n. 1363 del 1941 si perfeziona per il solo fatto dell’accordo tra il militare e l’extraneus, senza che sia necessario il conseguimento del risultato su cui si fonda l’intesa collusiva, che non rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie contestata a Corrado ai capi 4-bis e 8-bis. La fattispecie in questione, infatti, anticipa la soglia della punibilità della condotta al momento dell’accordo, atteso che già al momento del raggiungimento dell’intesa collusiva si verifica la messa in pericolo dell’interesse pubblico, che concretizza la lesione di uno specifico obbligo di fedeltà del militare, come costantemente affermato da questa Corte, secondo cui il reato di cui all’art. 3 legge n. 1383 del 1941 “si perfeziona con il semplice accordo tra il militare appartenente alla Guardia di finanza e l’estraneo, senza che debba necessariamente realizzarsi il risultato della frode alla finanza, giacché l’interesse protetto dalla norma viene messo in pericolo non solo dalle condotte collusive finalizzate alla commissione di violazioni finanziarie, ma anche da quelle finalizzate ad eluderne l’accertamento” (Sez. 1, n. 25819 del 06/06/2007, COGNOME, Rv. 236894-01)”».
2.2 Tanto premesso, il motivo di ricorso della Procura generale territoriale è fondato.
A ben vedere, la Corte di appello al fol. 12 della sentenza qui impugnata, a fronte di un rilievo specifico della Procura generale territoriale, afferma che non si sarebbe integrato l’accordo illecito in relazione alle condotte contestate quanto agli accertamenti nei confronti della RAGIONE_SOCIALE in quanto la Corte di cassazione avrebbe escluso la sussistenza di un accordo illecito.
A riguardo, la Procura qui ricorrente evidenzia correttamente che le condotte oggetto di doglianza siano quelle che, nell’ambito del capo 4-bis , sono indicate nella parte finale: « comunicando in anticipo notizie circa ulteriori attività ispettive su società a loro riconducibili, ed infine consigliando loro stratagemmi ed argomenti per ribattere ai rilievi mossi in verifica, istigandoli a procurarsi false dichiarazioni attestanti la detenzione all’estero invece che in Italia di veicoli della società a loro in uso, a far sparire la contabilità compromettente detenuta presso la sede societaria ». A tale stralcio dell’imputazione fa seguito anche la parte finale, ove si legge che la concorrente NOME COGNOME « predisponeva e faceva pervenire ai militari della GdF, che stavano eseguendo la verifica fiscale nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, falsi documenti e false dichiarazioni sull’utilizzo delle autovetture di proprietà della società, sul loro stato e luogo ove queste si trovavano».
La motivazione della Corte territoriale, per giungere all’assoluzione in ordine a tali condotte, risulta del tutto apparente.
In sostanza la Corte di merito trae l’insussistenza dell’accordo dalla pag. 15 della sentenza rescindente che, in vero, conclude al par. 2.2, fol. 16, evidenziando come sia sufficiente il solo accordo ad integrare il reato di collusione militare, essendo la soglia di punibilità anticipata.
Tale passo della sentenza rescindente non poteva essere letto in modo disgiunto dai plurimi inviti a una rivalutazione probatoria e a una rinnovata motivazione conseguente, spettante al giudice del rinvio.
In sostanza, la Corte di cassazione ha ritenuto assorbito il vaglio relativo al reato militare non perché avesse giudicato l’accordo illecito inesistente, come sembra ritenere la Corte di appello, ma perché lo stesso doveva essere verificato, tanto per il delitto di traffico di influenze come anche per quello di collusione militare.
Pertanto, il ‘mandato’ alla Corte del rinvio era quello non certamente di prendere atto dell’esclusione dell’accordo illecito a seguito di una valutazione probatoria che la Corte di legittimità non può compiere, bensì quello di verificare – fermi i principi di diritto richiamati dalla Corte di legittimità, anche quanto al delitto militare – se in concreto lo stesso sussistesse, anche qualora il delitto di traffico di influenze non fosse stato configurabile.
D’altro canto, anche la tesi difensiva sostenuta, che la Corte di cassazione abbia annullato per violazione di legge e non per vizio di motivazione, viene smentita dall’esame complessivo della sentenza rescindente, che a più riprese indica alla Corte del rinvio, dopo aver fissato i principi di diritto, gli accertamenti probatori a farsi (cfr. il riferimento all’esame delle dichiarazioni e all’attendibilità anche delle dichiarazioni dell’imputato), con l’uso di espressioni quali «percorso argomentativo», «incongruità argomentative» che si riferiscono con evidenza ad un annullamento per vizio di motivazione.
In tal senso, il ricorso della parte pubblica è fondato, perché per un verso la sentenza di appello (fol. 12) non si confronta con la motivazione della sentenza di primo grado (foll. 48-54) – che dedica ampia trattazione alla esistenza dell’accordo illecito, relativamente alle vicende della RAGIONE_SOCIALE, in modo specifico anche con riferimento alle autovetture da rally e alle false dichiarazioni correlate – ove esplicitamente si dava atto dell’esistenza di un accordo illecito (cfr. fol. 51).
Inoltre, deve osservarsi come nel caso in esame si verte in tema di un ‘ribaltamento’ favorevole all’imputato, in quanto la sentenza di primo grado riteneva la responsabilità penale dello stesso e quella di secondo grado lo assolve.
A tal proposito, va qui ribadito quanto affermato autorevolmente da Sez. U. n.14800/18 del 21/12/2017, P.G. in proc. Troise, Rv. 272430: la presunzione
d’innocenza e il ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione al diverso epilogo decisorio. La certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione, differenza che ha evidenti riflessi anche sul piano della estensione dell’obbligo di motivazione. Esso, infatti, si atteggia in modo diverso a seconda che si verta nell’una o nell’altra ipotesi: in caso di sovvertimento di una sentenza assolutoria, al giudice d’appello si impone l’obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio; per il ribaltamento di una condanna, invece, egli può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla scorta di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo (pur avendo cura di precisare che, in tal caso, deve trattarsi di ricostruzioni alternative non solo astrattamente ipotizzabili, ma la cui plausibilità risulti ancorata alle evidenze processuali).
Ma rispetto al secondo caso, quello che qui interessa, del ribaltamento della condanna di primo grado, la Corte di appello non ha offerto alcuna motivazione sostanziale, come rileva la Procura ricorrente.
Il ricorso della Procura territoriale, per un verso lamenta fondatamente motivazione mancante, per altro formula poi doglianze specifiche, richiamando in dettaglio la parte di interesse della sentenza impugnata, nonché formulando solo in subordine la doglianza di manifesta illogicità, che quindi non risulta decisiva a fronte della prima doglianza di motivazione apparente: il che rende aspecifica la memoria difensiva del Corrado, che controdeduce l’inammissibilità del ricorso della parte pubblica.
Per altro verso, deve anche essere ribadito il principio per cui nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di merito non è vincolato né condizionato da eventuali valutazioni in fatto formulate dalla Corte di cassazione con la sentenza rescindente, spettando al solo giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova (Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, COGNOME e altri, Rv. 264861; Sez. 2, n. 8733 del 22/11/2019, dep. 2020, Le Voci, Rv. 278629). In sostanza il giudice del rinvio è chiamato a compiere un nuovo completo esame del materiale probatorio con i medesimi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, fermo restando che egli non può ripetere il percorso logico censurato dal giudice rescindente e deve fornire adeguata motivazione sui punti della decisione sottoposti al suo esame (Sez. 5, n. 42814 del 19/06/2014 – dep. 13/10/2014, Pg in proc. COGNOME, Rv. 261760; Sez. 3, n. 34794 del 19/05/2017, P.G., P.C. in proc. F e altri, Rv. 271345).
Tanto più che la Corte di cassazione, nel caso in esame, in ordine al delitto militare, non aveva valutato i relativi motivi, ritenendoli assorbiti logicamente, proprio perché gli accertamenti richiesti in fatto alla Corte del rinvio, quanto al delitto codicistico, avrebbero potuto produrre effetti anche quanto alla valutazione di sussistenza del delitto di collusione militare, per quella parte della condotta oggetto del ricorso ora in esame.
2.3 Ne consegue l’annullamento con rinvio, limitatamente al capo 4 -bis, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia, che si atterrà ai principi indicati dalla precedente e nella attuale sentenza rescindente, per la verifica della sussistenza del reato.
Quanto al ricorso nell’interesse di NOME COGNOME va osservato come i motivi primo e secondo, strettamente connessi, vadano trattati unitariamente.
La Corte di appello, a seguito della esclusione della responsabilità di Corrado per tutti i reati, ad eccezione di quello sub capo 9) – relativo alla violazione dell’art. 615-ter, aggravato, valutata l’equivalenza delle circostanze attenuanti generiche, già riconosciute in primo grado, con le aggravanti – determinava la pena base in anni uno e mesi quattro di reclusione.
La pena prevista per il reato non aggravato, ai sensi dell’art. 615-ter, comma primo, cod. pen. è quella nel massimo fino a tre anni di reclusione.
A ben vedere, in primo luogo la misura della pena base è inferiore al medio edittale, da individuarsi in anni uno, mesi cinque e giorni 23, tenendo in conto che la pena minima non può essere inferiore a giorni 15, ai sensi dell’art. 23 cod. pen.
Pertanto, già questo risulta sufficiente, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, a ritenere non necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288 – 01). Infatti, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (Sez. 6, 35346 del 12/06/2008, COGNOME, Rv. 241189); pertanto è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283), come anche adeguata è la motivazione se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949). Requisiti motivazionali
sussistenti nella sentenza impugnata. Pertanto, il motivo è manifestamente infondato.
E comunque, nel caso in esame, la Corte di appello rende anche una specifica motivazione, immune da vizi logici manifesti in ordine alla quantificazione della pena in misura superiore al minimo, richiamando la gravità della condotta, la reiterazione degli accessi abusivi, nonché la qualità di alto ufficiale dell’autore del reato.
A ben vedere l’art. 133 cod. pen., rubricato con riferimento alla gravità del reato, esplicita come gli elementi ivi indicati, di carattere oggettivo e soggettivo, servano a valutare la gravità nel caso concreto, per graduare la pena. In ciò il motivo è manifestamente infondato, perché la gravità viene a essere ‘riempita di contenuto’ anche con il riferimento alla qualità di alto ufficiale dell’imputato: questa specifica qualità non è condizione necessaria del delitto, ben potendo l’accesso abusivo essere posto in essere anche da chi ricopre incarichi di minore responsabilità, come un agente di polizia giudiziaria. Il che spiega anche la diversa dosimetria della pena rispetto al coimputato, oggetto del secondo motivo di ricorso.
Per altro, va anche evidenziato che in tema di ricorso per cassazione, il diverso trattamento sanzionatorio riservato, nel medesimo procedimento, ad altri imputati, anche se correi, non implica un vizio di motivazione della sentenza, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento di situazione prospettata come identica sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali: il che nel caso in esame non è per quanto fin qui osservato (sul punto Sez. 3, n. 9450 del 24/02/2022, COGNOME, Rv. 282839 – 01; conf. N. 21838 del 2012 Rv. 252880 01, N. 27115 del 2015 Rv. 264020 – 01). La natura consolidata di tale orientamento si trae anche dalla circostanza che, sin da epoca risalente, si è ribadito che “la determinazione della misura della pena rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito. Nel caso di pluralità di imputati, il giudice, mentre ha l’obbligo di motivare sull’uso del suo potere discrezionale di determinazione della pena, non è tenuto, invece, a procedere ad una comparazione fra le diverse posizioni degli imputati stessi” (in termini, Sez. 2, n. 1025 del 16/10/1978, dep. 1979, Rv. 140958; nello stesso senso, ex plurimis:; Sez. 6, n. 24402 del 12/03/2008, Rv. 240356).
Anche il richiamo alla reiterazione delle condotte, per giustificare la pena, non può intendersi una indebita duplicazione della valutazione propria della continuazione, che è criterio di temperamento fissato dal legislatore per evitare il cumulo materiale delle pene: nel caso in esame, la commissione ripetuta delle condotte viene richiamata quale indicatore della gravità della condotta base, quindi con una ratio diversa da quella della punizione dei singoli episodi, e comprova che
la condotta non è stata occasionale o causale, comprovando in tal modo la capacità a delinquere dell’imputato, per la quale occorre fare riferimento – come richiede l’art. 133, comma secondo, cod. pen. – alle condotte precedenti e susseguenti il reato.
Ne consegue che corretto e non manifestamente illogico è l’esercizio della discrezionalità da parte della Corte di appello.
Quanto al vincolo derivante dall’annullamento con rinvio e alla reformatio in peius denunciata, conseguente alla nuova determinazione della pena in sede rescissoria, la doglianza è manifestamente infondata per quanto affermato autorevolmente da Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653 – 01 che ha chiarito come non viola il divieto di “reformatio in peius” previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore.
Il che è quanto si verifica nel caso in esame, a fronte di una corretta motivazione ex art. 133 cod. pen. per quanto già evidenziato. I motivi sono pertanto manifestamente infondati.
Quanto al motivo nuovo, deve osservarsi come l’inammissibilità dei primi motivi determina anche l’inammissibilità di quello aggiunto.
Infatti, inammissibili sono conseguentemente anche i motivi nuovi, atteso che l’inammissibilità dei motivi originari del ricorso per cassazione non può essere sanata dalla proposizione di motivi nuovi, trasmettendosi a questi ultimi il vizio radicale che inficia i motivi originari per l’imprescindibile vincolo di connessione esistente tra gli stessi e considerato altresì che altrimenti verrebbe surrettiziamente aggirata la perentorietà dei termini di impugnazione (ex multis Sez. 5, n. 48044 del 02/07/2019, COGNOME, Rv. 277850).
Per altro, va anche evidenziato che il motivo in questione è precluso anche sotto altro profilo: le Sezioni Unite hanno ritenuto che le questioni sul punto della responsabilità sia oggetto suscettibile di preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni (Sez. U., n. 1 del 19/01/2000, COGNOME, Rv. 216239 – 01). Nel caso in esame, alla prima sentenza della Corte di appello, che confermava la responsabilità dell’imputato per il capo 9), non conseguiva sul punto il ricorso per cassazione dinanzi alla Prima Sezione penale, che invece riguardava solo i reati sub capi 4 e 4-bis e 8 e 8-bis, vale a dire i delitti di traffico di influenze ex art. 346
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bis cod. pen. e di collusione militare ex art. 3 I. n. 1383 del 1941, non anche di accesso abusivo ai sistemi informatici. In sostanza, il tema della responsabilità di Corrado quanto agli accessi abusivi non è più tangibile.
D’altro canto, il ricorrente della sentenza della Sez. 6 COGNOME aveva posto tempestivamente il tema della sussistenza del dolo, correlandolo alla circostanza che la condotta era antecedente alla sentenza delle Sezioni unite “Savarese”. Diversamente COGNOME, pur avendo chiesto in secondo grado emettersi sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato – senza fare riferimento alle sentenze delle Sezioni Unite, per quanto emerge dalla motivazione della prima sentenza di appello – con un motivo di impugnazione dichiarato ‘ai limiti della inammissibilità’ dalla Corte di Venezia (fol. 87, sent. n. 4177 del 11 novembre 2021), con il precedente ricorso in cassazione – depositato il 26 aprile 2022, quindi ampiamente successivo all’intervento di Sez. U COGNOME – non ha proposto alcuna censura in ordine al capo 9), né tantomeno in ordine al dolo richiesto per il delitto ivi contestato. Il che evidenzia che si tratta di questione proponibile e non proposta con precedenti impugnazioni, non potendo trovare applicazione in questo l’art. 609, comma 2, cod. proc. pen.
Pertanto, prima ancora dell’annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione, il punto relativo all’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine al capo 9) risultava precluso.
Il che rende non consentito, anche sotto tale profilo, il motivo aggiunto, che per altro non risulta sviluppo di un punto già dedotto.
Difatti, in materia di impugnazioni, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto “petitum”, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione (Sez. 6, n. 36206 del 30/09/2020, Tobi, Rv. 280294 – 01; conf. N. 18293 del 2014 Rv. 259740 – 01, N. 73 del 2012 Rv. 251780 – 01, N. 46950 del 2004 Rv. 230281 – 01, N. 1417 del 2013 Rv. 254301 – 01).
Va, pertanto, accolto il ricorso del Procuratore generale distrettuale, con annullamento con rinvio della sentenza sul punto, mentre inammissibile è il ricorso del Corrado, dal che consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
In accoglimento del ricorso del P.G., annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente al capo 4 -bis e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.
Dichiara inammissibile il ricorso di NOME COGNOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13/12/2024