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Colloqui con convivente: l’autocertificazione è prova

La Corte di Cassazione ha annullato il decreto di un Giudice che negava i colloqui in carcere tra un detenuto e la sua compagna. Il Giudice aveva ritenuto non provata la convivenza, nonostante la presentazione di un’autocertificazione e di un certificato di residenza. La Suprema Corte ha stabilito che tali documenti sono prove sufficienti per autorizzare i colloqui con il convivente e che un eventuale diniego deve basarsi su elementi concreti e specifici, non su una motivazione generica e carente come quella del provvedimento impugnato.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Colloqui con convivente: la Cassazione conferma il valore dell’autocertificazione

Il diritto a mantenere relazioni affettive durante la detenzione è un principio cardine del nostro ordinamento. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito l’importanza di tutelare i legami familiari, inclusi quelli di fatto, specificando le modalità per autorizzare i colloqui con il convivente. La decisione sottolinea come l’autocertificazione e i certificati anagrafici costituiscano, in linea di principio, prove sufficienti per dimostrare il rapporto, e un eventuale diniego da parte del giudice debba essere motivato in modo specifico e non generico.

I fatti del caso

Un uomo, detenuto presso una casa circondariale, presentava un’istanza al Giudice per le indagini preliminari (GIP) per essere autorizzato a svolgere colloqui permanenti con la propria compagna. A sostegno della richiesta, allegava un’autocertificazione e un certificato anagrafico che attestavano la convivenza e l’appartenenza allo stesso nucleo familiare.

Sorprendentemente, il GIP rigettava la richiesta. La motivazione del rigetto si basava sulla considerazione che il rapporto di convivenza non fosse sufficientemente provato. Secondo il giudice, il fatto che i due fossero stati trovati insieme al momento dell’arresto (mentre l’uomo era latitante) non era un “indice univoco” di una relazione stabile, potendo essere sintomo di un “rapporto occasionale”.

Le ragioni del ricorso e il diritto ai colloqui con il convivente

I difensori del detenuto hanno presentato ricorso per cassazione, lamentando l’erronea applicazione della legge penitenziaria (in particolare l’art. 18 Ord. pen.). Essi sostenevano che il GIP avesse richiesto una prova ulteriore e non prevista dalla normativa, discriminando di fatto la relazione di convivenza rispetto a quella basata sul matrimonio. La difesa ha evidenziato come la produzione dell’autocertificazione e del certificato di residenza fosse pienamente conforme a quanto richiesto per dimostrare la qualifica di convivente, un diritto ormai equiparato a quello del coniuge anche in ambito penitenziario grazie alla legge n. 76/2016 (c.d. legge Cirinnà).

La normativa di riferimento

La Corte ha colto l’occasione per riepilogare il quadro normativo. L’art. 18 dell’Ordinamento Penitenziario e l’art. 37 del relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 230/2000) stabiliscono che i “conviventi” sono ammessi ai colloqui alla pari dei “congiunti” e dei “familiari”. A differenza di “persone diverse”, per le quali è richiesta la sussistenza di “ragionevoli motivi”, per i conviventi il diritto al colloquio è la regola.

La legge n. 76/2016 ha poi sancito in modo inequivocabile che “i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario”. Inoltre, le circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno da tempo chiarito che, per dimostrare tale status, è ammesso il ricorso all’autocertificazione, la cui eventuale falsità costituisce reato.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato. Ha chiarito che l’autocertificazione e lo stato di famiglia sono, in astratto, elementi di prova pienamente idonei a dimostrare la condizione di convivente.

Sebbene ciò non impedisca all’autorità giudiziaria di svolgere i necessari controlli per verificare la veridicità di quanto attestato, il provvedimento del GIP è stato giudicato gravemente carente nella motivazione. Il giudice si era limitato a un generico riferimento a non meglio specificati “accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria”, senza indicare:

* I riferimenti spazio-temporali di tali verifiche.
* Le concrete modalità con cui sarebbero state effettuate.
* Cosa sarebbe stato effettivamente riscontrato in occasione di tali verifiche.

In sostanza, il decreto impugnato non ha specificato sulla base di quali elementi concreti avesse ritenuto di superare le prove documentali prodotte (autocertificazione e certificato di residenza). Una motivazione così generica è stata ritenuta del tutto insufficiente a giustificare il diniego di un diritto fondamentale del detenuto.

Le conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullato il decreto del GIP, rinviando il caso per un nuovo giudizio a un diverso magistrato dello stesso ufficio. Quest’ultimo dovrà riesaminare la richiesta attenendosi al principio secondo cui l’autocertificazione è prova idonea a dimostrare la convivenza, e un eventuale rigetto può fondarsi solo su elementi concreti e specifici che ne smentiscano il contenuto, i quali devono essere esplicitati in modo dettagliato nella motivazione del provvedimento.

Un’autocertificazione è sufficiente per dimostrare la convivenza e ottenere i colloqui in carcere?
Sì, la sentenza chiarisce che l’autocertificazione, unitamente a documenti come lo stato di famiglia, costituisce un elemento di prova pienamente idoneo a dimostrare la condizione soggettiva di convivente richiesta per l’autorizzazione ai colloqui.

Il giudice può rifiutare la richiesta di colloquio basata su un’autocertificazione di convivenza?
Sì, ma non in modo arbitrario. Il giudice può rifiutare la richiesta solo se, a seguito di controlli specifici, emergono elementi concreti che smentiscono la veridicità di quanto autocertificato. Tale rifiuto deve essere supportato da una motivazione dettagliata che spieghi quali verifiche sono state fatte e quali risultati hanno prodotto, non può basarsi su un generico dubbio o su accertamenti non specificati.

Quali diritti ha un convivente rispetto a un coniuge per quanto riguarda i colloqui penitenziari?
La sentenza ribadisce che, ai sensi della normativa penitenziaria e della Legge n. 76/2016, i conviventi di fatto hanno gli stessi identici diritti spettanti al coniuge per quanto riguarda i colloqui in carcere. Non vi è alcuna discriminazione tra le due figure.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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