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Chiamata in reità: annullata misura cautelare

Un uomo è stato posto in custodia cautelare per un duplice omicidio, basandosi principalmente sulla testimonianza del proprietario di un’auto vista sulla scena del crimine. Tale testimone, dopo aver fornito versioni contraddittorie, ha accusato l’indagato. La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza restrittiva, evidenziando come la chiamata in reità non fosse supportata da validi e autonomi riscontri esterni. Il Tribunale del riesame non ha valutato adeguatamente l’attendibilità del dichiarante e la natura circolare delle prove, tutte riconducibili alla medesima fonte.

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Pubblicato il 10 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in reità: la Cassazione annulla la custodia in carcere

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale del nostro sistema processuale penale: una misura grave come la custodia cautelare in carcere non può fondarsi unicamente su una chiamata in reità priva di solidi e autonomi riscontri esterni. Il caso in esame riguarda un duplice omicidio aggravato dal metodo mafioso, dove l’intero impianto accusatorio poggiava sulle dichiarazioni di un unico soggetto, la cui attendibilità era fortemente dubbia.

I fatti del caso

La vicenda trae origine da un brutale duplice omicidio. Le vittime, un uomo e la sua compagna, vengono attirate in una masseria e uccise a colpi d’arma da fuoco. Una telecamera di sorveglianza riprende l’auto delle vittime allontanarsi dalla masseria, seguita da un fuoristrada. Le indagini identificano rapidamente il proprietario di quest’ultimo veicolo, che diventa il principale sospettato e testimone chiave.

Inizialmente, il proprietario dell’auto fornisce agli inquirenti tre versioni diverse e contrastanti su chi avesse in uso il suo veicolo il giorno del delitto. Solo alla fine, indica come responsabile l’odierno ricorrente. Sulla base di questa accusa, il Giudice per le Indagini Preliminari dispone la custodia cautelare in carcere per l’indagato, misura poi confermata dal Tribunale del riesame.

I motivi del ricorso e la debolezza della chiamata in reità

La difesa ha impugnato l’ordinanza dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando l’assenza di gravi indizi di colpevolezza e la manifesta illogicità della motivazione. Il fulcro della tesi difensiva era chiaro: l’accusatore, essendo il proprietario del mezzo usato per il delitto, aveva un evidente interesse ad allontanare da sé i sospetti, costruendo una versione calunniosa a danno di terzi.

La difesa ha evidenziato un punto cruciale: tutte le prove a sostegno dell’accusa erano inquinate alla fonte. Le testimonianze di altri soggetti e le intercettazioni ambientali non facevano che riportare informazioni apprese direttamente o indirettamente dall’accusatore principale. Si era creata una prova circolare, dove la fonte dell’accusa era anche l’unica fonte di (apparente) conferma, violando il principio cardine che richiede riscontri esterni e indipendenti.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza impugnata con rinvio per un nuovo esame. I giudici di legittimità hanno riscontrato una profonda lacuna motivazionale nel provvedimento del Tribunale del riesame.

Il Tribunale, infatti, non aveva adeguatamente affrontato le critiche difensive sull’attendibilità del dichiarante e sulla circolarità delle prove. La Corte ha ribadito che, secondo l’art. 192 del codice di procedura penale, la valutazione di una chiamata in reità richiede un percorso rigoroso: il giudice deve prima verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni. Successivamente, e soprattutto, deve accertare l’esistenza di riscontri esterni che confermino l’accusa.

Nel caso specifico, questi riscontri mancavano del tutto. Le dichiarazioni dei collaboratori dell’accusatore o dei suoi familiari erano testimonianze de relato, ossia riportavano semplicemente quanto detto loro dalla fonte originaria, senza aggiungere alcun elemento di conoscenza autonoma. Persino le intercettazioni, in cui l’accusatore parlava del coinvolgimento dell’indagato, sono state ritenute prive di valore di riscontro, in quanto provenienti sempre dalla stessa persona, che peraltro era consapevole di poter essere intercettata dopo una perquisizione.

La Corte ha censurato il Tribunale per non aver approfondito questi aspetti, limitandosi a riportare il contenuto delle accuse senza un vaglio critico e senza rispondere alle specifiche obiezioni difensive. È stato sottolineato come l’obbligo di motivazione non possa essere eluso, specialmente quando sono in gioco diritti fondamentali come la libertà personale.

Le conclusioni

La sentenza rappresenta un importante monito sull’applicazione delle misure cautelari. La libertà di una persona non può essere sacrificata sulla base di un quadro indiziario fragile, fondato sulle dichiarazioni di un singolo accusatore la cui credibilità è minata da contraddizioni e da un potenziale interesse personale. La decisione riafferma la necessità di un’analisi rigorosa e approfondita delle prove, che devono essere corroborate da elementi esterni, oggettivi e individualizzanti.

L’annullamento con rinvio impone al Tribunale del riesame di colmare le lacune motivazionali evidenziate, procedendo a una nuova e più attenta valutazione dell’intero compendio indiziario, nel pieno rispetto delle garanzie difensive e dei principi del giusto processo.

Quando una ‘chiamata in reità’ è sufficiente per una misura cautelare in carcere?
Secondo la sentenza, una chiamata in reità da sola non è sufficiente. Deve essere supportata da riscontri esterni, ovvero da altri elementi di prova che siano indipendenti, individualizzanti (cioè che riguardino specificamente la persona accusata) e che non provengano dalla stessa fonte dell’accusa.

Perché la Corte ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare?
La Corte ha annullato l’ordinanza perché ha ritenuto che la decisione del Tribunale del riesame fosse viziata da lacune motivazionali. In particolare, il Tribunale non ha valutato criticamente l’attendibilità del principale accusatore, che aveva fornito versioni contrastanti, e non ha considerato che tutti gli elementi a sostegno dell’accusa provenivano, direttamente o indirettamente, da lui solo, creando un quadro probatorio circolare e autoreferenziale.

Cosa succede quando le prove a sostegno di un’accusa provengono tutte dalla stessa persona?
Se le prove a sostegno di un’accusa provengono tutte dalla stessa fonte (direttamente o attraverso testimonianze ‘de relato’), si verifica il fenomeno dell”unicità della fonte informativa’. In questo caso, come stabilito dalla sentenza, manca il requisito dei riscontri esterni, rendendo il quadro indiziario debole e inidoneo a giustificare una misura restrittiva della libertà personale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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