Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 30585 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 30585 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME, nato a Catania DATA_NASCITA, contro l’ordinanza del Tribunale di Catania del 15.2.2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di NOME COGNOME, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso riportandosi anche ai motivi nuovi.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 15.2.2024 il Tribunale di Catania ha respinto l’istanza di riesame che era stata proposta nell’interesse di NOME COGNOME contro l’ordinanza con cui il GIP del capoluogo etneo, in data 20.12.2023, ravvisati a carico dell’odierno ricorrente gravi indizi di colpevolezza in merito ai delitti d partecipazione, con ruolo direttivo, all’associazione di stampo mafioso descritta al capo 1) della rubrica, di concorso nella tentata estorsione descritta al capo 4) nonché, inoltre, di aver fatto parte, con il ruolo di promotore, dell’associazione a delinquere dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) e, infine del delitto di detenzione, finalizzata alla cessione a terzi, di sostanza stupefacente, aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., nonché le relative esigenze cautelari non altrimenti fronteggiabili, aveva adottato nei suoi confronti la misura della custodia cautelare in carcere;
ricorre per cassazione NOME COGNOME tramite il difensore di fiducia che deduce:
2.1 motivazione apparente in merito al rigetto della deduzione difensiva circa la duplicazione della contestazione di cui all’art. 416-bis cod. pen.: rileva che il Tribunale ha rigettato le argomentazioni difensive limitandosi a ritenere la mancata coincidenza temporale tra la contestazione associativa qui in rilievo (operazione Oleando) rispetto e quella oggetto di altro procedimento (operazione ]ungo) che si sarebbe sviluppata in diversi archi temporali, in tal modo rendendo una motivazione incongrua laddove si consideri la continuità temporale e la assenza di eventi determinanti una cesura nella condotta associativa;
2.2 illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 ed omessa valutazione di evidenze indiziarie circa l’assenza di due autonomi e differenti sodalizi: rileva che il Tribunale ha ritenuto che gli elementi indiziari acquisiti fossero idonei a dimostrare la condotta associativa dedita all’attività di spaccio osservando che, in tal modo, si è inteso affermare che i medesimi protagonisti avrebbero agito sinergicamente sia per le finalità tipiche del sodalizio di cui all’art. 416-bis cod. pen. che nel traffico de stupefacenti; sottolinea che gli elementi acquisiti avevano consentito di accertare l’esistenza di una cassa comune funzionale sia per le attività del sodalizio mafioso che per l’attività di approvvigionamento degli stupefacenti e, in tal senso, evoca le conversazioni del 26.10.2019 e del 20.11.2019;
2.3 illogicità della motivazione sull’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. contestato sul delitto di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 e su quello di cui all’art. 73 DPR 309 del 1990: rileva che la aggravante è fondata su elementi inconsistenti poiché l’unica cassa comune era destinata ad alimentare sia il traffico degli stupefacenti che la associazione di stampo mafioso laddove sarebbe stato
necessario dimostrare che una quota parte dei proventi della associazione di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 erano destinati ad alimentare l’altro sodalizio; premesso che anche il sodalizio di cui all’art. 416-bis cod. pen. ben può avere tra le sue finalità il traffico degli stupefacenti, non risulta che, nel caso di specie ch coloro che si occupavano di questo settore avessero un programma delinquenziale diverso autonomo e distinto;
2.4 inconducenza delle argomentazioni rese in merito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME: rileva che i giudici del riesame hanno dato rilievo alle dichiarazioni del collaboratore COGNOME omettendo di considerare che costui nulla avrebbe potuto riferire in merito a fatti successivi al 2018 quando aveva già iniziato il suo percorso di collaborazione;
2.5 contraddittorietà della motivazione in merito alla eccepita genericità della contestazione di cui al capo 13) della rubrica provvisoria ed alla indefinita condotta contestata anche con riferimento al momento storico della commissione del reato istantaneo di cui all’art. 73 DPR 309 del 1990: rileva come i giudici del riesame abbiano argomentato sul reato fine sottolineando come dagli atti risultasse la frequenza degli approvvigionamenti che, in realtà, non si è riusciti in alcun modo ad individuare mentre i singoli sequestri hanno sempre avuto ad oggetto quantità modeste di stupefacente e senza mai coinvolgere direttamente il ricorrente;
2.6 illogicità della motivazione in riferimento alle esigenze cautelari: rileva che l’indagato ha ammesso le sue responsabilità quanto al delitto associativo già contestato in seno ad altri procedimenti; aggiunge che dal maggio del 2020 il ricorrente si è dissociato fattivamente come risulta dalle diverse dichiarazioni rilasciate ai giudici e depositate nell’udienza camerale del riesame fornendo così un novum su cui il Tribunale avrebbe dovuto operare una valutazione in merito alla sussistenza delle esigenze cautelari;
la difesa, a mezzo del difensore nominato AVV_NOTAIO, ha trasmesso motivi nuovi deducendo:
3.1 violazione ed errata applicazione dell’art. 74 DPR 309 del 1990 in relazione agli artt. 192 e 273 cod. proc. pen. e vizio di motivazione: rileva la apoditticità della motivazione con cui il Tribunale ha confermato il giudizio di gravità indiziaria con riguardo al reato di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 utilizzando gli stessi elementi giudicati idonei a dar conto del delitto di cui all’ar 416-bis cod. pen. omettendo, inoltre, di confrontarsi con i rilievi difensivi articolat con la memoria depositata in sede di riesame; osserva, infatti, che la presunta associazione di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 non sia altro che espressione della
operatività di quella contestata al capo 1) interessata essa stessa al controllo della piazza di spaccio nel quartiere Picanello; sottolinea che analogo è l’ambito territoriale di operatività come anche la composizione del gruppo, la finalizzazione dei proventi alla sua operatività, l’utilizzazione dei medesimi canali di approvvigionamento e l’utilizzo della “cassa comune”; sottolinea che lo stesso episodio di cui al capo 13) ben poteva essere ricondotto alla operatività del sodalizio di cui al capo 1) piuttosto che a quella del presunto diverso sodalizio dedito al commercio degli stupefacenti e dei cui elementi costitutivi non si è dato alcun conto essendosi il Tribunale limitato ad insistere sulla astratta compatibilità tra le due fattispecie associative; aggiunge che lo stesso capo 13) non esprimeva, di per sé, la responsabilità ed il ruolo del COGNOME nel presunto consorzio di cui al capo 12);
3.2 violazione ed errata applicazione degli artt. 192 e 273 cod. proc. pen. in relazione all’art. 73 DPR 309 del 1990 ed all’art. 56 cod. pen.; vizio di motivazione: rileva come la difesa, nella memoria depositata in sede di riesame, avesse contestato la sussistenza degli elementi per ritenere integrato il delitto di cui al capo 13) laddove il Tribunale si è limitato, in maniera apodittica, a richiamare il contenuto delle conversazioni intercettate come emblematiche, a suo dire, del ruolo direttivo e decisionale assunto COGNOME; evoca, a tal fine, i principi affermati dalla giurisprudenza in materia di criteri di valutazione della prova in caso di “droga parlata” e segnala che la motivazione del Tribunale non permette di comprendere se, nel caso di specie, fosse stato raggiunto un accordo ma, ancor prima, se tale accordo prevedesse l’acquisto di marijuana in vista della sua successiva distribuzione; ricorda i principi civilistici in materia di perfezionamento de contratto sottolineando che, anche su tale aspetto, il Tribunale si è limitato a riproporre il contenuto dell’ordinanza del GIP senza prendere posizione sulle censure difensive;
3.3 violazione ed errata applicazione degli artt. 192 e 273 cod. proc. pen. in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen.; vizio di motivazione: rileva come, nella memoria, la difesa avesse richiamato le condizioni che debbono connotare il metodo mafioso non ricorrenti nei reati-fine per cui si procede in questa sede laddove, invece, la prova della finalità agevolativa risulta affidata al solo dato intercettivo che non può risolversi nella affermazione secondo cui qualsiasi entrata economica derivante dall’attività degli indagati avrebbe avuto come obiettivo l’accrescimento dell’associazione necessitando di un approfondimento del profilo psicologico di ciascun indagato;
3.4 violazione ed errata applicazione dell’art. 274 cod. proc. pen. e vizio di motivazione: eccepisce l’illegittimità dell’ordinanza laddove il Tribunale ha
giudicato le esigenze cautelari così stringenti da non consentire altro che il ricorso alla misura della custodia in carcere; richiama, a tal proposito, le considerazioni sviluppate nella memoria difensiva che il Tribunale ha ignorato limitandosi ad invocare la doppia presunzione di cui all’art. 275 comma terzo, cod. proc. pen. e ricorrendo ad espressioni del tutto generiche se non ripetitive dell’assunto accusatorio e palesemente contraddittorie rispetto alle dichiarazioni del COGNOME che ha ammesso gli addebiti di cui al capo 1) ed altri ascrittigli in different procedimenti; richiama, inoltre, la necessità che il pericolo di reiterazione sia concreto ed attuale da valutarsi, nel caso di specie, anche in relazione all’epoca dei fatti per cui si procede;
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, complessivamente, infondato.
Tale è, infatti, il primo motivo del ricorso: il Tribunale di Catania ha puntualmente replicato all’eccezione che era stata sollevata in sede di riesame con cui la difesa aveva dedotto che il presente procedimento rappresenterebbe, con riguardo alla imputazione di cui al capo 1), una indebita duplicazione rispetto alle
contestazioni già elevate in altri procedimenti ed aventi ad oggetto l’appartenenza del COGNOME alla medesima compagine associativa di stampo mafioso.
I giudici del riesame hanno spiegato che “… le imputazioni relative al pregressi procedimenti di cui alle produzioni versate in atti dalla difesa afferiscano ad un diverso e precedente arco temporale e si arrestano al 2018 mentre la presente indagine ha per oggetto condotte successive relative all’arco temporale intercorrente tra il giugno 2019 ed il dicembre 2020” (cfr., pag. 1 dell’ordinanza in verifica).
In tal modo il Tribunale ha reso una motivazione che, diversamente da quanto opinato nel ricorso, è allo stato appagante e coerente con le emergenze richiamate nel provvedimento impugnato e non specificamente contrastate dalla difesa.
Si è osservato, in giurisprudenza, che la realtà e la operatività delle associazioni criminali (soprattutto quelle di stampo mafioso tradizionalmente radicate sul territorio) rilevando sul piano “sociologico” e “criminologico”, hanno tuttavia dovuto essere affrontate con le regole del processo penale che, fisiologicamente, comporta la individuazione di una condotta che (ai sensi dell’art. 429 cod. proc. pen.) deve essere contestata in termini più specifici possibile anche sotto il profilo temporale ed a cui si collega, in maniera giuridicamente “vincolata” (cfr., artt. 516 e ssgg. cod. proc. pen.), la sentenza affermativa della penale responsabilità dell’imputato in relazione, per l’appunto, a quella determinata imputazione.
Ed è proprio in quest’ottica, e con riferimento al reato associativo, che è stato più volte affrontato il problema dei rapporti tra reato permanente, cessazione della permanenza e continuazione; questa Corte ha avuto allora modo di chiarire che l’accertamento contenuto nella sentenza di condanna delimita la protrazione temporale della permanenza del reato con riferimento alla data finale cui si riferisce l’imputazione ovvero alla diversa data ritenuta in sentenza, o, nel caso di contestazione c.d. aperta, alla data della pronuncia di primo grado; ne consegue che la successiva prosecuzione della medesima condotta illecita oggetto di accertamento può essere valutata esclusivamente quale presupposto per il riconoscimento del vincolo della continuazione tra i vari episodi (cfr., Sez. 6, n. 3054 del 14.12.2017, COGNOME che, in applicazione di tale principio, ed in una situazione processuale non dissimile a quella che ci occupa, ha ritenuto infondato il motivo di ricorso con il quale l’imputato aveva eccepito l’insussistenza della continuazione tra reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, relativi al medesimo sodalizio ed oggetto di separate pronunce di condanna, ritenendo
che, in difetto di prova del suo recesso nel periodo temporale di riferimento delle due sentenze, si trattava di un unico reato permanente).
Con riferimento alle contestazioni “aperte” è la pronuncia della sentenza di primo grado a segnare il termine ultimo e invalicabile della protrazione della permanenza del reato, in quanto la condotta futura dell’imputato trascende necessariamente l’oggetto del giudizio.
Si è pertanto affermato che (cfr., Sez. 2, n. 41727 del 4.7.2014, Rv. 261987), con riferimento a due contestazioni oggetto di due processi relativi a fatti associativi concernenti periodi tra i quali non vi era alcuna soluzione di continuità ed in cui la difesa invocava, per l’appunto, la “unicità” del fatto, che la prima decisione non consente di “assorbire” totalmente la seconda contestazione ravvisando, infatti, la necessità di rivedere il trattamento sanzionatorio alla luce della maggior durata della affiliazione onde non rendere penalmente irrilevante la “prosecuzione” del rapporto associativo.
In altri termini, al di là di considerazioni di ordine terminologico, la necessità, sul piano processuale, di “definire” una condotta permanente sul piano temporale entro i limiti della contestazione (in caso di contestazione “chiusa”) ovvero entro quelli fissati dalla sentenza di primo grado (in caso di contestazione “aperta”), implica la necessità di dare rilievo alle condotte sopravvenute che, sul piano processuale, non possono essere “assorbite” in quelle pregresse dovendosi perciò escludere la configurabilità di un “bis in idem”; tale principio, come si è detto, ha inoltre una portata generale nel vigente diritto processuale penale, trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza (art. 28 e segg. cod. proc. pen.), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 cod. proc. pen.) e nell’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 cod. proc. pen.) (cfr., Sez. 5, n. 20045 del 26/04/2023, COGNOME, Rv. 284674 – 01; Sez. 1, n. 27834 del 01/03/2013, COGNOME, Rv. 255701 – 01).
L’ordinanza impugnata è rispettosa dei principi appena richiamati avendo dato correttamente rilievo al “lasso temporale” oggetto della provvisoria contestazione formulata nel presente procedimento rispetto ad altri concernenti periodi diversi.
Il secondo motivo del ricorso originario ed il primo motivo aggiunto sono infondati.
La difesa, più diffusamente ed in termini articolati con il primo motivo aggiunto, sottolinea che gli elementi investigativi di cui i giudici della cautela hanno dato conto non consentono, in realtà, di enucleare due distinti gruppi criminali, quello riconducibile alla compagine di cui all’art. 416-bis cod. pen. e quello di cui
al capo 12): più in particolare, non contestando l’esistenza di un sodalizio di stampo mafioso contestato al capo 1) della provvisoria incolpazione, si deduce che non sussisterebbero gli elementi idonei a corroborare l’ipotesi dell’esistenza di un autonomo e distinto gruppo dedito al traffico degli stupefacenti.
Si assume, infatti, che il sodalizio di stampo mafioso avrebbe operato non soltanto con la stessa compagine soggettiva me esso stesso nel campo degli stupefacenti tanto che i relativi introiti entravano direttamente nel fondo comune ovvero nella cassa del gruppo di cui al capo 1).
Non manca, in giurisprudenza, chi ritiene che i reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, dotata di una “oggettività giuridica diversa ed autonoma”, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi (cfr., Sez. 1 , n. 4071 del 04/05/2018, dep. 30/01/2020, COGNOME, Rv. 278583 – 01 in cui la Corte ha escluso la configurabilità di una violazione del “ne bis in idem”, mancando, nel rapporto tra le due fattispecie associative, piena coincidenza degli elementi costitutivi; conf., Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258163 – 01).
Più frequente, tuttavia, è l’affermazione secondo cui è configurabile il concorso tra un’associazione di stampo mafioso, che operi secondo il paradigma di cui all’art. 416-bis cod. pen., e un’associazione per delinquere, dotata di un’autonoma struttura organizzativa, che, avvalendosi del contributo dei propri sodali, anche diversi dagli affiliati al sodalizio mafioso, persegua un proprio programma delittuoso dalla cui attuazione discende il concomitante conseguimento dell’interesse del clan (cfr., tra le tante, Sez. 2, n. 8790 del 06/12/2023, dep. 28/02/2024, Tegano, Rv. 286005 – 01; Sez. 6, n. 11356 del 08/11/2017, dep. 13/03/2018, Ardente, Rv. 272524 – 01; Sez. 2, n. 41736 del 09/04/2018, M., Rv. 274077 – 02).
Nel caso di specie, il Tribunale ha diffusamente argomentato in merito all’esistenza di un gruppo dedito al traffico degli stupefacenti organizzato intorno alla figura di NOME COGNOME a capo sia del sodalizio dedito al traffico di stupefacenti sia del sodalizio ex art. 416-bis cod. pen., avvalendosi della collaborazione del suo “braccio destro” NOME COGNOME e, tra gli altri, di NOME COGNOME (altro ricorrente in altro procedimento al quale non risulta contestato il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.) e NOME COGNOME, sempre attivi nell’attività di reperimento di sostanze e forniture di stupefacente.
Ha chiarito che dagli elementi così acquisiti era emersa la operatività del sodalizio nel quartiere Picanello ove era anche ubicata la stalla di INDIRIZZO, che, unitamente all’abitazione del COGNOME, rappresentava la base logistica ed operativa del gruppo per la detenzione dello stupefacente ed il luogo di incontro tra sodali e trafficanti.
I giudici di merito hanno inoltre valorizzato l’utilizzo di un linguaggio “in codice” e la prassi di comunicare via ws oppure mediante schede telefoniche intestate a stranieri con nomi fittizi con la continua sostituzione di schede e cellulari; da ultimo, l’occultamento frazionato dello stupefacente consegnato agli spacciatori in piccole quantità.
Altro elemento congruamente evidenziato a testimonianza dell’esistenza del sodalizio è la prosecuzione dell’attività del gruppo anche successivamente all’arresto del COGNOME, intervenuto nel maggio del 2020, cui era subentrato NOME COGNOME mentre NOME COGNOME continuava ad essere il trait d’union tra NOME COGNOME e gli spacciatori (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME).
Il Tribunale ha valorizzato la conversazione del 26.10.2019 intercorsa tra COGNOME, COGNOME e COGNOME a testimonianza dell’esistenza di una cassa comune (cfr., pag. 2 dell’ordinanza) come, anche, quella tra COGNOME e COGNOME del 29.11.2019 (cfr., ivi, pagg. 2-3) e quella del 22.5.2020, intercorsa tra COGNOME e COGNOME (cfr., ivi pag. 3).
È appena il caso, a tal proposito, di ribadire che l’interpretazione e la “lettura” delle conversazioni intercettate, come del linguaggio usato dai soggetti interessati, è una questione di fatto, rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, che si sottrae al giudizio di legittimità se – come nella fattispecie è accaduto – la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., tra le tante, Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, R.v. 263715; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389; Sez. 3, n. 35593 del 17/05/2016, Folino, Rv. 267650; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784; Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, Rv 254439).
Tanto premesso in punto di gravità indiziaria quanto all’esistenza di un gruppo comunque dedito al traffico (acquisto, detenzione e spaccio) di sostanze stupefacenti, i giudici della cautela di merito hanno affrontato la doglianza difensiva replicata in questa sede circa la identificazione di quel gruppo con il sodalizio descritto al capo 1), della cui esistenza (oltre che della partecipazione del
COGNOME) non v’è contestazione alcuna e la conseguente impossibilità di “duplicare” ipotizzando l’esistenza di due associazioni.
In linea, allora, con la giurisprudenza sopra richiamata, il Tribunale ha in primo luogo evocato l’almeno parziale alterità dei beni giuridici tutelati dalle due disposizioni incriminatrici che rende non rilevante “.., la circostanza che il sodalizio utilizzi il metodo per esercitare una sfera di predominio in un ambito territoriale implicante a quel punto plurimi tipi di attività, lecita o illecita, relativa ad un sett o ad un altro, che specificamente qualifica la consorteria di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen., salva la concomitante configurabilità della fattispecie associativa di cui all’art. 74 DPR 309 del 1990 allorché quella consorteria strutturi un riconoscibile assetto organizzativo specificamente funzionale al narcotraffico, costituente se del caso principale strumento di reddito” (cfr., pag. 11 dell’ordinanza in verifica).
Soprattutto, i giudici di merito hanno correttamente osservato che la compagine associativa dedita al traffico degli stupefacenti era strutturata in maniera diversa da quella di cui al capo 1), con compiti specificamente assegnati ai singoli associati richiamando, a tal proposito, i ruoli dello COGNOME, del COGNOME e del COGNOME, come anche del COGNOME cui era affidato il compito di coordinare l’attività dei “pusher” “raccogliendo i proventi dello spaccio e consegnandoli allo COGNOME” (cfr., ancora, ivi, pag. 11).
Per altro verso, ed in termini a questo punto conclusivi, hanno chiarito che “… il sodalizio si avvaleva del contributo stabile di alcuni spacciatori … soggetti d tutto estranei al sodalizio di cui all’art. 416-bis cod. pen.” (cfr., ivi) e, pertan era strutturato in termini anche soggettivamente non coincidenti con l’associazione di stampo mafioso.
2. Con il terzo motivo del ricorso principale la difesa contesta la sussistenza dell’aggravante “agevolativa” del sodalizio di stampo mafioso, contestata sul capo 12), sostenendo che gli elementi acquisiti consentivano di ritenere che, nel caso di specie, vi fosse un’unica cassa comune destinata ad alimentare sia il traffico degli stupefacenti che la associazione di stampo mafioso mentre, l’aggravante in parola avrebbe avuto senso laddove una “quota parte” dei proventi della associazione dedita al narcotraffico fosse destinata ad alimentare l’altro sodalizio; la situazione ad avviso delle difese emergente nel caso che ci occupa è stata inoltre evidenziata nel primo dei motivi nuovi per ribadire la insussistenza, in concreto, di due sodalizi.
Il rilievo non coglie nel segno.
Il Tribunale ha spiegato che “…i proventi dell’attività di spaccio confluiscono nella cassa del sodalizio, sicché l’attività in esame fornisce un contributo alla famiglia mafiosa di riferimento …” (cfr., pag. 12 dell’ordinanza): posta, dunque, la esistenza di un sodalizio autonomamente e diversamente strutturato – ancorché in parte coincidente sul piano soggettivo con quello di stampo mafioso – dedito al traffico degli stupefacenti, è del tutto incongruo sostenere che la aggravante “agevolativa” sussisterebbe soltanto laddove una mera “quota parte” e non l’intero ammontare dei proventi di quella attività fosse diretta a supportare il sodalizio di cui al capo 1).
In altri termini, l”agevolazione” del sodalizio di stampo mafioso ben può essere realizzata con il conferimento nella cassa dell’intero ammontare dei proventi dell’attività derivante dal traffico degli stupefacenti nell’eventualmente unica cassa comune, diretta ad alimentare e ad assicurare le distinte finalità di entrambi i sodalizi.
Il quarto motivo del ricorso principale è manifestamente infondato e, anzi, generico: il Tribunale, infatti, ha specificamente affrontato il tema della rilevanza delle dichiarazioni rese dal collaboratore COGNOME sostenendo che “… rispetto all’enorme quantità di elementi indiziari raccolti, che comprovano l’esistenza e l’operatività nel settore dello spaccio di stupefacenti del sodalizio di cui al capo 12), le dichiarazioni di COGNOME … rappresentano solo un elemento ulteriore di conforto, in assenza delle quali l’impianto probatorio mantiene intatta la sua solidità” (cfr., ivi, pag. 12).
È consolidato, nella giurisprudenza della Corte, che l’inutilizzabilità di prove illegalmente assunte, è deducibile in sede di legittimità subordinatamente al fatto che il ricorso fornisca elementi per superare la cd. “prova di resistenza” consistente nella espunzione delle prove inutilizzabili verificando se, in tal caso, la decisione sarebbe rimasta invariata in base a prove ulteriori, di per sé sufficienti a giustificare la medesima soluzione adottata (cfr., tra le tante, Sez. 4 , n. 50817 del 14/12/2023, COGNOME, Rv. 285533 – 01); il ricorso, invero, si limita, nel caso di specie, a ribadire la censura già avanzata con la memoria difensiva, non considerando la valutazione di superfluità delle dichiarazioni del collaboratore operata dal Tribunale.
Il quinto motivo del ricorso principale ed il secondo dei motivi aggiunti censurano, sotto diversi ma convergenti profili, le conclusioni in punto di gravità indiziaria relativamente al capo 13) della provvisoria incolpazione: il ricorso principale segnala la “genericità” della contestazione mentre il secondo dei motivi aggiunti, non senza richiamare i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di “droga palata”, sottolinea come il tenore delle
conversazioni intercettate non fosse tale da fornire la prova della effettiva conclusione e concretizzazione di un accordo per l’acquisto di stupefacente destinato poi allo spaccio.
Sul punto, invero, il Tribunale ha motivato richiamando la “serialità” delle condotte di approvvigionamento e trattative relative all’acquisto di consistenti quantità di stupefacenti, svolte sotto la supervisione del COGNOME (cfr., pag. 4 dell’ordinanza) come emergenti dagli elementi acquisiti e, in particolare, sia dalle intercettazioni che, inoltre, anche dai (benché non altrettanto consistenti) sequestri.
È consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, che la sussistenza del reato di cessione (o detenzione o commercio) di sostanze stupefacenti può essere desunta anche dal contenuto delle conversazioni intercettate qualora il loro tenore sia sintomatico dell’organizzazione di una attività illecita e, nel caso in cui ai dialoghi captati non abbia fatto seguito alcun sequestro, l’identificazione degli acquirenti finali, l’accertamento di trasferimenti in denaro o altra indagine di riscontro e controllo, il giudice di merito, al fine di affermare la responsabilità degli imputati, è gravato da un onere di rigorosa motivazione, in particolare con riferimento alle modalità con le quali è risalito alle diverse qualità e tipologie della droga movimentata (cfr., così, tra le tante, Sez. 6, n. 27434 del 14/02/2017, Albano, Rv. 270299 – 01; Sez. 4, n. 20129 del 25/06/2020, COGNOME, Rv. 279251 – 01).
Per altro verso si è tuttavia affermato che qualora, come nel caso che ci occupa, si verta in tema di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la prova dello svolgimento di un’attività sistematica e continuativa di cessione di sostanze droganti per un apprezzabile periodo di tempo può essere raggiunta anche nel caso in cui risultino dimostrate o riscontrate da sequestri soltanto alcune delle cessioni, monitorate attraverso servizi di intercettazione di conversazioni, quando le stesse siano collegate probatoriamente alle altre condotte contestate, senza che sia necessario riscontrare tutti i singoli episodi, specie quando tali fatti coinvolgano le medesime persone, si presentino omogenei e risultino avvinti tra loro da continuità cronologica (cfr. Sez. 5, n. 14863 del 21/12/2020, dep. 20/04/2021, Bruni, Rv. 281138 – 01); allo stesso modo, quando – come nel caso di specie – si abbiano elementi per ritenere che si sia in presenza di un’attività “organizzata”, anche la natura “contratta” di alcune conversazioni deve essere inquadrata nella cornice rappresentata dall’esistenza di una situazione di dimostrata operatività del sodalizio, comprovata anche dal riscontro di sequestri e che consente di ritenere non velleitarie o
millantatorie le conversazioni che danno conto dell’esistenza di trattative per l’acquisto di stupefacenti.
6. Anche il sesto motivo è infondato.
Ed in effetti, il Tribunale ha motivato sulla esistenza di esigenze cautelari andando al di là della presunzione di cui all’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. il Tribunale sottolineando sull’esistenza di un pericolo di recidiva concreto ed attuale legato alla natura dei fatti commessi – realizzati con modalità “seriali” e sicuramente sintomatiche di professionalità – con un contesto di relazione interpersonali in grado di riattivarlo ove rimesso in libertà.
Più in particolare, ha fatto presente che “… nessuna allegazione è stata effettuata dalla difesa in tal senso …” (cfr., pag. 12 dell’ordinanza) segnalando, anzi, che le indagini avevano consentito di appurare il perdurante interessamento dei consociati alle sorti del COGNOME, pur detenuto.
In tal modo, dunque, i giudici della cautela si sono conformati al principio, dal quale il collegio non ritiene di doversi discostare, secondo cui, in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con il recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa, mentre il cd. “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell’irreversibil allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari (cfr., Sez. 2, n. 38848 del 14/07/2021, Giardino, Rv. 282131 – 01; Sez. 2, n. 7837 del 12/02/2021, Manzo, Rv. 280889 – 01).
Una volta ravvisata l’esistenza di esigenze cautelari relativamente al delitto associativo non vi era evidentemente alcuna possibilità di applicare una misura gradata, alla luce della presunzione di adeguatezza di quella di massimo rigore, già peraltro oggetto di plurimi vagli anche sul piano della legittimità costituzionale (cfr., per tutte, Corte Cost., n. 136 del 2017, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., censurato dalla Corte d’appello di Torino – in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. – nella parte in cui, nell’imporre l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., salva solo l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari, e non anche quella in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure).
Le considerazioni sin qui svolte comportano il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso in Roma, il 31.5.2024