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Chiamata in correità: la prova nel processo mafioso

La Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi di due imputati condannati per associazione di tipo mafioso, uno dei quali con ruolo apicale. La sentenza consolida i principi per la valutazione della prova basata sulla chiamata in correità, ovvero le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. La Corte ribadisce che tali dichiarazioni, per essere valide, devono essere attentamente vagliate sotto il profilo della credibilità del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del narrato, e devono essere supportate da riscontri esterni, anche se questi non costituiscono prova autonoma del fatto.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in Correità e Associazione Mafiosa: La Cassazione Conferma la Prova

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 24282/2025) offre importanti chiarimenti sulla valutazione della chiamata in correità nei processi per associazione di tipo mafioso. Questa decisione, nel dichiarare inammissibili i ricorsi di due imputati, ribadisce i rigorosi criteri che i giudici devono seguire per fondare una condanna sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. L’analisi del provvedimento è fondamentale per comprendere come il nostro sistema processuale bilanci la necessità di reprimere gravi fenomeni criminali con la tutela dei diritti degli imputati.

Il Contesto: Accuse di Partecipazione Mafiosa

Il caso trae origine da una sentenza della Corte di Appello che, in sede di rinvio, aveva condannato due individui per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.). Per uno dei due, era stato riconosciuto un ruolo apicale, con una pena rideterminata in diciassette anni di reclusione. Per l’altro, il ruolo era di semplice partecipe, con una pena di otto anni. Le condanne si basavano in modo significativo sulle dichiarazioni convergenti di più collaboratori di giustizia.

I ricorrenti, attraverso i loro difensori, hanno contestato la sentenza d’appello lamentando la violazione delle norme processuali sulla valutazione della prova (art. 192 c.p.p.) e un vizio di motivazione. In sintesi, sostenevano che le dichiarazioni dei collaboratori non fossero sufficientemente attendibili e prive di adeguati riscontri esterni per poter fondare un giudizio di colpevolezza, specialmente per quanto riguarda la prova del ruolo di vertice.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto tutte le censure, dichiarando i ricorsi inammissibili. La decisione conferma integralmente l’impianto logico-giuridico della Corte di Appello, ritenendo la motivazione ampia, argomentata e priva di contraddizioni. La Cassazione ha colto l’occasione per ripercorrere e consolidare i principi giurisprudenziali, in particolare quelli espressi dalle Sezioni Unite nelle celebri sentenze “Marino” e “Aquilina”, in materia di valutazione della chiamata in correità.

Le Motivazioni: la Valutazione della Chiamata in Correità

Il cuore della sentenza risiede nella dettagliata spiegazione del metodo che i giudici di merito devono applicare per valutare le dichiarazioni accusatorie provenienti da coimputati o persone imputate in procedimenti connessi.

Il Metodo a Tre Fasi delle Sezioni Unite “Marino”

La Corte ribadisce che la valutazione deve articolarsi in tre fasi sequenziali e logiche:
1. Credibilità del dichiarante: Si analizza la personalità del collaboratore, il suo passato, i suoi rapporti con gli accusati e le motivazioni che lo hanno spinto a collaborare. Questo serve a stabilire un primo filtro sulla sua affidabilità generale.
2. Attendibilità intrinseca del narrato: Si esamina il contenuto specifico delle dichiarazioni, valutandone la precisione, la coerenza interna, la costanza nel tempo e la spontaneità. Un racconto dettagliato e privo di contraddizioni è intrinsecamente più attendibile.
3. Individuazione dei riscontri esterni: Questa è la fase cruciale. La legge (art. 192, comma 3, c.p.p.) richiede che la chiamata in correità sia corroborata da altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. Questi elementi devono essere esterni alla dichiarazione stessa, per evitare ragionamenti circolari e autoreferenziali.

La Prova del Ruolo Apicale e la Chiamata in Correità

Nel caso specifico di uno dei ricorrenti, la difesa contestava la prova del suo ruolo di vertice. La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, che ha considerato le dichiarazioni dei collaboratori coerenti nel descrivere una pluralità di situazioni concrete indicative della sua primazia nell’associazione. Elementi come la gestione della cassa, il potere di autorizzare azioni violente, i rapporti con i capi di altri mandamenti e l’investitura diretta da parte del capo storico sono stati ritenuti sufficienti a delineare un ruolo apicale, al di là delle mere affermazioni dei collaboratori.

La Partecipazione senza Affiliazione Formale

Per l’altro ricorrente, la cui affiliazione formale non era stata provata, la Corte ha ribadito un altro principio fondamentale: la prova della partecipazione può essere desunta dal compimento di una o più attività significative nell’interesse dell’associazione. La “messa a disposizione” stabile e consapevole a favore del sodalizio, manifestata attraverso condotte concrete (come fare da tramite, accompagnare lo zio a incontri mafiosi, fornire supporto logistico e rendersi disponibile per la detenzione di armi), è sufficiente a integrare il reato, anche in assenza di un rito di iniziazione.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza in esame consolida un orientamento giurisprudenziale di estrema importanza nella lotta alla criminalità organizzata. Si riafferma che la chiamata in correità è uno strumento probatorio indispensabile, ma il suo utilizzo è subordinato a un vaglio giudiziale estremamente rigoroso e strutturato. I riscontri esterni non devono necessariamente provare da soli il fatto, ma devono avere carattere individualizzante, cioè collegare in modo inequivocabile la condotta al soggetto accusato. La decisione chiarisce, inoltre, che la valutazione del giudice di merito, se logicamente motivata e aderente ai principi di diritto, non è sindacabile in sede di legittimità, che non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul fatto.

Come deve essere valutata la dichiarazione di un collaboratore di giustizia (chiamata in correità)?
La valutazione deve seguire un percorso logico in tre fasi: 1) analisi della credibilità soggettiva del dichiarante; 2) verifica dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (precisione, coerenza, costanza); 3) ricerca di riscontri esterni individualizzanti che confermino le sue accuse.

Per affermare la partecipazione a un’associazione mafiosa è necessaria la prova dell’affiliazione formale?
No. La sentenza ribadisce che, anche in assenza della prova di un’affiliazione formale, la partecipazione può essere dimostrata attraverso il compimento di una o più attività significative che attestino una stabile “messa a disposizione” dell’agente a favore del sodalizio criminale.

Che caratteristiche devono avere i riscontri esterni per confermare una chiamata in correità?
I riscontri esterni devono provenire da una fonte diversa dal dichiarante per evitare una verifica tautologica. Non devono necessariamente costituire una prova autonoma e completa del fatto, ma devono essere idonei a confermare l’attendibilità della dichiarazione accusatoria, essere precisi e avere portata individualizzante, cioè collegare direttamente i fatti al soggetto accusato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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