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Chiamata in correità: la prova dai collaboratori

Un uomo, accusato di essere tra i mandanti di un omicidio di vendetta, presenta ricorso in Cassazione lamentando contraddizioni nelle dichiarazioni di più collaboratori di giustizia. La Corte Suprema dichiara il ricorso inammissibile, ribadendo il principio della chiamata in correità. Viene chiarito che lievi discrasie sono irrilevanti se il nucleo narrativo essenziale delle testimonianze è convergente e si corrobora a vicenda. Il ricorso è stato giudicato un tentativo inammissibile di riesame dei fatti.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in correità: come valutarla secondo la Cassazione

La valutazione della chiamata in correità rappresenta uno dei temi più delicati nel processo penale, specialmente nei casi di criminalità organizzata. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 47250/2024) offre importanti chiarimenti su come le dichiarazioni di più collaboratori di giustizia debbano essere ponderate per costituire un grave quadro indiziario. Il caso riguardava un ricorso contro un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un omicidio, basata proprio sulle testimonianze convergenti di tre collaboratori.

I Fatti di Causa

Al centro della vicenda vi è l’omicidio di un uomo, avvenuto nel 2012, come atto di vendetta per l’assassinio del padre del ricorrente. Secondo l’accusa, l’indagato sarebbe stato uno dei mandanti e organizzatori del delitto, commesso anche per contrastare l’ascesa di clan rivali. L’agguato fu eseguito da due sicari che, dopo il fatto, si diedero alla fuga e distrussero armi e veicolo.

La ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili, sia materiali che morali, è stata possibile grazie alle dichiarazioni di uno degli esecutori materiali, divenuto collaboratore di giustizia. A queste si sono aggiunte le testimonianze di altri due collaboratori. In particolare, al ricorrente veniva attribuito il ruolo di aver fornito le armi e il ciclomotore utilizzati per l’omicidio.

Il Ricorso e la tesi difensiva

La difesa ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo l’errata applicazione della legge e il vizio di motivazione del provvedimento cautelare. Secondo il ricorrente, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia erano piene di contraddizioni e discrasie, tali da minarne l’attendibilità. Nello specifico, si evidenziavano presunte incongruenze riguardo:

* La presenza dell’indagato a una riunione decisiva per l’omicidio.
* La fonte delle informazioni riferite da uno dei collaboratori.
* La consapevolezza o meno dell’indagato sulla destinazione finale delle armi che stava trasportando.

In sintesi, la difesa mirava a frammentare il quadro probatorio, evidenziando le singole discrepanze per sostenere la mancanza di convergenza del molteplice, un requisito fondamentale per la valutazione della chiamata in correità.

La Chiamata in Correità e la Decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le argomentazioni della difesa basate su un travisamento delle dichiarazioni e su un tentativo improprio di ottenere un nuovo giudizio di merito.

I giudici hanno chiarito che le presunte contraddizioni erano in realtà inesistenti o irrilevanti. Ad esempio, la riunione a cui il ricorrente non avrebbe partecipato era quella esecutiva, non quella deliberativa, e il suo coinvolgimento nelle fasi organizzative era comunque emerso chiaramente. Allo stesso modo, le altre presunte discrasie sono state smontate punto per punto, dimostrando una lettura parziale e decontestualizzata delle testimonianze da parte della difesa.

Le Motivazioni

La sentenza ribadisce un principio consolidato in giurisprudenza: le dichiarazioni accusatorie rese da più collaboratori di giustizia possono riscontrarsi reciprocamente, a patto che la loro valutazione sia unitaria e complessiva. La concordanza deve essere verificata sul “nucleo essenziale del narrato”. Eventuali divergenze su elementi circostanziali o di contorno sono irrilevanti, a meno che non siano così gravi da indicare una generale inattendibilità dei dichiaranti.

Il ricorso per cassazione per vizio di motivazione non può trasformarsi in una terza istanza di giudizio sui fatti. Il ruolo della Corte è verificare la logicità e la coerenza giuridica delle ragioni addotte dal giudice di merito, non sostituire la propria valutazione a quella già effettuata. Nel caso di specie, il Tribunale del riesame aveva fornito una motivazione congrua e non manifestamente illogica, evidenziando come le dichiarazioni dei tre collaboratori, lette nel loro insieme, delineassero chiaramente il coinvolgimento del ricorrente nell’omicidio, sia nella fase organizzativa che come fornitore materiale delle armi.

Conclusioni

La pronuncia conferma che una strategia difensiva basata sulla parcellizzazione delle prove e sulla ricerca di minime discrepanze nelle dichiarazioni dei collaboratori ha scarse possibilità di successo di fronte alla Cassazione, se il nucleo centrale delle testimonianze è solido e convergente. La Corte sottolinea l’importanza di una valutazione globale e non atomistica della prova dichiarativa, riaffermando che il giudizio di legittimità si concentra sulla correttezza del ragionamento giuridico del giudice di merito, non sulla ricostruzione dei fatti. La decisione, pertanto, consolida i criteri per l’utilizzo della chiamata in correità come strumento probatorio fondamentale nel contrasto alla criminalità.

Quando le dichiarazioni di più collaboratori di giustizia possono essere usate come prova contro un imputato?
Secondo la sentenza, tali dichiarazioni possono costituire prova quando si riscontrano a vicenda, cioè quando sono concordanti nel loro nucleo essenziale. Lievi divergenze su dettagli circostanziali non ne compromettono la validità, a condizione che ogni dichiarazione sia valutata anche per la sua intrinseca attendibilità.

Qual è il ruolo della Corte di Cassazione nella valutazione delle prove fornite dai collaboratori?
La Corte di Cassazione non riesamina nel merito le prove o l’attendibilità dei dichiaranti. Il suo compito è un “giudizio di legittimità”, ovvero verificare che il giudice dei gradi precedenti abbia applicato correttamente la legge e abbia motivato la sua decisione in modo logico e coerente, senza vizi palesi.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile in questo caso?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le censure sollevate erano basate su un’interpretazione parziale e travisata delle dichiarazioni dei collaboratori, evidenziando contraddizioni che in realtà non sussistevano. Inoltre, il ricorso si configurava come un tentativo di ottenere una nuova valutazione dei fatti, attività che esula dalle competenze della Corte di Cassazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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