Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 8369 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 8369 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 10/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: PROCURATORE RAGIONE_SOCIALE PRESSO IL TRIBUNALE DI RIMINI
nei confronti di:
RAGIONE_SOCIALE
avverso l’ordinanza del 01/07/2024 del TRIBUNALE di RIMINI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata con trasmissione degli atti al Tribunale di Rimini per il giudizio.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Rimini, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha dichiarato la nullità del decreto di citazione diretta a giudizio per vizio di esercizio dell’azione penale, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. b) e 179, comma 1, cod. proc. pen., limitatamente alla società RAGIONE_SOCIALE ritenendo che per gli enti, ai fini della responsabilità amministrativa da reato, l’azione penale debba essere esercitata nelle forme previste dall’art. 59, comma 1, d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, che non contempla l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta, ai sensi dell’art. 552 cod. proc. pen.
Per quanto consta a questa Corte, in particolare per il solo richiamo contenuto nel ricorso del Procuratore territoriale, il reato è afferente ad una violazione di tipo ambientale ex art. 25 -undecies d.lgs. n. 231 del 2001.
L’ordinanza impugnata evidenzia come l’art. 59 cit. preveda che la responsabilità amministrativa debba essere contestata in uno degli atti indicati dall’art. 407-bis, comma 1, cod. proc. pen., dunque formulando l’imputazione in caso di patteggiamento, giudizio abbreviato, giudizio direttissimo, procedimento per decreto e sospensione del procedimento con messa alla prova, ovvero con richiesta di rinvio a giudizio.
Il Tribunale di Rimini rileva come l’art. 34 d.lgs. 231 del 2001 preveda l’applicabilità delle norme processuali previste per il reato dal quale dipende l’illecito amministrativo anche in relazione a quest’ultimo, ma solo «in quanto compatibili», cosicchè l’omesso rinvio dell’art. 59 cit. all’art. 552 cod. proc. pen. escluderebbe la compatibilità richiesta, dovendo prevalere la disciplina speciale e quindi l’obbligatorietà della richiesta di rinvio a giudizio rivolta al G.u.p. e necessità dell’udienza preliminare, questa invece esplicitamente prevista.
L’art. 36 del medesimo decreto legislativo – che afferma la competenza, quanto all’illecito amministrativo conseguente a reato, del medesimo giudice penale – si limiterebbe a fissare il principio della identità del giudice competente a decidere sul reato e sull’illecito amministrativo dipendente (se competente è il Tribunale in composizione monocratica per il reato, lo sarà anche per l’illecito amministrativo), ma non anche l’identità delle forme di esercizio dell’azione penale (per l’illecito amministrativo resterebbe non consentita la citazione diretta a giudizio).
Osserva, per altro, l’ordinanza impugnata che il criterio di individuazione del giudice competente, comunque, è questione distinta da quella delle forme dell’esercizio dell’azione penale.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini propone ricorso deducendo l’abnormità dell’ordinanza impugnata.
In primo luogo, la Procura ricorrente rileva che la patologia individuata dal Tribunale come nullità non è riconducibile a quelle sanzionate dagli artt. 178, lett. b), e 179 cod. proc. pen. in quanto, in forza dell’art.550, comma 3, cod. proc. pen., se il pubblico ministero esercita l’azione penale con citazione diretta per un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, il giudice deve disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero.
D’altro canto, il ricorrente evidenzia inoltre come l’art. 550, comma 3, cod. proc. pen. preveda che la nullità sia rilevabile su eccezione di parte
tempestivamente proposta, nel termine dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., cosicchè si vede in tema di nullità sanabile e non assoluta.
Il Procuratore ricorrente ritiene, inoltre, che in tema di responsabilità degli enti debbano essere osservate non solo le disposizioni sulla composizione del Tribunale (monocratico o collegiale) ma anche «le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende» (art. 36, comma 2, d.lgs. cit..); nell’ordinanza viene menzionato l’art. 36, comma 2, senza tuttavia che venga attribuito rilievo proprio a tale ultima parte, che sarebbe da intendersi riferita alle modalità di esercizio dell’azione penale, in quanto disciplina ulteriore rispetto a quella in materia di attribuzioni al Tribunale in composizione collegiale e monocratica.
L’interpretazione dell’art. 59 del d.lgs. n.231 del 2001 fornita dal Tribunale, inoltre, non terrebbe conto del fatto che la norma – che escluderebbe la possibilità della citazione ex art. 552 cod. proc. pen. – è stata dettata in origine per delitti per i quali non era previsto l’esercizio dell’azione penale con citazione diretta.
L’ampliamento del novero dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente, evidentemente, impone l’ampliamento delle forme con le quali si può esercitare l’azione penale in relazione alle regole previste per il reato.
Il Procuratore deduce l’abnormità del provvedimento sotto il profilo funzionale, perché determinerebbe una insuperabile stasi del processo, richiamando Sez. U. COGNOME, in quanto all’esito dell’ordinanza dichiarativa della nullità il pubblico ministero dovrebbe esercitare per l’illecito amministrativo l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio, ma il G.u.p. a sua volta dovrebbe restituirgli gli atti.
Sotto altro profilo, il ricorrente deduce l’abnormità del provvedimento in quanto idoneo a imporre strutturalmente e in via permanente – in violazione dell’art. 38 cit. – due percorsi processuali separati, con riguardo alla responsabilità penale e alla responsabilità da reato dell’ente, con potenziale contrasto di giudicati.
Il ricorso, depositato dopo il 30 giugno 2024, è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi del rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e successive integrazioni.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME ha concluso come indicato in epigrafe, rilevando sussistere l’abnormità dedotta.
• GLYPH
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.
2. Va preliminarmente chiarito che il legislatore delegante – I. 29 settembre 2000, n. 300, all’art. 11, comma 1, lett. q), «Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica» – disponeva che il legislatore delegato dovesse «prevedere che le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale».
In sostanza, da un punto di vista processuale e delle garanzie difensive assicurate, la legge delega non prevedeva la necessità di una obbligatoria udienza preliminare quanto alla condotta integrante l’illecito amministrativo dell’ente, fissando invece i principi della coincidenza fra la competenza del giudice del reato e quello delle sanzioni per l’ente, nonché prevedendo per l’accertamento della responsabilità dell’ente l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura penale, in quanto compatibili.
Il legislatore delegato ha regolato le modalità di contestazione dell’illecito amministrativo con l’art. 59 d.lgs. n. 231 del 2001 che al primo comma recita: «1. Quando non dispone l’archiviazione, il pubblico ministero contesta all’ente l’illecito amministrativo dipendente dal reato. La contestazione dell’illecito è contenuta in uno degli atti indicati dall’articolo 407-bis, comma 1, del codice di procedura penale».
Il riferimento all’art. 407-bis, comma 1 – introdotto dal cd. correttivo Cartabia d.lgs. 19 marzo 2024, n. 31, art. 7, comma 1, lettera a), in sostituzione dell’originario rinvio all’art. 405, comma 1 – consegue alle modifiche apportate al codice di rito, che hanno visto soppresso l’art. 405, comma 1, quanto alle modalità di esercizio dell’azione penale, rifluite appunto nell’art. 407-bis, comma 1.
Tale ultima norma prevede – come già l’art. 405, comma 1 – che «l pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, nei casi previsti nei titoli II, III, IV, V e V- bi del libro VI ovvero con richiesta di rinvio a giudizio».
Il Tribunale di Rimini, in forza del dato meramente letterale, fa derivare la nullità della citazione diretta per l’illecito attribuito all’ente, in ragione d assenza di un diretto rinvio alla disciplina di tale ultima modalità di esercizio
dell’azione penale, regolata dal libro VIII del codice di rito (artt. 550 e ss. cod. proc. pen.).
A ben vedere, ai fini della valutazione della abnormità o meno dell’ordinanza impugnata, occorre porsi preliminarmente il tema della correttezza o meno della lettura operata dall’ordinanza impugnata.
Anticipando le conclusioni, si deve osservare come non solo una interpretazione sistematica, ma anche quella letterale, per altro verso, conducono a rilevare come si verta in tema di una dimenticanza del legislatore, non certamente dell’espressione di una volontà di escludere l’esercizio dell’azione penale a mezzo citazione diretta per il solo illecito dell’ente, operandosi in tal modo una sistematica separazione dei procedimenti in caso di reato per il quale è richiesta la ‘citazione diretta’.
3. Oltre al dato già evidenziato – che il legislatore della Delega non abbia fissato alcuna limitazione quanto alle forme di contestazione dell’illecito amministrativo – va anche richiamato il contenuto della Relazione governativa di accompagnamento al d.lgs. n. 231/2001, che al par. 18 afferma: «Lo svolgimento della procedura di accertamento della responsabilità è, in parte, conseguenza della scelta di equiparare la posizione dell’ente a quella dell’imputato. Pertanto, nella sezione V, si sono disciplinate soprattutto le deroghe rispetto alla disciplina in materia di indagini e di udienza preliminare. Per il caso non debba procedersi ad archiviazione, l’art. 59 prevede che il pubblico ministero formalizzi la contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato all’ente . La contestazione svolge la stessa funzione dell’imputazione rispetto alla persona fisica: addebitare ad un soggetto collettivo un illecito amministrativo a struttura complessa, con lo scopo di definire l’oggetto del processo, delimitando i confini dell’accertamento del giudice, e di mettere in grado l’ente di esercitare il diritto di difesa. Si è previsto che la contestazione dell’illecito sia sempre formalizzata in uno degli atti indicati dall’art. 405, comma 1., c.p.p. con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, anche nel caso in cui si proceda soltanto nei confronti dell’ente: in quest’ultima ipotesi, peraltro, non vi sarà esercizio dell’azione penale e l’atto conterrà solo la contestazione dell’illecito amministrativo. Pertanto, nei casi in cui sia richiesta l’udienza preliminare l’atto contestativo sarà contenuto nella richiesta di rinvio a giudizio; qualora, invece, si tratti di illecito attratto n competenza del giudizio monocratico senza udienza preliminare, l’atto di contestazione sarà contenuto nel decreto di citazione diretta a giudizio; per i giudizi speciali la contestazione sarà, anche qui, contenuta nei diversi atti attraverso cui si esercita l’azione penale». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La Relazione evidenzia la connessione fra illecito amministrativo e reato e aggiunge anche che sia ben possibile che il procedimento, attraverso il quale sia contestato l’illecito amministrativo, sia quello della citazione diretta, se prevista per il reato presupposto.
L’ordinanza impugnata non sfugge alla Relazione di accompagnamento, ma rileva come la stessa non possa superare il dato letterale dell’art. 59, che non opera il rinvio agli artt. 550 e ss.
In vero, le Sez. U, n. 17156 del 30/09/2021, dep. 03/05/2022, Gallo, Rv. 283042 – 02 hanno ribadito, al par. 8.2, che all’interpretazione della legge non è « estraneo l’esame delle connotazioni testuali della norma alla luce dell’intento del legislatore quale emerge dai lavori preparatori (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, non mass. sul punto). In tal senso le Sezioni Unite sono intervenute da tempo, affermando che “il pensiero espresso dagli artefici della legge nella fase del travaglio legislativo può e deve essere tenuto presente dall’interprete, purché, peraltro, sussista un duplice presupposto: 1) che la dizione della norma ‘non implichi un significato già di per sé chiaro ed univoco, nel quale caso ogni eventuale diversità cli intenzione deve cedere di fronte alla manifestazione di volontà risultante dalla formula concretata; 2) – che il pensiero espresso dai parlamentari si riferisca proprio al contenuto del disposto che richieda più penetranti mezzi interpretativi a causa del suo oscuro dettato” (Sez. U, n. 16 del 10/12/1957, COGNOME, Rv. 097831)».
Pertanto, deve tenersi in conto che l’intenzione del legislatore era quella di consentire l’esercizio della contestazione per la responsabilità dell’ente anche a mezzo di citazione diretta. Tanto più che la dizione dell’art. 59, per quanto si leggerà a seguire, non risulta avere le caratteristiche di chiarezza e univocità che consentano di escludere la rilevanza della Relazione di accompagnamento e dell’intenzione del legislatore.
Infatti, tornando al solo dato letterale, a riprova che non vi fosse una volontà del legislatore delegante, né di quello delegato, di escludere la citazione diretta a giudizio per il solo illecito amministrativo, va anche richiamato, come acutamente è stato osservato in dottrina, il dettato dell’art. 62 del d.lgs. n. 231, che ha introdotto la disciplina speciale per gli enti in relazione al giudizio abbreviato: tale norma, al secondo comma, prevede che «e manca l’udienza preliminare, si applicano, secondo i casi» le disposizioni del procedimento per decreto (art. 557), dell’udienza di convalida a seguito di giudizio direttissimo (art. 558, comma 8), ma anche dell’udienza dibattimentale a seguito di citazione diretta (art. 555), il che palesa come l’art. 62 preveda come sia ben possibile la contestazione dell’illecito nei confronti dell’ente a mezzo citazione diretta a giudizio ex art. 550 e ss. cod. proc. pen.
Pertanto, il dato letterale complessivo del d.lgs. 231 del 2001, come pure l’intenzione del legislatore, delegante e delegato, lasciano intendere che la formulazione dell’art. 59 cit. sia frutto di una omissione involontaria quanto al rinvio diretto al libro VIII, nella quale è incorso anche il cd. Correttivo Cartabia, che si è limitata al coordinamento fra l’art. 59 cit. e la nuova normativa codicistica.
Da un punto di vista sistematico, inoltre, l’esistenza, fra i reati indicati dall’art. 24 all’art. 25 -duodevicies del d.lgs. n.231 del 2001 – catalogo ampliatosi nel corso degli anni – per i quali l’esercizio dell’azione penale è previsto a citazione diretta, si determinerebbe, seguendo l’interpretazione dell’ordinanza impugnata, la irragionevole conseguenza di una deroga al principio generale della trattazione unitaria – nell’ambito dello stesso procedimento – dell’accertamento della responsabilità penale per l’imputato e di quella amministrativa per l’ente.
Ciò porterebbe a una ‘strutturale separazione’, così da determinare che l’esercizio dell’azione penale per il reato risulterebbe a mezzo citazione diretta e la contestazione per l’illecito amministrativo solo a seguito di udienza preliminare.
L’irragionevolezza di tale interpretazione deriva dal principio generale fissato dall’art. 38 del decreto legislativo, per cui i due procedimenti devono essere riuniti, seguendo solo eccezionalmente strade differenti.
Non a caso l’art. 38 afferma che «l procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente è riunito al procedimento penale instaurato nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito dipende» (comma 1), tanto che nella richiamata Relazione governativa si legge al par. 15.1 che tale norma «prevede, come regola generale, ispirata ad intuibili ragioni di effettività, di omogeneità e di economia processuale, il simultaneus processus: il processo nei confronti dell’ente dovrà, cioè, rimanere riunito, per quanto possibile, al processo penale che ha ad oggetto il reato presupposto della responsabilità dell’ente» fatte salve le eccezioni previste dal comma 2 (sospensione del procedimento nei confronti dell’imputato per incapacità ex art. 71 cod. proc. pen.; scelte di riti alternativi; ovvero quando «l’osservanza delle norme processuali lo rende necessario»).
Rileva questa Corte – accogliendo anche le opinioni della dottrina per cui l’art. 38, comma 1, prende atto dalla pregiudizialità di fatto esistente fra l’accertamento del reato presupposto e quello dell’illecito a carico dell’ente, oltre che di una scelta presuntiva di economia processuale derivante dalla trattazione congiunta dei procedimenti, che impedisce di operare valutazioni diverse rispetto alla trattazione unitaria – che la norma in esame non rende facoltativa la riunione, ma stabilisce che il procedimento per l’illecito amministrativo «è riunito», segnando in ciò una evidente differenza rispetto al dettato dell’art. 17 cod. proc. pen., che rende solo possibile, e non doverosa, la riunione.
In sostanza né il giudice, né il pubblico ministero – non a caso l’art. 38 fa riferimento al ‘procedimento’ e non solo al processo – hanno discrezionalità in merito, essendo presunta dal decreto n. 231 del 2001 per un verso una ragione di economia processuale che giustifica il simultaneus processus, come anche essendo la disposizione funzionale a evitare, come osserva opportunamente la Procura generale, il rischio di contrasti di giudicati, quando non sia necessario trattare separatamente gli illeciti.
Certamente sussistono le ragioni del comma 2 dell’art. 38, per così dire di temperamento alla ‘regola’, che assumono però il valore di eccezioni («si procede separatamente ‘soltanto’ quando ») connesse a vicende relative alla evoluzione del processo e non a ragioni strutturali e, per così dire, ‘genetiche’ rispetto alla contestazione dell’illecito, quale sarebbe quella della contestazione sempre separata come ritenuta dal Tribunale di Rimini.
In tal senso, non convince il richiamo dell’ordinanza impugnata, in ordine al caso in esame, alle ragioni della lett. c) del comma 2 dell’art. 38, cosicché nel caso in esame si dovrebbe procedere separatamente perché «l’osservanza delle disposizioni processuali lo rende necessario»: come interpretata e applicata al caso in esame, la citata lett. c) risulterebbe contraddire la regola generale del primo comma, non più atteggiandosi quale eccezione, bensì come ‘regola’ alternativa per il caso di reati per i quali è consentita la citazione diretta, che non si vedrebbe consentita per l’illecito amministrativo.
Tale risultato avrebbe richiesto, a ben vedere, una specifica ed esplicita previsione, che per le ragioni fin qui esposte non si rinviene nella trama normativa del decreto in esame, né tantomeno, data la natura di eccezione rispetto alla regola generale, può operarsi della stessa una interpretazione che non sia restrittiva, ex art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale.
E d’altro canto, l’interpretazione offerta dall’ordinanza, confligge anche con l’art. 36 del decreto, che dopo aver attribuito al comma 1 al giudice del reato la competenza a decidere dell’illecito amministrativo, al secondo comma afferma che i due illeciti saranno trattati dal Tribunale nella medesima composizione (monocratica o collegiale) e che si osservano «le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo ‘dipende», dal che la contestazione dell’illecito amministrativo deve seguire il rito previsto per il reato, nel caso in esame quello a citazione diretta.
Per altro, tornando a una ‘valutazione di sistema’, davvero non risulta ragionevole procedere separatamente per il reato e per l’illecito amministrativo, a fronte di due percorsi processuali – udienza preliminare e citazione diretta caratterizzati da analoghe garanzie, tanto più a seguito della riforma che ha introdotto l’udienza predibattimentale ex art. 554-bis cod. proc. pen., nonché la
possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 554-ter cod. proc. pen.
All’interpretazione che ritiene consentita la citazione diretta anche per l’illecito amministrativo ha aderito Sez. 4, n. 387 del 2022, RAGIONE_SOCIALE, n.nn., richiamata opportunamente dalla Procura generale di questa Corte di cassazione: si ritiene, in modo condiviso da questa Corte, che l’art. 34 del decreto n. 231 del 2001 GLYPH – che sancisce che «nel procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente, dipendente da reato, si osservano le disposizioni del codice di procedura penale, in quanto compatibili» – consenta la citazione a giudizio diretta anche dell’illecito amministrativo, quando tale rito sia previsto per il reato-presupposto, «non essendo ravvisabile alcuna ragione di incompatibilità delle norme processuali concernenti la citazione diretta con il sistema della responsabilità amministrativa dell’ente delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001. D’altronde, come correttamente osservato dal giudice a quo, l’art. 38 d.lgs. n. 231 del 2001 impone il simultaneus processus, salvi i casi indicati dall’art. 38, comma 2, dal novero dei quali esula la fattispecie concreta in esame».
Si deve anche richiamare altra pronuncia di segno opposto – Sez. 4, n. 40724 del 2024, RAGIONE_SOCIALE n.m. che valuta l’esaminata disposizione dell’art. 38, comma 2, lett. c), per ritenere sia possibile procedere separatamente quando per il reato sia prevista la citazione diretta, vertendosi in caso di disposizioni processuali che rendono necessaria la deroga. Ma sul punto questa Corte richiama le argomentazioni spese ai punti 3 e 4 che precedono.
Tanto premesso, deve evidenziarsi, a differenza di quanto sostenuto da RAGIONE_SOCIALE, che nel caso in esame l’ordinanza impugnata assuma i caratteri dell’abnormità.
Va da subito evidenziato come secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite Toni (sentenza n. 25957 del 26/03/2009), pronuncia da ultimo richiamata anche da Sez. U, n. 37502 del 28/04/2022, COGNOME Rv. 283552 – 01, l’area dell’abnormità, ricorribile per cassazione, nella sua duplice accezione, strutturale e funzionale, va ricondotta ad un fenomeno unitario, caratterizzato dallo sviamento della funzione giurisdizionale, inteso non tanto quale vizio dell’atto, che si aggiunge a quelli tassativamente stabiliti dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., quanto come esercizio di un potere in difformità dal modello descritto dalla legge.
In particolare, nei rapporti tra giudice e pubblico ministero, l’abnormità strutturale è riconoscibile soltanto nel «caso di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall’ordinamento processuale (carenza di potere in
astratto), ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale nel senso di esercizio di un potere previsto dall’ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto). L’abnormità funzionale, riscontrabile nel caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo, va limitata all’ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo» (Sez. U. n. 25957 del 26/03/2009, Toni, cit.; conf. da ultimo Sez. U, n. 20569 del 18/01/2018, Ksouri, Rv. 272715).
Per quel che qui rileva si verte in tema di abnormità funzionale, in quanto l’ordinanza dichiarativa della nullità determina una stasi processuale.
A riguardo, va richiamato quanto affermato in un caso sovrapponibile da Sez. 5, n. 28694 del 19/05/2022, COGNOME, Rv. 283578 – 01, che ha ritenuto abnorme, in quanto determinante un’indebita regressione, nonché la stasi del procedimento, il provvedimento del giudice del dibattimento che, a fronte del corretto esercizio dell’azione penale nelle forme della citazione diretta a giudizio per il delitto di cui all’art. 624-bis, cod. pen., come modificato dalla legge 26 aprile 2019, n. 36, aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per la richiesta di rinvio a giudizio.
Osserva Sez. 5 Caggia che l’azione penale era stata correttamente esercitata dal Pubblico ministero mediante citazione diretta a giudizio e che, per effetto dell’ordinanza impugnata, si era creato un effetto di stallo o regressione processuale, non rimediabile se non attraverso un intervento del giudice di legittimità, effetto proprio, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale, di un atto abnorme (cfr. in proposito Sez. U., n. 33 del 22/11/2000, COGNOME; n. 28807 del 29/05/2002, Manca; n. 25957 del 26/03/2009, NOME).
Come nel caso COGNOME anche nel caso in esame si verifica una situazione di stasi, in quanto a fronte del provvedimento impugnato è oggi impossibile reiterare il medesimo decreto di citazione diretta per l’illecito amministrativo, né si potrebbe procedere con una richiesta di rinvio a giudizio da inoltrare al giudice dell’udienza preliminare, perché si tratterebbe di un esercizio dell’azione penale in forma non corretta, avuto riguardo al dettato dell’art. 59 d.lgs. n. 231 del 2001, come in precedenza interpretato, che determinerebbe correttamente il G.u.p. a dichiarare l’inosservanza della disciplina della citazione diretta a giudizio, disponendo la trasmissione al Pubblico ministero degli atti per l’emissione del relativo decreto ex art. 33-sexies cod. proc. pen.
D’altro canto, nello stesso senso è stato ritenuto abnorme il provvedimento del giudice del dibattimento che, ritenendo erroneamente necessaria l’udienza
preliminare, disponga la restituzione degli atti al P.M., per avere esercitato l’azione penale – in ordine al delitto di cui all’art. 73, comma quinto, del d.P.R. 9.10.1990 n. 309 – nelle forme della citazione diretta a giudizio, attesa la conseguente stasi insuperabile del processo, non potendo, da un lato, essere emesso un nuovo decreto di citazione diretta e, dall’altro, non potendo il P.M. procedere con una richiesta di rinvio a giudizio, la cui non rispondenza alla disciplina processuale sarebbe oggetto di rilevazione da parte del Collegio (Sez. 6, n. 52160 del 16/11/2016, Belville, Rv. 268623 – 01; mass. conf.: N. 8708 del 2014 Rv. 258685 – 01, N. 46489 del 2015 Rv. 265070 – 01).
Né a tale stasi può porre rimedio la possibilità di una riunione successiva dei procedimenti, che implicherebbe comunque il corretto esercizio della contestazione dell’illecito amministrativo con citazione diretta al Tribunale in composizione monocratica (il riferimento alla riunione successiva è contenuto nella sentenza di Sez. 4, RAGIONE_SOCIALE), oltre alla circostanza che i due giudizi siano nello stesso stato e grado di giudizio.
Va, infine, anche richiamato quanto le Sez. U. COGNOME osservano in ordine al rapporto fra abnormità funzionale ‘da stasi’ e responsabilità disciplinare, rilevando come non può valere ad escludere il prospettato profilo di abnormità l’esigenza, pur avvertita dalle Sez. U. Toni, di restringere la nozione di atto abnorme, che fra l’altro può costituire illecito disciplinare del magistrato, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lett. ff), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che fa riferimento all’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza. Va, peraltro, osservato che in questa sede si discute di una nozione che assume rilievo tecnicoprocessuale, mentre la formula usata per definire l’illecito disciplinare fa immediato riferimento ad un’ipotesi di provvedimento emesso in carenza di potere, primariamente produttivo di sviamento della giurisdizione in chiave strutturale, e rinvia più in generale, nella prospettiva deontologica, ad un complessivo giudizio di macroscopicità e di inescusabilità, che, al di fuori di qualsivoglia automatismo, implica la valutazione del caso concreto (per la nozione di atto abnorme a fini deontologici, è stata richiamata Sez. U, civ., n. 11431 del 12/05/2010, in motivazione, in cui abnorme è stato riconosciuto «l’atto adottato da qualsiasi giudice oltre i limiti di legge o per fini diversi da quelli sanciti dalle norme»).
7. Deve pertanto affermarsi che è abnorme il provvedimento del giudice del dibattimento che, ritenendo erroneamente necessaria l’udienza preliminare, dichiari la nullità parziale del decreto di citazione diretta a giudizio in ordine al solo illecito amministrativo dell’ente, dipendente da reato per il quale è previsto
l’esercizio dell’azione penale ex art. 550 cod. proc. pen., attesa la conseguente stasi insuperabile del processo, non potendo, da un lato, essere emesso un nuovo decreto di citazione diretta e, dall’altro, non potendo il P.M. procedere con una richiesta di rinvio a giudizio, la cui non rispondenza alla disciplina processuale anche relativamente alla necessità di trattazione congiunta del reato e dell’illecito amministrativo ex art. 38, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001 – sarebbe oggetto di rilevazione da parte del G.u.p. ex art. 33-sexies cod. proc. pen.
Ne consegue l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, con trasmissione al Tribunale di Rimini per ulteriore corso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Rimini, per l’ulteriore corso.
Così deciso il 10/1/2025