Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 5817 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 5817  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 30/09/2022 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso impugnato.
udito il difensore
AVV_NOTAIO conclude riportandosi si motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
LAVV_NOTAIO COGNOME NOME riportandosi ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in preambolo, la Corte di assise di appello di Napoli ha confermato quella resa il 18 gennaio 2021 con la quale la Corte di assise della stessa città aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile dell’omicidio di NOME e NOME COGNOME (capo A), dei connessi reati d’illecita detenzione e porto di più armi (capo B), di ricettazione (capo C) dell’autovettura Ford Focus utilizzata per la commissione del primo reato, nonché della rapina (capo D) ai danni di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Quanto al grave fatto di sangue, all’imputato è specificamente contestato di avere concorso, con il ruolo di esecutore, unitamente a NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, giudicati separatamente, al duplice omicidio – aggravato anche dal metodo camorrista e dalla finalità di agevolare il gruppo di camorra COGNOMERAGIONE_SOCIALECOGNOME, all’epoca in contrapposizione con il clan COGNOME – dei germani COGNOME, referenti del commercio degli stupefacenti nel territorio di Arzano del clan di RAGIONE_SOCIALE.
Ritenuta l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 cod. pen. assorbita in quella di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, oggi art. 416-bis.1., applicata la disciplina della continuazione dei reati, il primo giudice aveva condannato l’imputato alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per la durata di un anno.
Le acquisizioni probatorie – costituite dagli atti d’indagini svolte all’epoca dell’omicidio (in merito alle quali hanno deposto i testi COGNOME e COGNOME), dalla sentenza della Corte di assise di Napoli in data 14 novembre 2008, irrevocabile il 19 aprile 2013, di condanna per gli stessi reati di NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME ed NOME COGNOME (quelle dei due ultimi propalanti acquisite con il consenso delle parti) – hanno condotto i giudici di merito a una conforme ricostruzione dell’agguato, avvenuto in Arzano il 3 giugno 2006.
Il fatto è avvenuto dopo diversi appostamenti finalizzati all’avvistamento delle vittime che viaggiavano su due motocicli e che subirono dapprima lo speronannento, quindi l’aggressione armata di quattro persone (e, tra queste, il ricorrente), le quali – giunte a bordo di un’autovettura Ford Focus – avevano esploso all’indirizzo delle vittime plurimi colpi di più armi da fuoco, determinandone la morte, poi dandosi alla fuga con i mezzi di trasporto oggetto di rapina.
Il proposito criminoso è stato individuato come insorto nel solco di contrasti tra gruppi di camorra, in rivalità per la conquista del territorio di Arzano e, in particolare, nell’intenzione del gruppo – di cui facevano parte COGNOME, COGNOME, COGNOME e lo stesso COGNOME – di acquisire, a scapito dei COGNOME, il monopolio del traffico di droga in Arzano, trovando appoggio nel contrapposto gruppo COGNOME–COGNOME.
Si è, inoltre, ritenuto acclarato che, una volta deliberato l’agguato, la sua esecuzione fosse stata preceduta da un’accurata predisposizione di uomini e mezzi, nonché da almeno un precedente tentativo, non andato a buon fine per l’assenza delle vittime.
La Corte di assise di appello ha disatteso tutte le obiezioni mosse dalle difese, delle quali si darà conto nell’esposizione dei motivi di ricorso per cassazione, e ha quindi operato una ricostruzione degli accadimenti e delle fonti di prova, confermando modalità esecutive, movente e paternità dell’efferato crimine, nonché i connessi reati di detenzione e porto delle armi utilizzate per commetterlo, della ricettazione e della rapina.
La Corte territoriale ha, altresì, confermato la sussistenza della circostanza aggravante della premeditazione e di quella di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991 (oggi art. 416-bis.1 cod. pen.), quindi negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; ha, infine, avallato la decisione di primo grado con riferimento alla misura della pena.
Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso NOME COGNOME, a mezzo del difensore di fiducia AVV_NOTAIO, il quale ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti due motivi.
2.1. Con il primo, articolatissirno motivo il ricorrente eccepisce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen., la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 125 comma 3, 546 e 192 cod. proc. pen. in punto di mancata adeguata valutazione delle propalazioni dei collaboratori di giustizia e di contraddittorietà della relativa motivazione.
Dopo avere, nelle pagine da 2 a 8, sintetizzato le condotte ascritte al ricorrente e svolto una ricostruzione del fatto storico oggetto di condanna, la difesa ha, in primo luogo, criticato la tecnica redazionale utilizzata dal giudice di secondo grado che, nel procedere all’esame della posizione dell’imputato, avrebbe risposto ai motivi di gravame rinviando “per brevità” alla motivazione della sentenza di primo grado, che ha condiviso e ritenuto che dovesse intendersi integralmente trascritta. Egualmente avrebbe fatto al fine di motivare l’affidabilità e l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, trascrive integralmente la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del 19 gennaio
2016 con la quale il ricorrente è stato condannato, in concorso con altri, per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa e, ancora una volta “per brevità”, ha richiamato la sentenza irrevocabile con la quale erano stati condannati NOME COGNOME e NOME COGNOME, correi nel duplice omicidio oggetto dell’odierno ricorso.
Così facendo il giudice di appello sarebbe venuto meno all’obbligo di confrontarsi con gli elementi di fatto richiamati dall’appellante e con le ragioni da questi addotte: la Corte di assise di appello si sarebbe, in definitiva, limitata a richiamare integralmente – salva qualche minima interpolazione, nelle parti concernenti l’affermazione di responsabilità del ricorrente – la motivazione della sentenza di primo grado e quelle irrevocabili acquisite agli atti, senza sottoporre ad alcun vaglio critico e senza esaminare valutare gli specifici motivi di impugnazione proposti dall’appellante.
Lamenta altresì il mancato vaglio delle ragioni addotte a sostegno della richiesta assolutoria compendiate in una memoria depositata dinanzi al giudice di primo grado, completamente negletta da quest’ultimo.
Quindi, da p. 10 a p. 48 dell’atto di ricorso, la difesa procede a una critica della decisione di appello, attraverso una diffusa indicazione di parti della motivazione della sentenza stessa, alternandole a considerazioni critiche e a rilievi difensivi che assume essere già stati fatti oggetto di motivi di appello, soprattutto in punto di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che vengono nello stesso atto di ricorso sintetizzate.
La difesa lamenta, dunque, la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione con riferimento alla valutazione della attendibilità dei collaboratori di giustizia. In particolare, quanto alle dichiarazioni di NOME, che avrebbe appreso del coinvolgimento di NOME da NOME COGNOME, la difesa ne lamenta l’incostanza e l’imprecisione, testimoniata dall’erronea attribuzione ad NOME COGNOME di una condotta che questi non aveva potuto attuare perché, al tempo, detenuto. Le dichiarazioni rese nel 2018 sarebbero, invero, divergenti da quelle risalenti a undici anni prima. Anche l’avvenuto riconoscimento su fotografia di NOME COGNOME come colui che, rimasto a casa sua per diversi giorni dopo l’uccisione dei germani NOME, gli era stato indicato da NOME come coautore del delitto sarebbe postumo e sospetto.
In merito all’apporto degli altri collaboratori di giustizia, il ricorren evidenzia si tratta di un contributo limitato, siccome de relato, e che una pesante ipoteca ricadrebbe sulla credibilità di coloro che, come COGNOME e COGNOME, hanno erroneamente inserito nel novero dei partecipi all’agguato NOME COGNOME e NOME COGNOME, al tempo detenuti. Quanto alle propalazioni di COGNOME, la sua attendibilità sarebbe sminuita dall’errata collocazione
temporale della vicenda, che egli anticipa di almeno due anni, oltre che dal già indicato inserimento nel novero dei partecipi – secondo quanto egli avrebbe appreso dalla viva voce di NOME – di NOME COGNOME. Il ricorrente contesta, del pari, la rilevanza indiziaria delle dichiarazioni di NOME COGNOME, del tutto generiche e solo successivamente arricchite grazie alle domande suggestive rivoltegli dal Pubblico ministero; se ne rimarca anche l’imprecisione tanto da potersi accreditare l’ipotesi che egli abbia raccolto, anziché, come sostenuto, le confidenze di NOME, mere voci circolanti nel clan contrapposto a quello di cui quest’ultimo faceva parte. Evidenzia, inoltre, che tanto NOME COGNOME quanto NOME COGNOME avevano indicato quale fonte delle rispettive conoscenze NOME COGNOME, medio tempore deceduto. Infine, lamenta l’errata svalutazione delle dichiarazioni dei collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME che non hanno indicato NOME quale concorrente del gruppo di fuoco.
Conclusivamente, il ricorrente ribadisce che il giudice di appello avrebbe dovuto dimostrare di avere sottoposto a un rinnovato e autonomo vaglio i punti di decisione devolutigli con il gravame, mentre è addivenuto ad una motivazione «viziata in quanto strutturata in modo sostanzialmente riepilogativo e per relazionem rispetto alle altre sentenze acquisite in atti».
2.2. Con il secondo motivo la difesa censura, in primo luogo, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, lamentandone il diniego sulla scorta del mero richiamo alla gravità della condotta ascritta al ricorrente.
In secondo luogo, avversa l’avvenuta conferma del riconoscimento dell’aggravante della premeditazione, reputando che l’intero compendio probatorio non avrebbe consentito di verificare la sussistenza dei due elementi, quello cronologico e quello ideologico, necessari per la sua configurabilità, rimarcando in proposito che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non fornirebbero alcun elemento sul punto, avendo reso dichiarazioni generiche in ordine alla modalità di programmazione, attribuzione dei ruoli ed esecuzione del reato.
In terzo luogo, censura l’omesso adempimento da parte della Corte territoriale dell’onere di valutare la sussistenza in concreto della recidiva e, segnatamente, l’idoneità della nuova condotta criminosa a rilevare la maggiore capacità delinquere del reo.
Infine, è lamentata la conferma dell’aggravante mafiosa, approdo che si porrebbe – giusta la tesi difensiva – in stridente contrasto con quello cui è pervenuta la sentenza irrevocabile nei riguardi dei coimputati che, difatti, tale aggravante ha escluso.
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, anche richiamando la propria requisitoria scritta, depositata in data 23 luglio 2023, ha concluso chiedendo la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
 Il ricorso deduce censure in parte inammissibili, per l’evidente incursione nella valutazione di merito che l’atto d’impugnazione richiede alla Corte di legittimità e per il carattere reiterativo delle prospettazioni con esso avanzate, e in parte infondate ed è, pertanto, complessivamente passibile di rigetto.
Non è superfluo, al riguardo, premettere che devono ritenersi non consentite le doglianze volte a riformulare questioni già esposte, vagliate e disattese sulla scorta di congrua motivazione nel giudizio di merito, orientate a sollecitare una valutazione alternativa delle fonti di prova e una rivisitazione meramente fattuale, improponibile e preclusa in sede di legittimità.
In molte parti – come si dirà appresso – il ricorso è volto a ottenere un non consentito sindacato sulla congruità di scelte valutative del compendio storico-fattuale, adeguatamente motivate e giustificate da entrambi i giudici di merito.
Il primo motivo di ricorso, nei suoi plurimi e connessi profili, non supera il vaglio di ammissibilità.
Non può farsi a meno di evidenziare che la tecnica redazionale del ricorso, come descritta in premessa, si sviluppa mediante un’esposizione generica, recante parti espositive di doglianza alternate a estratti ovvero a sintesi di atti del giudizio di merito e a parziali ripetizioni dei motivi di appello, così finendo per fuoriuscire dai canoni di una doverosa, ragionata censura del percorso motivazionale della sentenza impugnata, non consentendo un ordinato inquadramento delle ragioni di doglianza nella griglia dei vizi di legittimità deducibili ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.
Ciò che, già di per sé, rende il primo motivo di ricorso inammissibile (fra molte, Sez. 2 n. 29607 del 14/05/2019, COGNOME, Rv. 276748).
La giurisprudenza di questa Corte ha ammonito (Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518-02) che, allorquando il ricorrente intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità
ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità e, quindi, d’inammissibilità del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, i quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che, al fine della valutazione dell’annmissibilità dei motivi di ricorso, può essere considerato strumento esplicativo del dato normativo dettato dall’art. 606 cod. proc. pen. il “Protocollo d’intesa tra Corte di cassazione e RAGIONE_SOCIALE Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale”, sottoscritto il 17 dicembre 2015).
2.1. Ciò premesso in linea generale, è, in ogni caso, manifestamente infondata la parte del primo motivo nel quale si lamenta il vizio di motivazione tanto in punto di avvenuta trascrizione, da parte del Giudice di appello di stralci, delle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, quanto in punto di richiamo per relationem a tali atti.
Fermo, nella giurisprudenza di questa Corte, è il principio secondo cui la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Sez. 6 n. 53420 del 04/11/2014, Mairajane, Rv. 261839).
E’ altresì pacifico che ricorre l’autonoma valutazione anche quando venga richiamato, in maniera più o meno estesa, l’atto di riferimento con la tecnica di redazione “per incorporazione”, con condivisione delle considerazioni già svolte da altri, poiché valutazione autonoma non vuol dire edizione originale, sennpreché emerga dal provvedimento una conoscenza degli atti del procedimento e, se necessario, una rielaborazione critica degli elementi
sottoposti a vaglio giurisdizionale, dovendosi ritenere viziata la motivazione nel solo caso in cui il rinvio rinvio per relationem o per “incorporazione” si traduca in un mero recepimento del contenuto del provvedimento, privo dell’imprescindibile rielaborazione critica.
Osserva il Collegio come, nel caso di specie, la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione di tali principi e abbia, difatti, svolto un rinvio «p brevità» (p. 26 e 27) alle motivazioni delle sentenze irrevocabili acquisite agli atti nelle sole parti non contestate dalla difesa e – quanto alla trascrizione degli stralci della motivazione della sentenza che ha giudicato irrevocabilmente i correi di COGNOME – ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento che ha, quindi, recepito in modo critico e valutativo.
Quanto, infine, al richiamo alla sentenza di primo grado, correttamente la Corte di assise di appello si è limitata a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo, in applicazione dei principi sopra enunciati, di svolgere una nuova motivazione in relazione alle doglianze dell’atto d’appello che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice, a tal fine richiamata.
2.2. Analoghe considerazioni valgono per la parte del primo motivo, laddove si assume violato il metodo di valutazione prescritto dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., in ragione della dedotta inaffidabilità soggettiva e oggettiva delle fonti dichiarative rappresentate dai collaboratori di giustizia, nonché di pretese insanabili incongruenze e antinomie dei relativi narrati, che impedirebbero, in base ai criteri epistemologici elaborati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, di integrarsi vicendevolmente e assurgere a dignità di prova.
Rileva il Collegio che, proprio ove scrutinate alla luce di tali criteri, sentenze di merito resistono, viceversa, alle deduzioni sopra sintetizzate.
La sentenza di primo grado, in particolare, dovendo confrontarsi con il tema dell’apprezzamento istruttorio delle chiamate in correità (di NOME COGNOME) o anche solo in reità in parte de relato (di COGNOME per averlo appreso da NOME COGNOME, di COGNOME e COGNOME per averlo appreso da COGNOME), in parte asseverate dalla fonte diretta (di COGNOME e COGNOME, per averlo appreso direttamente da NOME), ha correttamente richiamato i pertinenti criteri di valutazione, da quella giurisprudenza elaborati (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME) e ne ha fatto adeguata applicazione, esaminando esaustivamente i profili di credibilità e attendibilità intrinseca delle dichiarazioni, in base ai canoni di specificità, coerenza e costanza dei rispettivi
contenuti, parimenti verificando i rapporti tra i dichiaranti e le rispettive fo genesi autonoma di queste ultime, la convergenza delle chiamate e la loro «indipendenza», intesa anche come esclusione di collusioni e accordi fraudolenti.
Quanto in particolare alla convergenza delle propalazioni, la sentenza appare rispettosa dell’ulteriore principio di diritto, secondo cui le chiamate sudd devono riscontrarsi tra loro, in maniera individualizzante, in relazion circostanze rilevanti del thema probandum (Sez. 1, n. 34102 del 14/07/2015, COGNOME, Rv. 264368; Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262309) ed è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatori soprattutto quando i fatti narrati siano lontani nel tempo e si riferiscano app a episodi appresi indirettamente, in conseguenza delle rivelazioni dei lo protagonisti (Sez. 1, n. 41585 del 20/06/2017, Maggi, Rv. 271253), dovendo l’integrazione reciproca delle chiamate, e il riscontro mutuo che ne deriva, esse riferito al fatto reato nella sua unitarietà e non a singoli frammenti condotta.
Il tema dell’attendibilità intrinseca dei collaboratori è stato, ino diffusamente approfondito dalla Corte di assise di appello (p. 26 e s.) alla l delle doglianze difensive, e, quanto ad NOME – premessa la generale attendibilità riconosciutagli, con la forza del giudicato, dalla pronu emesse in relazione alle posizioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME, e degli accertati rapporti di frequentazione, all’epoca, tra costoro e NOME – il Giudice di appello ha diffusamente replicato, con motivazione non manifestamente illogica, alle censure difensive (p. 37 e s.) riguardanti riconoscimento nell’effigie mostratagli dagli investigatori quel “NOME” ch egli ospitò dopo l’omicidio dei COGNOME, al quale egli stesso aveva partecipa e alla presunta discrasia in punto di identificazione dell’autovettura (una Ford Focus invece di una Ford Fiesta) utilizzata per l’agguato.
Quanto, poi, agli apporti degli altri collaboratori di giustizia Corte di secondo grado (p. 42 e s.) ha correttamente rilevato come talune discrasie ovvero imprecisioni nel ricordo dei collaboratori non traducessero, in via automatica, nell’attestazione dell’inattendibilità d abbia riferito tali circostanze.
L’analisi compiuta dalla Corte territoriale si è, pertanto, attenut principio di diritto secondo cui «le dichiarazioni accusatorie rese da soggetti siano imputati di reato connesso o interprobatoriamente collegato, per costitui prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che siano dotate ciascuna d’intrinseca attendibilità, soggettiva e oggettiva, e – in assenz specifici elementi atti a far ragionevolmente sospettare accordi fraudolenti
reciproche suggestioni – risultino concordanti sul nucleo essenziale del narrato, mentre non nuocciono alla positiva valutazione delle stesse le eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, salvo che esse, per le loro specifiche connotazioni, siano tali da far concludere che il dichiarante ne abbia dovuto inventare o alterare il contenuto al riconoscibile fine di sostenere un’accusa che, altrimenti, sarebbe stata insostenibile» (fra molte, Sez. 1, n. 10561 del 28/01/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280741; Sez. 1, n. 28221 del 14/02/2014, COGNOME, Rv. 260936; Sez. 1, n. 19683 del 19/03/2003, COGNOME, Rv. 223848).
Di conseguenza, quando – come nel caso di specie – con la sentenza di merito sia stata affermata la responsabilità dell’imputato anche sulla base della ritenuta sussistenza di una prova del genere anzidetto, non può utilmente prospettarsi in sede di legittimità, come motivo di censura, il solo fatto che le dichiarazioni accusatorie ritenute concordanti presentino in realtà fra loro divergenze e discrasie, quando queste attengano a elementi di natura circostanziale e non siano indicate, né siano enucleabili ictu ocu/i le ragioni per le quali, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuta attribuire loro una specifica e decisiva rilevanza nel senso sopra illustrato.
2.3. Alcune considerazioni particolari vanno svolte sulla censura, che riproduce pedissequamente un motivo di appello, che riguarda le dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e COGNOME che hanno riferito di avere appreso della partecipazione di NOME al duplice omicidio dallo stesso imputato.
Giusta la tesi difensiva, tali propalazioni sarebbero inutilizzabili perché non ne sarebbe verificabile la fonte.
Osserva il Collegio che – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente non rientrano nella nozione della chiamata de auditu (e, dunque, non soggiacciono alle relative regole) le dichiarazioni del collaboratore di giustizia che riferisce confidenze autoaccusatorie ricevute dall’imputato.
Nei processi di criminalità organizzata accade spesso – ed è avvenuto anche in questo – che il chiamante in correità o in reità riferisca, legittimamente, confidenze ricevute da un imputato, non ostandovi il divieto di cui all’art. 62 cod. proc. peri., norma che, pur rubricata «divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato», si riferisce alle sole dichiarazioni rese in un contesto procedimentale. In tale evenienza, il disposto dell’art. 195 cod. proc. pen. non impone l’escussione della fonte diretta (Sez. U n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, in motivazione paragrafo 9.1.), che, identificandosi con l’imputato, non può essere chiamata a rendere dichiarazioni in grado di pregiudicare la sua posizione (Sez. 5, n. 21562 del 3/02/2015, Rv. 263705; Sez. 5, n. 29821 del 25/11/2014, Rv. 265298) e che, ai sensi dell’art. 494 cod. proc.
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rà»,
pen., ha sempre la facoltà di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, interloquendo sulle propalazioni della fonte indiretta che lo chiamino in causa al fine di controbatterle.
Sotto il profilo della consistenza probatoria, va sottolineato che le confidenze autoaccusatorie dell’imputato ad un collaboratore di giustizia, che ne abbia successivamente riferito nelle proprie dichiarazioni, hanno natura confessoria, di talché, una volta positivamente vagliata la “chiamata” ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., dispiegano piena efficacia probatoria, a condizione che se ne apprezzi la sincerità e la spontaneità, in modo da potersene escludere la riconducibilità a costrizioni esterne o a possibili intenti autocalunniatori (Sez. 1 n. 18019 del 11/10/2017, dep. 2018, Calabria, Rv. 273301; Sez. 1, n. 9891 del 04/06/2019, dep. 2020, Campana, Rv. 278503).
Ciò significa che le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia circa la diretta assunzione di responsabilità da parte dell’imputato, in relazione al medesimo fatto reato, sono in grado di riscontrarsi reciprocamente, poiché, in questo caso, dato l’oggetto della prova, non è ravvisabile alcuna “circolarità” e i dichiaranti sono fonti dirette e autonome della circostanza riferita: l’imputato, parlando con i suoi sodali o con terzi, ha rivendicato la paternità del reato.
Sulla scorta di tali rilievi la censura risulta destituita di fondamento giuridico. È stata, inoltre, a buon diritto, esclusa ogni questione di “circolarità della prova”, ciò in ragione della riconosciuta autonomia della fonte di conoscenza da parte dei diversi propalanti della vicenda omicidiaria.
Conclusivamente, le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono in una riproposizione di valutazioni in fatto delle propalazioni dei collaboratori, senza attingere effettivamente a vizi della motivazione della Corte di assise di appello che, invece, si è posta nell’alveo della giurisprudenza di legittimità allorquando, dopo la congrua valutazione di attendibilità dei dichiaranti, ha mostrato di averne esaminato le relative dichiarazioni, individuandone specifici e rilevanti punti di convergenza in ordine al ruolo svolto da NOME.
2.4. Va altresì respinta la parte del primo motivo con la quale si lamenta l’immotivato depotenziamento delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME COGNOME (che partecipò a ben due dei tentativi che precedettero l’agguato mortale, non andati a buon fine perché le vittime non si palesarono nel luogo ove il gruppo di fuoco si era appostato) e NOME COGNOME COGNOMEche del duplice omicidio ha riferito de relato per averlo appreso dal fratello NOME COGNOME COGNOME dallo stesso NOME COGNOMECOGNOME componente del gruppo di fuoco che portò a termine il mandato omicidiario) che non hanno mai indicato NOME tra gli autori del grave fatto di sangue.
La Corte di secondo grado, invero, al riguardo ha sia stigmatizzato la contraddizione della tesi difensiva che utilizza un diverso ed errato metro valutativo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia a seconda che abbiano svolto dichiarazioni contro ovvero a favore dell’imputato, sia ha – con motivazione scevra da fratture logiche – posto in rilievo come i due COGNOME non abbiano escluso che NOME facesse parte del gruppo di fuoco, ma che semplicemente non ne avessero fatto parola, ciò che era agevolmente spiegabile con una conoscenza dei fatti parziale e che, comunque, non priva di incisività probatoria le plurime dichiarazioni degli altri collaboratori che pongono inconfutabilmente NOME tra i componenti il commando che eseguì l’agguato mortale dei COGNOME.
2.6. Priva di pregio la doglianza con cui il ricorrente lamenta il mancato confronto da parte del Giudice di primo grado di una memoria difensiva che, dallo stesso tenore del ricorso per cassazione (p. 10), è stata depositata in occasione del giudizio di primo grado.
Sicché si tratta di motivo non consentito perchè tardivo, oltre che aspecifico.
Se è, infatti, condivisibile il principio richiamato nel ricorso per il quale «In tema di impugnazione, l’omessa considerazione da parte del giudice dell’impugnazione di una memoria difensiva, non comporta, per ciò solo, una nullità per violazione del diritto di difesa, ma può determinare un vizio della motivazione per la mancata valutazione delle ragioni ivi illustrate, avuto riguardo alle questioni devolute con l’impugnazione» (fra molte, Sez. 3, n. 36688 del 06/06/2019, COGNOME, Rv. 277667), è altrettanto pacifico che «In tema di ricorso per cassazione, l’omesso esame, da parte del giudice di merito, di una memoria difensiva può essere dedotto in sede di legittimità come vizio di motivazione purché, in virtù del dovere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, si rappresenti puntualmente la concreta idoneità scardinante dei temi della memoria pretermessa rispetto alla pronunzia avversata, evidenziando il collegamento tra le difese della memoria e gli specifici profili di carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità argonnentativa della sentenza impugnata» (ex pluribus Sez. 5, n. 17798 del 22/03/2019, C., Rv. 276766).
Si è, invero, condivisibilmente chiarito che il Giudice di legittimità non possa arrestarsi al dato formale della mancanza dell’espressa menzione e considerazione della memoria nella sentenza di merito, ma che debba operare un accertamento concreto in ordine alla capacità del dato esaltato nella memoria e trascurato nella sentenza di mettere in discussione la completezza logica o l’univocità del percorso argomentativo della sentenza impugnata, oltre che soppesare la consistenza intrinseca della memoria stessa, onde neutralizzare la
portata scardinante in presenza di enunciati difensivi ripetitivi ovvero estranei al thema decidendum. La concreta idoneità scardinante dei temi della memoria pretermessa dalla pronuncia avversata – in ossequio al dovere di specificità del ricorso per cassazione ribadito da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823 – dev’essere oggetto di specifica rappresentazione da parte del ricorrente.
Non è dunque sufficiente – come è accaduto nel caso che ci occupa – che nel ricorso ci si dolga della circostanza che il Giudice di merito abbia trascurato una memoria ritualmente prodottagli, ma occorre che tale omissione venga tradotta in specifiche doglianze che ne evidenzino l’idoneità a porre in discussione la completezza, l’univocità e la razionalità della motivazione della sentenza avversata.
A non migliore sorte sono destinate le censure compendiate nel secondo motivo di ricorso.
3.1. È privo di pregio è il motivo con il quale si contesta la configurabilità dell’aggravante della premeditazione.
Diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, le sentenze di merito (rispettivamente a p. 37 quella di primo grado, a p. 55 quella di secondo) hanno chiarito che la deliberazione dell’agguato è stata il frutto di una deliberazione preventiva, la cui esecuzione è stata accompagnata da un’accurata predisposizione di uomini e mezzi, articolatasi in più appostamenti, alcuni non andati a buon fine per l’assenza delle vittime.
Si tratta di acquisizioni di sicuro valore sintomatico della sussistenza degli elementi costitutivi dell’apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica), e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica); e ciò – osserva il Collegio – tanto più nei riguardi del ricorrente, che partecipò anche a uno dei precedenti appostamenti.
3.2. Può essere agevolmente superato anche il motivo relativo al riconoscimento a carico di NOME dell’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, oggi art. 416-bis.1, avendo entrambi i giudici di merito motivato in merito all’assenza di qualsivoglia contrasto con la sua avvenuta esclusione nel giudizio che ha interessato i correi COGNOME ed COGNOME, ove l’aggravante era stata contestata con riferimento all’essersi costoro avvalsi della forza intimidatrice del clan di RAGIONE_SOCIALE. Nel presente processo, invece, l’aggravante de qua è stata contesta e ritenuta sotto il diverso profilo della finalità di avvantaggiare il clan
COGNOME–COGNOME e di affermare il controllo del territorio di Arzano da parte del gruppo Capeggiato dai COGNOME (NOME e NOME), da COGNOME e di cui faceva parte anche il ricorrente, gruppo contrapposto a quello facente capo a COGNOME di cui, come si è detto, i COGNOME erano referenti per il commercio di stupefacenti.
3.3. Con riferimento al motivo in punto di circostante attenuanti generiche, le sentenze di merito hanno esaurientemente motivato in ordine all’assenza di indici giustificativi favorevoli, e valorizzando in senso contrario al loro riconoscimento la «gravità delle condotte, il ruolo dell’imputato e le ragioni che hanno sorretto l’azione omicidiaria», nonché le espressioni palesi di pericolosità pregresse che, oltre alla recidiva, sono emerse dai fatti accertati con la condanna irrevocabile per i reati di cui agli art. 416-bis cod. pen e 74 d.P.R. n. 309 del 1970 (p. 38 della sentenza di primo grado e p. 57 di quella di appello).
Tali argomentazioni costituiscono la ragione e segnano al tempo stesso il limite, di siffatto riconoscimento, in una materia che involge l’esercizio di valutazioni discrezionali tipicamente di merito, che, per pacifico indirizzo (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245931; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450), sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette, come nella specie, da sufficiente complessiva illustrazione
3.4. In punto di recidiva la sentenza impugnata si è attenuta al consolidato principio di diritto (Sez. U, n. 35738 del 27/5/2010, COGNOME, Rv. 247838; Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270419; Sez. 3, n. 19170 del 17/12;2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263464; Sez. 6, n. 43438 del 23/11/2010, COGNOME, Rv. 248960), secondo cui, ai fini dell’indagini sulla sua sussistenza, il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, alla loro distinta offensività, alla consecuzione temporale, alla genesi della ricaduta, nonché ad ogni parametro significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Ciò premesso, nel riconoscere l’aggravante, strettamente inerente alla persona del colpevole, la sentenza impugnata – con una motivazione sintetica, ma adeguata – non si è limitata a richiamare i precedenti penali dell’imputato, ma li ha posti in relazione con le rinnovate condotte delittuose e ha valorizzato, anche alla luce della giovane età dello stesso, la più accentuata capacità a delinquere da esse espressa, da intendere come espressione di maggiore allarme sociale e tale motivazione è incensurabile in questa sede, siccome esente da qualsivoglia vizio del ragionamento logico.
Per le ragioni esposte il ricorso dev’essere rigettato e al suo rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 13 settembre 2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente