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Chiamata in correità: requisiti per la misura cautelare

La Corte di Cassazione annulla un’ordinanza di arresti domiciliari per detenzione di stupefacenti, basata sulla sola chiamata in correità di un co-indagato. La sentenza ribadisce che, ai fini delle misure cautelari, le dichiarazioni accusatorie devono essere non solo intrinsecamente attendibili, ma anche supportate da riscontri esterni, oggettivi e individualizzanti, che il giudice di merito aveva omesso di verificare adeguatamente. La semplice presenza dei due soggetti sul luogo del fatto non è sufficiente a costituire un valido riscontro.

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Pubblicato il 17 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in correità: non basta l’accusa del complice per l’arresto

Nel processo penale, la chiamata in correità, ovvero l’accusa mossa da un indagato verso un presunto complice, rappresenta uno strumento investigativo potente ma delicato. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 20219/2024) torna a ribadire i paletti invalicabili per il suo utilizzo, specialmente nella fase delle misure cautelari. La Corte ha chiarito che la sola parola dell’accusatore non è sufficiente a giustificare una misura restrittiva come gli arresti domiciliari, essendo necessari solidi riscontri esterni.

I Fatti del Caso

La vicenda trae origine da un controllo di polizia giudiziaria che porta all’arresto di due persone. Un uomo, passeggero di un furgone, viene trovato in possesso di circa 37 grammi di cocaina, nascosti in un pacchetto di sigarette. L’autista del furgone, inizialmente non collegato al possesso materiale della sostanza, viene coinvolto dalle dichiarazioni del passeggero. Quest’ultimo, infatti, accusa l’autista di avergli chiesto di trasportare la droga in cambio di un compenso economico, sostenendo di avergli persino anticipato una somma di denaro.

Sulla base di questa accusa, il Tribunale dispone gli arresti domiciliari per l’autista. Il provvedimento viene confermato anche in sede di riesame. La difesa dell’indagato, tuttavia, decide di ricorrere in Cassazione, lamentando un vizio di motivazione: a suo dire, il Tribunale non aveva valutato correttamente la gravità indiziaria, fondando la misura cautelare unicamente sulla chiamata in correità del co-indagato, senza un’adeguata verifica della sua attendibilità e senza prove esterne a supporto.

La Valutazione della chiamata in correità secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza e rinviando il caso a un nuovo esame del Tribunale del riesame. Il punto centrale della decisione riguarda i criteri di valutazione della prova in fase cautelare. La legge (art. 273, comma 1-bis, cod. proc. pen.) stabilisce che le dichiarazioni di un co-indagato possono costituire gravi indizi di colpevolezza solo se rispettano due condizioni fondamentali:

1. Attendibilità intrinseca: il racconto dell’accusatore deve essere logico, coerente, preciso e privo di contraddizioni.
2. Riscontri estrinseci: le dichiarazioni devono essere confermate da altri elementi di prova, esterni alla narrazione stessa, che siano oggettivi e individualizzanti.

Nel caso di specie, il Tribunale si era limitato a prendere atto delle accuse, senza effettuare una reale valutazione sulla credibilità del dichiarante e, soprattutto, senza individuare validi elementi di riscontro.

Le Motivazioni della Sentenza

La motivazione della Cassazione è netta: il giudice di merito ha errato nel suo iter logico-giuridico. Gli elementi indicati dal Tribunale a supporto della chiamata in correità erano del tutto generici e inidonei. Nello specifico:

* La compresenza sul furgone: il fatto che i due indagati si trovassero insieme al momento del controllo è un dato di fatto, ma non prova di per sé il concorso nel reato. Non dimostra, cioè, che l’autista fosse a conoscenza della droga trasportata dal passeggero o che avesse partecipato alla sua detenzione.
* Gli scambi di messaggi: il riferimento a ‘intensi messaggi WhatsApp’ scambiati tra i due lo stesso giorno dell’arresto è stato ritenuto insufficiente, poiché il Tribunale non ha specificato il contenuto di tali messaggi. Senza conoscere cosa si fossero detti i due indagati, i messaggi rimangono un elemento neutro, privo di portata accusatoria.
* Il silenzio dell’indagato: la Corte ha ribadito un principio fondamentale, ovvero che l’esercizio del diritto di non rispondere durante l’interrogatorio non può mai essere interpretato come un elemento a carico dell’indagato e, quindi, non può fungere da riscontro a un’accusa.

Il Tribunale, in sostanza, aveva condensato la valutazione in una mera ‘clausola di stile’, senza spiegare perché la chiamata fosse credibile e quali prove concrete la supportassero, violando così le garanzie procedurali previste dalla legge.

Le Conclusioni

La sentenza in esame riafferma con forza un principio di garanzia cruciale: per limitare la libertà personale di un individuo prima di una condanna, non basta l’accusa di un presunto complice. È necessario un vaglio rigoroso da parte del giudice, che deve verificare scrupolosamente sia la credibilità di chi accusa sia l’esistenza di prove esterne, oggettive e specifiche che ne confermino il racconto. Questa decisione sottolinea l’importanza di una motivazione approfondita e non apparente nei provvedimenti cautelari, a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo nel processo penale.

Quando è valida l’accusa di un complice (chiamata in correità) per applicare una misura cautelare?
Secondo la sentenza, la chiamata in correità è valida solo se soddisfa due requisiti: deve essere intrinsecamente attendibile (coerente, logica e precisa) e deve essere corroborata da riscontri esterni, oggettivi e individualizzanti, ovvero prove indipendenti che ne confermino il contenuto.

La semplice presenza di due persone sul luogo di un reato è sufficiente a confermare un’accusa reciproca?
No. La Corte ha chiarito che la mera compresenza dei due indagati all’interno del veicolo è un dato neutro e non costituisce un riscontro oggettivo e individualizzante sufficiente a provare il concorso nel reato di detenzione di stupefacenti.

Il fatto che un indagato si avvalga della facoltà di non rispondere può essere usato come prova contro di lui?
Assolutamente no. La sentenza ribadisce che l’esercizio del diritto di difendersi, avvalendosi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio, è un dato processuale neutro e non può essere utilizzato come riscontro o prova a carico dell’indagato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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