Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22968 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22968 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a Bronte (CT) il DATA_NASCITA, avverso l’ordinanza del 23/01/2024 del Tribunale di Sorveglianza di Campobasso;
letti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni scritte del AVV_NOTAIO Procuratore Generale AVV_NOTAIO NOME, che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOME è detenuto dal 2009 in espiazione della pena di anni 20 di reclusione inflittagli dalla Corte di Assise di appello di Catania in relazione a delitti, commessi 1’11/12/2009, di omicidio, tentato omicidio e detenzione e porto di arma da sparo, aggravati dalla premeditazione, dai motivi abietti nonché ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991 (oggi art. 416 bis.1 cod. pen.), per aver agito al fine di agevolare l’associazione mafiosa operante in Bronte della quale faceva parte insieme al fratello – e complice nei delitti in questione – NOME COGNOME.
Con istanza del 08/09/2023 il difensore del COGNOME chiedeva, previo accertamento della collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante ex art. 4 bis, comma 1 – bis, ord. pen., la concessione di un permesso premio, da usufruirsi
presso il RAGIONE_SOCIALE Larino; rappresentava che i delitti per i quali era intervenuta condanna erano stati esaustivamente ricostruiti nelle sentenze di merito; che, a distanza di 15 anni dai fatti, non vi erano elementi per sostenere che vi fosse un attuale collegamento del COGNOME con consorterie mafiose, o che sussistesse il pericolo del suo ripristino; che il clan di appartenenza era stato interamente disarticolato dall’autorità giudiziaria; che il condannato aveva intrapreso un positivo percorso di resipiscenza e di reinserimento.
Con ordinanza del 23/01/2024 il Tribunale di sorveglianza di Campobasso rigettava l’istanza, evidenziando che – pur se le sentenze, prescindendo dalle mendaci dichiarazioni del COGNOME, avevano fatto piena luce sulle modalità, sulle motivazioni e sugli esecutori del delitto – residuavano ancora aspetti inesplorati della vicenda delittuosa in oggetto, non avendo il COGNOME mai indicato in che modo e da chi si fosse procurato l’arma del delitto: «deve rilevarsi che COGNOME è stato condannato anche per i reati di detenzione e porto della pistola, utilizzata per commettere gli omicidi consumato e tentato, ma, come evidenziato dalla Procura Antimafia, il processo non è riuscito ad accertare come e da chi COGNOME si fosse procurato la pistola, di che arma si trattasse e quale sorte abbia avuto l’arma, non rinvenuta. Al riguardo il COGNOME non ha sostanzialmente fornito indicazioni agli inquirenti, in quanto ha dichiarato di avere trovato il revolver per caso, di non saperne precisare la marca ed il calibro e di averlo perduto nelle campagne quando, avendo visto la vettura dei Carabinieri, si era dato alla fuga verso il paese di Maniace, dichiarazioni che appaiono del tutto inverosimili».
Il difensore del COGNOME ha presentato in data 14/02/2024 ricorso per cassazione avverso la predetta ordinanza, articolando un unico motivo con il quale deduce «violazione ed erronea applicazione dell’art. 58 ter o.p. censurabile ai sensi dell’art. 606, lett. b) e lett. e), contraddittorietà della motivazio risultante da atti che specificamente si indicano».
Si duole del contrasto tra le motivazioni dell’ordinanza impugnata e ciò che può evincersi dagli atti dei procedimenti di merito relativi al COGNOME, poiché la sentenza di condanna indica espressamente che l’arma del delitto era nella disponibilità degli appartenenti della famiglia COGNOME, poiché gli accertamenti balistici ed il rinvenimento di un bossolo consentono di ritenere accertato che fu utilizzata una pistola TARGA_VEICOLO, e poiché le dichiarazioni del COGNOME in merito allo smarrimento dell’arma erano verosimili.
Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile per la genericità dei suoi motivi, che non erano peraltro adeguatamente supportati
dalla produzione del testo integrale delle sentenze alle quali il difensore aveva fatto riferimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi che lo sostengono.
Come è noto, l’art. 4 bis, comma 1 bis, ord. pen., nel testo – al quale ci si deve riferire nel caso di specie – anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 162 del 2022, dopo aver disposto che i condannati per una serie di delitti ostativi (tra i quali quello di omicidio aggravato dalle finalità di agevolazione mafiosa per il quale il COGNOME ha riportato condanna) possono essere ammessi ai benefici penitenziari solo ove collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. pen., prevede che essi possano comunque ottenere la concessione dei benefici, «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti o delle responsabilità, operata con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia».
Come già più volte statuito da questa Corte, «l’impossibilità di collaborare con la giustizia, ai fini del superamento delle ostatività per l’accesso ai benefici penitenziari, presuppone che i fatti e le responsabilità siano già stati completamente accertati, pur senza l’apporto del soggetto che la invoca, e di tali fatti non residuino ambiti inesplorati; viene in gioco dunque una nozione meramente oggettiva di una tale impossibilità» (così, in motivazione, Sez. 1, n. 8656 del 21/12/2017, dep. 2018, De NOME, n.m.).
Si è, altresì, chiarito che «Ai fini della concessione dei benefici penitenziari alle persone condannate per taluno dei reati cd. ostativi di cui all’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, l’accertamento dell’utile collaborazione con la giustizia previsto dali’art. 58-ter della medesima legge deve essere specificamente riferito ai reati oggetto della condanna in relazione alla quale il beneficio è richiesto e, in tale contesto, non può essere limitato soltanto a quelli ostativi, dovendo invece essere esteso a tutti i reati agli stessi finalisticamente collegati» (Sez. 1, n. 989 del 15/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280677), «in quanto riconducibili alla medesima risoluzione criminosa» (Sez. 1, n. 18866 del 25/05/2020, COGNOME, Rv. 279366), poiché «postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e sul suo concreto ravvedimento con riferimento a tutti i fatti oggetto della sentenza definitiva» (Sez. 1, n. 1790 del 13/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv.
278172); dunque, l’accertamento della impossibilità o della inesigibilità della collaborazione, dovendo essere circoscritto «alle sole circostanze e situazioni di fatto riferibili alle contestazioni mosse al condannato nei processi conclusisi con le sentenze di condanna per cui è in esecuzione la pena», non può essere «dilatato fino a ricomprendervi gli ulteriori contenuti informativi che consentono la repressione o la prevenzione di condotte criminose diverse, inerendo tale requisito alla diversa figura della collaborazione effettiva con la giustizia, di cui all’art. 58-ter, comma 1, ord. pen., che sola consente il superamento delle soglie minime di espiazione di pena necessario per l’accesso ai diversi benefici penitenziari» (Sez. 1, n. 14158 del 19/02/2020, Minardi, Rv. 279120).
L’ordinanza impugnata, con attente ed affatto illogiche osservazioni, ha, pertanto, individuato il residuo spazio collaborativo, riferendosi correttamente a quanto è possibile evincere dalla lettura della sentenza di condanna.
A fronte di questa motivazione completa e coerente con il quadro normativo e con i consolidati orientamenti di legittimità, le censure sollevate con il ricorso si limitano a proporre una prospettazione alternativa derivante da una lettura parziale ed interessata delle risultanze processuali.
Il provvedimento impugnato non ha, dunque, violato le norme in tema di concessione del permesso premio, ed esibisce una motivazione puntuale, logica, coerente ed esaustiva che si rispecchia fedelmente negli elementi che possono
trarsi dagli atti in carteggio: una motivazione che, pertanto, non può essere affatto ritenuta né manifestamente illogica, né contraddittoria, dovendosi, in proposito, rammentare che «Ricorre il vizio di motivazione manifestamente illogica nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse, nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono, e, invece, di motivazione contraddittoria quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o vi sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva dell sentenza, ovvero nella stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice – conducenti ad esiti diversi – siano state poste a base del suo convincimento» (Sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Cappella, Rv. 281105).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente di sostenere, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e considerato che non v’è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», si dispone che il ricorrente versi, in favore della Cassa delle ammende, la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di € 3.000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 30/04/2024