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Chiamata in correità: la prova che non basta

La Corte di Cassazione ha annullato una condanna per spaccio di stupefacenti basata quasi esclusivamente sulle dichiarazioni di un coimputato (la cosiddetta chiamata in correità). La Corte ha stabilito che il ritrovamento di droga addosso all’imputato in un’altra occasione, a distanza di tempo, non costituisce un riscontro esterno sufficiente a confermare l’attendibilità dell’accusatore. Secondo i giudici, i riscontri devono avere un collegamento logico e specifico con i fatti contestati e non possono basarsi sulla mera propensione a delinquere dell’imputato.

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Pubblicato il 13 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in Correità: Quando la Parola dell’Accusatore Non Basta

Nel processo penale, la chiamata in correità, ovvero l’accusa mossa da un imputato verso un presunto complice, rappresenta una prova delicata e complessa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i paletti rigorosi per il suo utilizzo, annullando una condanna per spaccio di droga che si fondava su basi ritenute troppo fragili. Vediamo nel dettaglio cosa è successo e quali principi ha affermato la Suprema Corte.

I Fatti del Caso

Un uomo veniva condannato in primo e secondo grado per cessione di sostanze stupefacenti. La prova principale a suo carico era costituita dalle dichiarazioni di un altro soggetto, arrestato in flagranza di reato mentre deteneva la droga. Quest’ultimo aveva indicato nell’imputato il suo fornitore abituale. A sostegno di questa accusa, i giudici di merito avevano valorizzato un’unica circostanza esterna: il fatto che l’imputato, a distanza di alcune settimane, fosse stato trovato a sua volta in possesso di stupefacenti. Secondo la Corte d’Appello, questo elemento era sufficiente a confermare l’attendibilità della chiamata in correità.

La Decisione della Corte di Cassazione e il Valore della Chiamata in Correità

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della difesa, annullando la sentenza di condanna e rinviando il caso a un nuovo esame. Il cuore della decisione ruota attorno all’interpretazione dell’articolo 192, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce che le dichiarazioni di un coimputato o di un imputato in un procedimento connesso possono essere usate come prova solo se supportate da “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.

I giudici supremi hanno chiarito che questi “altri elementi” non possono essere generici o aspecifici. Devono, al contrario, possedere un collegamento logico e diretto con il fatto specifico oggetto di accusa (il cosiddetto thema probandum).

Le Motivazioni

La Corte ha ritenuto che il successivo arresto dell’imputato per detenzione di droga non costituisse un valido riscontro alla chiamata in correità. Le ragioni sono principalmente due:

1. Distanza Temporale: L’episodio era avvenuto a distanza di settimane dai fatti contestati, un lasso di tempo che non permette di stabilire un collegamento immediato e certo tra le due vicende.
2. Aspecificità del Riscontro: Il fatto di essere stato trovato in possesso di droga dimostra, al più, una generica propensione dell’imputato a commettere reati di quel tipo, ma non prova in alcun modo che egli abbia ceduto lo stupefacente al suo accusatore nelle specifiche circostanze contestate. Accettare un simile riscontro significherebbe introdurre nel processo una sorta di “diritto penale d’autore”, in cui si viene condannati non per il fatto commesso, ma per il “tipo” di persona che si è o per i precedenti penali.

La Cassazione ha sottolineato che gli elementi di riscontro devono avere un’efficienza autonoma rispetto ai fatti di causa, ma al contempo devono consentire un “inequivocabile collegamento logico con i fatti del processo”. Un precedente penale o un reato analogo, commesso in un altro contesto, non possiede questa caratteristica.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio di garanzia fondamentale nel nostro ordinamento: una persona non può essere condannata sulla base della sola parola di un coimputato, a meno che questa non sia corroborata da prove esterne, oggettive e specificamente collegate al reato per cui si procede. Il passato criminale di un individuo non può diventare l’unico pilastro su cui si regge un’accusa. La prova deve riguardare il fatto, non l’autore. La decisione impone ai giudici di merito una verifica molto più rigorosa e puntuale, impedendo che sospetti basati sulla “pericolosità” di un soggetto si trasformino in una condanna priva di un solido fondamento probatorio.

Cos’è la chiamata in correità nel processo penale?
È la dichiarazione resa da un imputato che accusa un’altra persona di aver partecipato con lui alla commissione di un reato.

Una persona può essere condannata solo sulla base della testimonianza di un complice?
No. Secondo l’art. 192, comma 3, del codice di procedura penale, la chiamata in correità non è sufficiente da sola. Deve essere supportata da altri elementi di prova esterni che ne confermino l’attendibilità.

Il fatto che un imputato abbia commesso reati simili in passato può essere usato come unica prova di riscontro?
No. La sentenza chiarisce che il fatto che l’imputato abbia commesso, in un’altra occasione, un reato analogo non è un elemento di riscontro sufficiente. I riscontri devono avere un collegamento logico e specifico con i fatti contestati nel processo in corso, non possono basarsi sulla sola propensione a delinquere dell’imputato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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