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Chiamata in reità: quando vale la prova?

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un pubblico ministero, confermando l’annullamento di un’ordinanza cautelare per reati di mafia e omicidio. La decisione si fonda sulla mancanza di validi riscontri alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. La Corte ha stabilito che la loro testimonianza, essendo una chiamata in reità ‘de relato’ e probabilmente derivante dalla stessa fonte, non possedeva l’autonomia genetica necessaria per corroborarsi a vicenda, rendendo il quadro indiziario insufficiente.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in reità: la Cassazione fissa i paletti per la validità della prova

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ribadisce i rigorosi criteri per la valutazione della chiamata in reità, specialmente quando questa si basa su informazioni indirette. Il caso analizzato offre uno spunto fondamentale per comprendere quando la parola di un collaboratore di giustizia può costituire una prova valida e quando, invece, necessita di solidi riscontri esterni per non violare i principi del giusto processo.

I Fatti del Caso

Il procedimento nasce da un’indagine su reati di associazione mafiosa e un omicidio. Le accuse a carico di un indagato si fondavano principalmente sulle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Tuttavia, il Tribunale del riesame, in sede di appello cautelare, aveva annullato l’ordinanza di custodia in carcere, ritenendo il quadro indiziario insufficiente.

Secondo il Tribunale, le dichiarazioni dei due collaboratori, pur provenendo da soggetti ritenuti intrinsecamente attendibili, non potevano sostenersi a vicenda. Il problema risiedeva nella natura delle loro conoscenze: entrambi riportavano informazioni apprese da terzi (‘de relato’), e sussisteva il fondato dubbio che la fonte originaria fosse la medesima persona per entrambi. Mancava, quindi, il requisito dell’autonomia genetica delle fonti, indispensabile perché due chiamate in reità possano fungere l’una da riscontro per l’altra. Il Pubblico Ministero ha presentato ricorso in Cassazione contro questa decisione, sostenendo che le dichiarazioni fossero riconducibili a un ‘patrimonio conoscitivo comune’ dell’associazione criminale e che il Tribunale avesse errato nella valutazione della loro circolarità.

I Principi della Chiamata in reità secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del Pubblico Ministero, confermando la decisione del Tribunale del riesame. I giudici supremi hanno chiarito che, sebbene le informazioni circolanti all’interno di un’associazione mafiosa possano assumere un particolare rilievo probatorio, non si può prescindere da una verifica rigorosa delle modalità con cui il collaboratore le ha acquisite. Non basta affermare che un’informazione fa parte del ‘patrimonio conoscitivo comune’; occorre dimostrare che sia effettivamente così, escludendo che si tratti di una semplice notizia appresa ‘de relato’.

Nel caso specifico, il Tribunale aveva correttamente evidenziato il dubbio che le fonti dei due collaboratori non fossero indipendenti. Questa incertezza impediva di superare la natura di testimonianza indiretta e, di conseguenza, rendeva le due dichiarazioni incapaci di riscontrarsi reciprocamente. La Corte ha sottolineato che, per essere valido, un riscontro deve provenire da un elemento esterno e autonomo rispetto alla dichiarazione da confermare.

Le Motivazioni

La motivazione della Suprema Corte si articola su tre punti principali.

In primo luogo, si è ribadito che la valutazione di una chiamata in reità ‘de relato’ richiede estrema cautela. Affinché possa avere valore, è necessario che le dichiarazioni siano supportate da riscontri individualizzanti, ovvero elementi specifici che leghino l’accusato al fatto. Quando due dichiarazioni ‘de relato’ sono usate per riscontrarsi a vicenda, è imperativo dimostrare la loro ‘autonomia genetica’, cioè che derivino da fonti di informazione diverse.

In secondo luogo, la Corte ha respinto la tesi del Pubblico Ministero secondo cui le dichiarazioni rientrassero nel ‘patrimonio conoscitivo comune’ del clan. Tale argomento, definito ‘alquanto indefinito’, non era supportato da elementi concreti che dimostrassero una circolarità generale delle informazioni sull’omicidio, tale da renderle una conoscenza condivisa e non una mera voce riportata.

Infine, la Cassazione ha ritenuto infondato anche il motivo relativo alle esigenze cautelari. Avendo stabilito l’inutilizzabilità delle dichiarazioni per l’accusa di omicidio, veniva meno il presupposto su cui il Pubblico Ministero basava la richiesta di una nuova valutazione della pericolosità sociale dell’indagato.

Le Conclusioni

La sentenza in esame è di fondamentale importanza perché riafferma un principio cardine del diritto processuale penale: un’accusa, per quanto proveniente da un soggetto ritenuto credibile, non può basarsi su fondamenta incerte. La chiamata in reità, specialmente quella indiretta, necessita di riscontri oggettivi, esterni e autonomi. Senza questi pilastri, il castello accusatorio è destinato a crollare. La decisione protegge l’imputato dal rischio di condanne basate su ‘voci’ non verificate, garantendo che la gravità degli indizi sia sempre ancorata a prove concrete e attendibili, in linea con i principi del giusto processo.

Quando una chiamata in reità può essere considerata prova sufficiente?
Una chiamata in reità, specialmente se proveniente da un collaboratore di giustizia, deve essere valutata con grande cautela. Per essere considerata prova sufficiente, deve essere supportata da riscontri esterni, ovvero da altri elementi di prova (documentali, testimoniali, etc.) che ne confermino l’attendibilità e la veridicità in modo autonomo e indipendente.

Cosa significa che due testimonianze devono avere ‘autonomia genetica’?
Significa che le due testimonianze, per potersi confermare a vicenda, devono provenire da fonti di informazione diverse e indipendenti. Se entrambe le testimonianze si basano sulla stessa fonte originaria (ad esempio, sono state riferite ad entrambi i testimoni dalla stessa persona), non hanno autonomia genetica e non possono fungere l’una da riscontro per l’altra, perché si tratterebbe di una singola voce amplificata.

Qual è la differenza tra una dichiarazione ‘de relato’ e una basata sul ‘patrimonio conoscitivo comune’ di un clan?
Una dichiarazione ‘de relato’ è una semplice testimonianza indiretta, basata sul ‘sentito dire’. Una dichiarazione basata sul ‘patrimonio conoscitivo comune’, invece, attinge a un insieme di informazioni che circolano e sono note a tutti i membri di un’organizzazione criminale. Quest’ultima può avere un valore probatorio maggiore, ma il giudice deve verificare con rigore che l’informazione sia effettivamente una conoscenza diffusa e condivisa all’interno del gruppo e non una semplice voce riportata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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