Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 46734 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 46734 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 25/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME nato nella Repubblica Dominicana il 12 febbraio 1997;
avverso la sentenza n. 1492/23 della Corte di appello di Venezia del 13 aprile 2023;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio, o in alternativa, con rinvio, della sentenza impugnata;
sentito, altresì, per il ricorrente l’avv. NOME COGNOME del foro di Vicenza, il quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Venezia, con sentenza pronunziata in data 13 aprile 2023, ha solo parzialmente accolto il gravame presentato dalla difesa di NOME COGNOME COGNOME NOME avverso la precedente pronunzia del Gup del Tribunale di Vicenza, risalente al 29 novembre 2019, con la quale, in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, fu dichiarata la penale responsabilità del predetto in ordine ai reati a lui contestati, concernenti l violazione della normativa in materia di stupefacenti, ritenuti unificati sotto i vincolo della continuazione, e lo aveva, pertanto, condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per la scelta del rito, alla pena di anni 3 di reclusione ed euri 14.000,00 di multa.
Nel riformare la sentenza di primo grado la Corte territoriale, riqualificati i fatti contestati entro i confini delle ipotesi di lieve entità ai sensi dell’ar comma 5, del dPR n. 309 del 1990, e ritenuta la sussistenza del vincolo della continuazione con i fatti già oggetto di sentenza n. 1877 del 2018 del Tribunale di Vicenza, della quale non è indicata né la data di emissione né quella di definitività, ha rideterminato la pena da infliggere al prevenuto, ritenuto più grave fra tutti i reati unificati dal vincolo della continuazion quello contestato nel presente procedimento sub B), la complessiva pena di anni 1 e mesi 9 di reclusione ed euri 1.800,00 di multa, da ridursi ad anni 1 e mesi 2 di reclusione ed euri 1.200,00 di multa per effetto della scelta del rito.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario l’imputato, articolando 4 motivi di impugnazione.
Il primo motivo di impugnazione, riguardante la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione atteso che la sentenza di condanna è stata integralmente basata, in assenza di elementi di riscontro, sulle dichiarazioni rese da tale COGNOME NOME – si tratta del soggetto che si è reso acquirente della sostanza stupefacente che gli sarebbe stata venduta dal ricorrente e che è imputato in un procedimento connesso – la cui affidabilità, ad avviso del ricorrente, è del tutto incerta; aggiunge il ricorrente come non possa considerarsi elemento di riscontro delle citate dichiarazioni eteroaccusatorie, il fatto che sia stata rinvenuta, in altre circostanze di tempo rispetto a quell esaminate nel presente procedimento, della sostanza stupefacente all’interno della vettura in uso allo stesso ricorrente .
Il secondo motivo di doglianza attiene alla nullità del capo di imputazione, in particolare ci si riferisce al contenuto della contestazione elevata a carico del COGNOME COGNOME sub B) di quello, in quanto in esso non è indicata né la quantità della sostanza stupefacente che sarebbe stata ceduta né i luoghi, diversi dal primo, in cui la cessione si sarebbe verificata.
Il terzo motivo attiene alla violazione di legge sottostante alla avvenuta utilizzazione delle dichiarazioni accusatorie del COGNOME, che, sebbene siano state indicate come da questo spontaneamente esternate, risultano essere, invece, frutto delle sollecitazioni operate su di lui dagli operanti della polizia giudiziaria.
Infine, con il quarto motivo è segnalata la nullità della sentenza impugnata per non essere stato formulato dalla Corte di appello l’invito al prevenuto a chiedere la applicazione di una sanzione alternativa ex art. 545bis cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto è fondato e, pertanto, nei sensi di cui in motivazione, la sentenza impugnata deve essere annullata.
Fondato è, infatti, già il primo motivo di ricorso; con esso il ricorrente si è lamentato, con riferimento al vizio di violazione di legge ed a quello di motivazione, del fatto che la sua responsabilità in relazione ai reati di cessione di sostanze stupefacenti a lui contestati, sia stata ritenuta adeguatamente provata sulla base dell’esclusiva elemento dimostrativo offerto, in assenza di altri dati di riscontro, da quanto riferito da tale COGNOME NOME, cioè dal soggetto cui il Difo COGNOME avrebbe ceduto lo stupefacente e che è stato, a sua volta, arrestato in data 7 novembre 2018 (cioè nella medesima data in cui sarebbe stato commesso uno, l’ultimo, dei reati attribuiti al Difo Calcano), per la detenzione a fine di successivo spaccio della sostanza stupefacente che gli sarebbe stata ceduta dall’odierno ricorrente.
La tematica in esame è, pertanto, quella connessa alla valenza e efficacia probatoria delle dichiarazioni accusatorie rese da soggetto coimputato ovvero imputato in altro procedimento connesso a quello di cui si tratta.
Come è noto, infatti, l’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. prescrive che le dichiarazioni rese da soggetto che sia imputato in un procedimento connesso a quello in esame a norma dell’art. 12 cod. proc. pen. “sono
valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.
Ritiene la Corte che non vi sia dubbio sul fatto che il COGNOME, arrestato nella flagranza del reato di detenzione di sostanza stupefacente che gli sarebbe stata ceduta dal NOME COGNOME, sia (stato) imputato in procedimento connesso a quello a carico del sunnominato NOME COGNOME; ciò in quanto i due reati di cessione e di acquisto finalizzato alla successiva cessione sono stati commessi nella contestualità in cui si è realizzata l’operazione sinallagmatica intercorsa fra i due.
Ciò premesso si rileva che l’unica circostanza che nella sentenza impugnata è stata individuata quale elemento idoneo a rassicurare sulla attendibilità estrinseca delle accuse mosse dal COGNOME a carico dell’odierno ricorrente (accuse che, a loro volta, costituiscono gli unici elementi obbiettivi a carico del prevenuto quanto ai reati di cui alla imputazione ora in questione) è data dal fatto che, a distanza di poche settimane dai fatti per cui è ora processo, il COGNOME (che è soggetto già più volte gravato da condanne per reati connessi alla detenzione ed alla cessione delle sostanze stupefacenti) è stato trovato in possesso di sostanza stupefacente e per tale motivo sottoposto a procedimento penale con il rito direttissimo.
Ritiene, a questo punto, il Collegio che un tale elemento, sia per la sua distanza temporale, non trascurabile (si parla, infatti, ancorché siano “poche”, di settimane passate fra l’un fatto e l’altro, cioè di un lasso di tempo tale da far ragionevolmente pensare che non vi sia un immediato collegamento con il compendio di stupefacente nel cui possesso è stato rinvenuto il COGNOME e quello che, secondo le dichiarazioni del COGNOME, quello gli avrebbe ceduto, peraltro nell’arco di mesi, essendo, infatti, l’imputazione sub A della contestazione elevata a carico del ricorrente riferita al periodo di tempo che va da agosto 2018 al successivo mese di novembre), rispetto al momento in cui i fatti si sono verificati, sia per la sua intrinseca aspecificità rispetto alla puntuale imputazione ora contestata al prevenuto (non è, infatti, stato segnalato alcun elemento che possa collegare lo stupefacente nella cui detenzione il COGNOME è stato sorpreso con una sua eventuale destinazione alla consegna al COGNOME o a persona a lui collegata), non sia tale da giustificare la valorizzazione ai fini condannatori delle sole dichiarazioni eteroaccusatorie del COGNOME.
Come questa Corte ha rilevato, il giudice, ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, deve in primo luogo verificare la
credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto all’accusa dei coautori; in secondo luogo, deve verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l’intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l’altro, a loro spontaneità ed autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificar l’esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità (Corte di cassazione, Sezione II penale, 17 maggio 2013, n. 21171, rv 255553).
Nel caso di specie la Corte di appello di Venezia, sebbene investita da un motivo di gravame avente quale specifico oggetto la erroneità della valutazione ai fini decisori delle sole dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal COGNOME, ha omesso di operare le opportune verifiche, essendosi essa limitata a dare atto della circostanza che il COGNOME – arrestato nella flagrante detenzione di sostanza stupefacente della quale ha ammesso la pertinenza alla sua persona, conducendo, anzi, gli operanti al rinvenimento di altra sostanza custodita presso la sua abitazione – ha indicato il Difo COGNOME come suo abituale fornitore, senza riferire alcun elemento specializzante o personalizzante, o quanto meno senza che nessun elemento di tale tipo sia riportato nella sentenza impugnata, che abbia arricchito, rendendola circostanziata, la predetta “chiamata in reità”.
Ciononostante, GLYPH tali GLYPH dichiarazioni GLYPH eteroaccusatorie GLYPH sono GLYPH state decisivamente valorizzate dalla Corte distrettuale, avendo questa rilevato l’avvenuto riconoscimento da parte del Busato delle proprie responsabilità e la circostanza che il propalante non avrebbe avuto alcun motivo per accusare falsamente l’odierno ricorrente, il quale, come detto, a distanza di alcune settimane è stato, a sua volta, sorpreso nella detenzione di altra sostanza stupefacente.
Le aporie motivazionali della Corte di Venezia emergono, a giudizio di questo Collegio, ove si rifletta sulla circostanza che l’avvenuta ammissione della proprie responsabilità da parte del COGNOME ha una scarsa valenza sintomatica, considerato che lo stesso è stato colto nella piena flagranza del reato che egli ha confessato, di tal che egli non aveva altra razionale scelta se non quella di ammettere l’addebito, mentre, per ciò che concerne le indicazioni atte a consentire il rinvenimento nella sua abitazione di altra sostanza stupefacente è agevole ritenere che, una volta riscontrata la
flagrante detenzione da parte di quello dello stupefacente, ciò avrebbe indubitabilmente condotto allo svolgimento di attività investigative, nella specie perquisizioni, negli ambiti spaziali di pertinenza dell’arrestato e, pertanto, è logico ritenere al ritrovamento dello stupefacente (in assenza di rilievi in ordine ad un suo particolarmente insidioso occultamento) le forze dell’ordine sarebbero pervenute anche in assenza delle indicazioni del Busato; queste, pertanto, anche sotto il profilo da ultimo descritto, non appaiono sintomatiche di una qualche sincera volontà collaborativa del predetto.
Lo scrutinio sulla intrinseca attendibilità delle dichiarazioni del COGNOME, fondato su dati quanto meno equivoci, è stato, per le ragioni esposte, più formale che reale.
Così come insoddisfacente è il criterio adottato ai fine della rilevazione, a riscontro della attendibilità del propalante, degli “altri elementi di prova” richiesti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Ora, sebbene sia condivisa la autorevole opinione secondo la quale gli “altri elementi di prova” che, a norma dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., confermano l’attendibilità della dichiarazione del correo o dell’imputato in procedimento connesso non devono valere a provare il fatto-reato e la responsabilità dell’imputato, perché, in caso contrario, la suddetta disposizione sarebbe del tutto pleonastica, posto che la prova della responsabilità dell’imputato sarebbe già stata data proprio da tali “altri elementi di prova” e non dalle dichiarazioni dei soggetti di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., e dovendosi, invece, ritenere che la loro funzione processuale sia semplicemente quella di confermare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, il che comporta che tali elementi sono in posizione subordinata ed accessoria rispetto alla prova derivante dalla chiamata in correità (Corte di cassazione, Sezione II penale, 20 febbraio 2013, n. 8125, rv 255244), deve tuttavia affermarsi che tali elementi non possono essere forniti da circostanza del tutto scisse ed autonome rispetto allo specifico thema probandum e cioè, per esaminare il caso di specie, esclusivamente dal fatto che, in un diverso ed indipendente contesto, il soggetto abbia delinquito in forme analoghe a quelle che gli vengono attribuite nel procedimento in cui sono prese in considerazione le dichiarazioni del propalante correo o imputato in procedimento connesso.
Diversamente argomentare varrebbe ad introdurre nel nostro ordinamento una qualche forma di soggettivismo criminologico, evocante le dottrine sul “tipo d’autore”, in forze del quale alla dimostrazione di un fatto
materiale costituente reato concorrerebbe, con un inaccettabile determinismo, non già un corredo probatorio inerente a quel fatto ma la circostanza che il presunto autore di esso ne avrebbe commesso un altro, non connesso né causalmente né temporalmente ma solo soggettivamente, con il precedente.
Come è stato, infatti, in passato affermato da questa Corte, gli elementi di prova necessari ai fini della elevazione delle dichiarazioni del correo o dell’imputato in procedimento connesso al rango di prova attendibile debbono essere tali da “consentire un inequivocabile collegamento logico (di tali elementi) con i fatti del processo” (Corte di cassazione, Sezione I penale, 12 maggio 1995, n. 5466, rv 201649), efficienza che, proprio per la sua autonomia rispetto ai fatti di causa, non è possibile attribuire alla mera circostanza che, in tutt’altra occasione, l’imputato abbia commesso un, sia pur analogo per indole, altro reato.
La sentenza impugnata, stante la ritenuta fondatezza del primo motivo di impugnazione, tale da assorbire l’esame dei restanti motivi, che rimangono pertanto impregiudicati, deve, pertanto, essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia che, in applicazione dei principi dianzi illustrati, verificherà se sussistono gli elementi di prova che, ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., consentono di fondare unicamente sulle dichiarazioni di COGNOME NOME il giudizio sulla penale responsabilità del Difo COGNOME NOME.
PQM
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2024
Il Consigliere estensore
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Il Presidente