Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3199 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3199 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/09/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME COGNOME nato a VERONA il DATA_NASCITA NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 26/09/2022 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME
che ha concluso chiedendo
Il Proc. Gen. si riporta alla requisitoria in atti e conclude per l’inammissibilità ricorso con le conseguenti statuizioni.
udito il difensore
L’AVV_NOTAIO NOME COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l’accoglimento del ricorso.
AVV_NOTAIO insiste per l’accoglimento del ricorso.
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Roma confermava la sentenza con cui il tribunale di Roma, in data 13.4.2021, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato COGNOME NOME e COGNOME NOME, ciascuno alla pena di anni due, mesi due, giorni venti di reclusione ed euro 1000,00 di multa, in relazione al reato ex artt. 110, 56, 624 bis, 625, n. 2 e n. 5, c.p., in rubrica loro ascritto, ritenute prevalenti le contestate recidive qualificate e aggravanti, e operata la riduzione per la scelta del rito.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione entrambi gli imputati, con un unico atto di impugnazione, fondato su motivi comuni, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale, rilevando un errore nella determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio commesso dal giudice di primo grado in favore degli imputati, è partita da una penabase per il reato consumato di cui all’art. 624 bis, co. 3, pari a sei anni di reclusione, ignorando che il delitto tentato costituisce autonoma figura di reato e confermando il giudizio di sub-valenza della riconosciuta circostanza attenuante del risarcimento del danno rispetto alla recidiva e alle ulteriori circostanze aggravanti, in assenza di una motivazione concreta e in violazione del disposto dell’art. 69, c.p., senza tacere l’assenza di motivazione in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; 2) violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), c.p., considerata comunque subvalente, in quanto la corte di appello non indica le ragioni per cui ha ritenuto che il risarcimento del danno operato dagli imputati sia stato effettuato al difuori dei presupposti dell’art. 62, n. 6), c.p. e non ha considerato l’attenuante in questione ai fini del calcolo della pena da espiare; 3) violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale violato il principio di uguaglianza processuale, riservando ai ricorrenti un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto alla pena
inflitta al correo NOME, giudicato con rito ordinario, che ha goduto, invece, di un trattamento sanzionatorio più mite, pur non avendo quest’ultimo partecipato in misura minore ai fatti per cui si procede.
Con requisitoria scritta del 21.7.2023, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che i ricorsi vengano dichiarati inammissibili.
I ricorsi vanno dichiarati inammissibili per le seguenti ragioni.
Premesso che ad entrambi gli imputati è stato contestato il delitto di tentato furto pluriaggravato in appartamento, con la recidiva specifica reiterata nel quinquennio per il COGNOME e quella specifica nel quinquennio per il COGNOME, il giudice di primo grado, nella determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, ha precisato di avere assunto come pena base il minimo edittale di cui all’art. 624 bis co. 3, c.p., nella misura di cinque anni di reclusione ed euro 1500,00 di multa, apportando su detta pena una riduzione ex art. 56, c.p., nella misura inferiore ai due terzi, sino ad anni tre, mesi quattro di reclusione (lasciando invariata la pena pecuniaria), seguita dalla riduzione per la scelta del rito alternativo.
Correttamente la corte di appello ha evidenziato che, invece, nel caso in esame andava applicato il disposto dell’art. 63, co. 4, c.p., secondo cui, in caso di concorso tra più circostanze aggravanti a effetto speciale, quali sono, per l’appunto, le contestate recidive qualificate e le circostanze aggravanti contemplate dall’art. 625, co, 1, n. 2) e n. 5), c.p., si applica solo l’aumento previsto per la circostanza aggravante più grave, pur potendo il giudice aumentare l’entità della pena in misura non eccedente un terzo.
Premesso che la recidiva qualificata e ritenuta per entrambi gli imputati comporta un aumento superiore rispetto a quello da applicare per la sussistenza delle circostanze aggravanti ai sensi dell’art. 624 bis, co. 3, c.p., rileva la corte di appello, ancora una volta correttamente, che la pena base avrebbe dovuto essere determinata partendo da quella di cui all’art. 624 bis, co. 1, c.p., (da quattro a sette anni di reclusione
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aumentata ai sensi dell’art. 99, c.p., aumento che, per il COGNOME, già recidivo, avrebbe dovuto essere di due terzi; per il COGNOME della metà, e sulla pena così determinata, pari, nel minimo, a sei anni di reclusione per il COGNOME e a oltre sei anni di reclusione per il COGNOME, si sarebbe dovuta operare la duplice riduzione per il tentativo e per il rito.
Il giudice di primo grado, invece, come si è detto, dopo avere risolto il giudizio di bilanciamento nel senso della prevalenza della recidiva e delle circostanze aggravanti, è partito da una pena base di cinque anni di reclusione, inferiore al minimo, operando su tale pena una prima riduzione per il tentativo e, poi, la riduzione finale per la scelta del rito.
Ne consegue che, essendosi risolto l’errore di calcolo, come rilevato dalla corte di appello, in favore degli imputati, senza che vi si possa porre rimedio, in assenza di impugnazione sul punto del pubblico ministero, difetta l’interesse degli stessi imputati a ottenere una nuova valutazione sul punto della determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, senza tacere che i rilievi articolati con il primo motivo di ricorso appaiono, per le ragioni già espresse, anche manifestamente infondati e attinenti alla dosimetria della pena.
Quanto al tema delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), c.p., si osserva che i rilievi dei ricorrenti si presentano come censure sul merito del trattamento sanzionatorio, posto che il giudice di primo grado ha ritenuto che tali circostanze, ove pure fossero state ritenute sussistenti, dovessero ritenersi sub-valenti rispetto alle ritenute recidive e circostanze aggravanti, con giudizio implicitamente condiviso dalla corte territoriale, che ha confermato il giudizio di prevalenza.
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (cfr. Cass., sez. IV, 06/05/2014, n. 29951).
Né va taciuta l’esistenza di un costante orientamento del Supremo Collegio, secondo cui ai fini del giudizio di comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, anche la sola enunciazione dell’eseguita valutazione delle circostanze concorrenti soddisfa l’obbligo della motivazione, trattandosi di un giudizio rientrante nella discrezionalità del giudice e che, come tale, non postula un’analitica esposizione dei criteri di valutazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 08/07/2010, n. 36265, rv. 248535; Cass., sez. I, 09/12/2010, n. 2668, rv. 249549).
Va, inoltre, considerato che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità con condivisibile orientamento, l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p. (cfr. Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).
Tale da involgere un inammissibile giudizio di merito sulla dosimetria della pena, infine, appare l’ultimo motivo di ricorso, avendo la corte territoriale, con motivazione affatto manifestamente illogica o contraddittoria, giustificato la diversità del trattamento sanzionatorio con il coimputato, in considerazione della diversa intensità del contributo fornito all’azione criminosa.
Rileva infatti, con logico argomentare, la corte di appello, che “la partecipazione attiva dei due odierni appellanti al reato è stata più consistente rispetto a quella del COGNOME, posto che quest’ultimo, mentre il COGNOME era intento a scassinare il portone di ingresso, era
rimasto sul sedile del passeggero a bordo dell’autovettura utilizzata per recarsi sul posto, unitamente al COGNOME, il quale comunque era il conducente dei veicolo”.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 13.9.2023.