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Chiamata in correità: la valutazione della prova

La Corte di Cassazione conferma la condanna per omicidio premeditato a carico di una donna, ritenuta la mandante dell’assassinio del suo ex compagno. La sentenza si concentra sulla valutazione della chiamata in correità, stabilendo che le dichiarazioni dei coimputati, sebbene contraddittorie, possono fondare una condanna se supportate da solidi riscontri esterni e da una valutazione logica e unitaria di tutti gli elementi probatori. La Corte rigetta la tesi del concorso anomalo, affermando la piena responsabilità per omicidio dato l’uso concordato di armi micidiali.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in correità: la Cassazione sui criteri di valutazione della prova

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 18817 del 2024, offre un’analisi approfondita sui criteri di valutazione della chiamata in correità, ovvero le dichiarazioni accusatorie rese da un coimputato. Il caso riguarda un omicidio premeditato in cui l’imputata era accusata di essere la mandante dell’assassinio del suo ex compagno, commissionato per vendetta dopo la fine della loro relazione. La Suprema Corte ha confermato la condanna, chiarendo principi fondamentali sulla credibilità delle prove dichiarative e sulla responsabilità penale nel concorso di persone.

I fatti del processo

Una donna, a seguito della brusca interruzione di una relazione sentimentale, veniva accusata di aver ordinato l’omicidio del suo ex partner. L’esecuzione materiale del delitto era stata affidata a terzi, i quali, nel corso delle indagini, avevano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti della donna, indicandola come colei che aveva voluto e pianificato l’agguato.

Il percorso processuale è stato complesso: dopo una condanna in primo grado e in appello, la Cassazione aveva annullato la sentenza di secondo grado per un vizio di motivazione, in particolare riguardo alla valutazione delle dichiarazioni di uno dei coimputati. Il caso veniva quindi rinviato a una nuova sezione della Corte d’Assise d’Appello, che, dopo aver riesaminato il testimone chiave, confermava nuovamente la responsabilità dell’imputata. La difesa ricorreva nuovamente in Cassazione, contestando la credibilità delle prove e l’interpretazione del suo ruolo nel delitto.

La valutazione della chiamata in correità secondo la Corte

Il nucleo della decisione della Cassazione ruota attorno alla corretta valutazione della chiamata in correità. La difesa sosteneva che le dichiarazioni dei collaboratori fossero inaffidabili, contraddittorie e dettate da meri scopi utilitaristici. La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato questa visione, riaffermando i principi consolidati in materia.

I giudici hanno chiarito che la valutazione della prova dichiarativa non deve essere frammentata, ma unitaria. Non si possono separare la credibilità soggettiva del dichiarante (chi parla) e l’attendibilità oggettiva del suo racconto (cosa dice). Entrambi gli aspetti devono essere analizzati congiuntamente e, soprattutto, devono trovare conferma in riscontri esterni individualizzanti. Questi riscontri sono elementi di prova esterni alla chiamata stessa (es. intercettazioni, altre testimonianze, dati oggettivi) che ne corroborano la veridicità.

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente operato questo vaglio, valorizzando non solo le dichiarazioni rese nel nuovo processo, ma anche le intercettazioni ambientali in cui i complici, prima ancora di collaborare con la giustizia, discutevano del ruolo della donna come mandante.

Dal “gambizzare” all’omicidio: il rigetto del concorso anomalo

Un altro punto cruciale sollevato dalla difesa era la qualificazione del concorso di persone nel reato. Si sosteneva che l’intento della mandante fosse solo quello di “dare una lezione” o “gambizzare” la vittima, non di ucciderla. Pertanto, si sarebbe dovuta applicare la figura del concorso anomalo (art. 116 c.p.), che prevede una pena inferiore per chi ha voluto un reato meno grave di quello effettivamente commesso.

La Cassazione ha respinto con fermezza questa tesi. Richiamando un principio consolidato, ha affermato che quando i concorrenti pianificano un’azione criminosa che prevede l’uso concordato di armi micidiali, la morte della vittima non può essere considerata un evento imprevedibile. L’adesione a un piano che include l’impiego di armi da fuoco implica l’accettazione del rischio di un esito letale. Di conseguenza, tutti i concorrenti rispondono a titolo di concorso ordinario (art. 110 c.p.) per omicidio premeditato.

Le motivazioni della Cassazione

La Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza d’appello logica, coerente e priva di vizi manifesti. Ha sottolineato come il giudice di rinvio avesse superato le criticità evidenziate nella precedente sentenza di annullamento, procedendo a una rinnovata e approfondita analisi del materiale probatorio. La decisione di riesaminare il testimone chiave ha permesso di formare una “nuova piattaforma probatoria” sulla quale fondare un giudizio di colpevolezza solido.

È stato inoltre confermato l’aggravante della premeditazione, ravvisabile nel lasso temporale intercorso tra la decisione criminosa e la sua esecuzione, e nella persistenza del proposito omicida. Infine, la Corte ha disposto la correzione di un mero errore materiale presente nel dispositivo della sentenza d’appello, dove la pena era stata indicata in 17 anni e 4 mesi anziché nei 14 anni e 4 mesi correttamente calcolati nella parte motiva del provvedimento.

Le conclusioni

La sentenza in esame ribadisce alcuni principi cardine del diritto processuale e penale. In primo luogo, la chiamata in correità è uno strumento probatorio valido, ma richiede un vaglio di credibilità eccezionalmente rigoroso, basato su una valutazione globale e unitaria e supportato da solidi riscontri esterni. In secondo luogo, la responsabilità a titolo di concorso in un reato si estende a tutti gli sviluppi prevedibili del piano criminoso: chi accetta l’uso di armi da fuoco per intimidire o ferire, accetta anche il rischio di uccidere e risponde di omicidio.

Quando è attendibile la testimonianza di un co-imputato (chiamata in correità)?
Secondo la Corte, tale testimonianza è attendibile solo dopo un rigoroso esame che ne verifichi sia la credibilità soggettiva (del dichiarante) sia quella oggettiva (del racconto). È indispensabile che le dichiarazioni siano supportate da elementi di riscontro esterni, individualizzanti e indipendenti, e che il giudice compia una valutazione unitaria e non frammentata di tutti gli elementi a disposizione.

Si risponde di omicidio se l’intenzione iniziale era solo quella di ferire la vittima?
Sì, si risponde di concorso in omicidio e non di un reato meno grave. La Corte ha stabilito che l’adesione a un’impresa criminosa che prevede il necessario e concordato impiego di armi micidiali implica l’accettazione del rischio di un esito letale, considerato uno sviluppo prevedibile del piano. Non si configura, in tal caso, il concorso anomalo.

Cosa accade se la pena indicata nel dispositivo della sentenza è diversa da quella calcolata nella motivazione?
La Corte di Cassazione può correggere quello che viene definito un “errore materiale”. La pena che prevale è quella correttamente calcolata e giustificata all’interno della motivazione della sentenza, e il dispositivo viene adeguato di conseguenza senza necessità di annullare la decisione nel suo complesso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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