Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 4250 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 4250 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME, nato il DATA_NASCITA a Catania avverso la sentenza in data06/02/2023 della Corte di appello cli Trieste
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udita la requisitoria del Pubblico ministero in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso e in subordine per l’annullamento senza rinvio per il capo A2 per prescrizione con rinvio per la determinazione della pena;
uditi i difensori AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso, insistendo in subordine per a declaratoria di prescrizione.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 6/2/2023 la Corte di appello di Trieste ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Udine in data 13/4/2021 nei
confronti di NOME COGNOME, brigadiere dei RAGIONE_SOCIALE in servizio presso il RAGIONE_SOCIALE.O.R.M. di RAGIONE_SOCIALE: in particolare la Corte ha prosciolto l’imputato, per intervenuta prescrizione, dall’imputazione di peculato, relativamente alle ipotesi di cui ai capi Al) e A2), confermando la condanna in relazione al delitto di cui all’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, avente ad oggetto la cessione di 100 grammi di cocaina, di cui al capo A2), nonché in relazione al delitto di peculato, relativo all’impossessamento di sostanza stupefacente in sequestro del tipo hashish, di cui ai capi A4) e D), rideterminando la pena.
La Corte ha ritenuto corretto il giudizio di attendibilità formulato dal Tribunale con riguardo alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME e da NOME COGNOME, considerate quali chiamate in correità idonee a riscontrarsi vicendevolmente e a suffragare la penale responsabilità dell’imputato.
2. Ha proposto ricorso NOME tramite il suo difensore.
2.1. Con il primo motivo denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e alla regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
La motivazione era viziata dall’assunto che, non essendo ipotizzabile un complotto calunnioso, avrebbe dovuto attribuirsi valore di piena prova alle dichiarazioni dei correi.
Ma la Corte avrebbe dovuto interrogarsi sull’attendibilità delle fonti e sulla sussistenza di riscontri.
Ciò valeva a maggior ragione nel caso di specie in cui in primo grado le dichiarazioni accusatorie erano state reputate inidonee a provare la sussistenza di molte delle condotte contestate.
Si trattava dunque di valutare se sussistevano dubbi in ordine alla genuinità delle propalazioni, considerando che le stesse non erano state contestuali, in quanto quelle di COGNOME erano state di gran lunga successive a quelle di COGNOME e rese dopo la conoscenza di queste ultime.
In ordine all’interesse era stato preterrnesso che i dichiaranti avevano un interesse specifico, tanto che COGNOME aveva fruito di una sentenza di patteggiamento, pronunciata a distanza di dodici anni dai fatti, e goduto dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 7 d.P.R. 309 del 1990.
Inoltre, erano stati dedotti numerosi profili alla cui stregua le dichiarazioni d COGNOME avrebbero dovuto reputarsi inattendibili e inidonee a costituire riscontro di quelle di COGNOME.
Nel caso in esame era pacifico che non era ravvisabile la costanza, la spontaneità e l’indipendenza delle dichiarazioni, mutate nel tempo, rese dopo
pressioni dei familiari e sollecitazioni degli inquirenti, e mutate dopo la conoscenza delle propalazioni di NOME.
Anziché valutare gli elementi nel loro insieme, la Corte aveva proceduto indebitamente ad una valutazione parcellizzata, tale da porsi in contrasto con il canone di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen.
Peraltro, la Corte aveva formulato valutazioni illogiche, come quella riguardante la conversazione in cui si faceva riferimento alla collaborazione con l’ufficio di Procura o quella inerente al rilievo che le dichiarazioni di COGNOME sarebbero ritorte contro di lui: non era stato infatti considerato che al predetto era stata irrogata a seguito di patteggiamento una pena assai mite di anni quattro di reclusione.
Relativamente alle dichiarazioni di NOME‘NOME, la Corte aveva argomentato che in caso di risentimento verso NOME, il predetto non avrebbe avuto motivo di accusare anche NOME e che al momento dell’arresto di quest’ultimo aveva già parlato dei comportamenti illeciti dei due RAGIONE_SOCIALE e, per contro, che se le accuse non fossero state vere, non avrebbe registrato conversazioni con i predetti, che non sarebbero andate a buon fine.
Ma ciò non valeva a superare il rilievo che le accuse avrebbero potuto essere parzialmente vere e che comunque le conversazioni non avevano avuto esito a carico di NOME.
Era inoltre rilevante la genericità delle dichiarazioni che aveva condotto all’assoluzione per le restanti imputazioni.
Paradossalmente era stata altresì respinta la doglianza in ordine alle gravissime carenze investigative, che erano state illogicamente ricondotte ad elementi precisi, quali la presenza della compagna di COGNOME presso l’Ufficio G.i.p., quando l’unico atto investigativo, costituito dalla ricostruzione dell sostanza stupefacente presso il NORM di RAGIONE_SOCIALE in base agli atti di Polizia giudiziaria smentiva le dichiarazioni di COGNOME e di COGNOME.
2.2. Con il secondo motivo denuncia vizio e mancanza di motivazione in ordine alle argomentazioni di cui alla memoria depositata il 3/2/2023 con riguardo al capo A2).
Posto che secondo l’ipotesi accusatoria la sostanza stupefacente avrebbe dovuto ritenersi provenire da sequestri effettuati nell’ambito dell’attività di polizi giudiziaria, si era dedotto che alla fine del 2008 presso gli uffici del NORM di RAGIONE_SOCIALE non risultavano presenti 100 grammi di cocaina, corrispondenti a quelli che sarebbero stati consegnati a COGNOME.
Ciò risultava dalla verifica compendiata nella nota del 12/8/2011 della RAGIONE_SOCIALE, da cui emergeva che alla fine del 2008 la cocaina presente e non reperita era pari a g. 44,4, dovendosi aggiungere il
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quantitativo di g. 14 semmai imputabile ad un ulteriore procedimento, relativamente al quale la nota aveva fornito indicazioni generiche.
Tali rilievi erano stati esposti in una memoria depositata nel giudizio di appello su cui la Corte aveva omesso di pronunciarsi, nella quale era stata posta in rilievo anche la non credibilità delle dichiarazioni di COGNOME circa la provenienza della cocaina, in ragione della diversa spiegazione dal predetto fornita nella deposizione del 17/11/2020 rispetto a quella fornita durante l’interrogatorio del 2011.
In tal modo avrebbe dovuto ravvisarsi l’insostenibilità dell’ipotesi accusatoria di cui al capo A2) e l’inattendibilità del dichiarante COGNOME.
La Corte aveva omesso di confrontarsi con tali argomenti ritenendo che NOME e COGNOME disponessero di stupefacenti ulteriori rispetto a quelli risultanti dalla nota dell’agosto 2011, ciò che era invece da escludersi alla luce della citata memoria, essendo stato segnalato che la disponibilità proveniva solo dalla mancata esecuzione degli ordini di distruzione ed essendosi esclusa la sottrazione di quantitativi alla verbalizzazione.
Il riferimento della Corte alla natura meramente cartolare della verifica non considerava che la stessa era stata diretta e realizzata attraverso la verifica fisica della materiale presenza presso il NORM di RAGIONE_SOCIALE della sostanza che risultava lì custodita e che inoltre non aveva riguardato solo i 12 procedimenti di cui all’imputazione sub B), ma tutti i procedimenti giudiziari degli ultimi dieci anni, i cui non era stato reperito lo stupefacente risultato sequestrato.
Non potevano dunque esservi i 100 grammi di cocaina di cui NOME e COGNOME si sarebbero appropriati.
2.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge in relazione alla qualificazione del fatto di cui al capo A2), riconducibile all’ipotesi di cui all’art. comma 5, d.P.R. 309 del 1990.
La Corte aveva omesso di procedere all’esatta qualificazione del fatto, alla luce di tutti gli elementi disponibili, tenendo conto che in relazione al quantitativ di 100 grammi avrebbe dovuto ravvisarsi l’ipotesi della lieve entità, non essendosi proceduto a specifico controllo analitico del principio attivo, ciò che si poneva in contrasto con il principio di proporzionalità della pena desumibile dall’art. 49, par. 3 della C.D.F.U.E.
2.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 64, 197, 197-bis cod. proc. pen. con inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME in relazione ai fatti di cui ai capi A2), A4), D).
La posizione soggettiva del dichiarante era stata valutai:a in relazione alla sentenza irrevocabile di patteggiamento intercorsa con riguardo ai fatti di cui al capo A) e con riguardo alla pendenza di procedimento per i fatti di cui al capo D), essendo stato considerato testimone assistito in relazione ai fatti sub A).
Ma in realtà tra i reati sussisteva il vincolo della continuazione, tale da determinare connessione, in presenza della quale avrebbe potuto attribuirsi la qualità di cui all’art. 197-bis cod. proc. pen. solo in caso di pronuncia irrevocabile per tutti i reati.
Il Tribunale aveva affrontato il tema rilevando che la continuazione era stata riconosciuta ex post e non avrebbe dunque potuto costituire profilo dirimente.
Ma non era stato considerato che il vincolo della continuazione era agevolmente desumibile ed era stato riconosciuto nella sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di COGNOME.
Di qui l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di COGNOME, non essendo rilevante che la questione non fosse stata sollevata nelle precedenti fasi di giudizio.
2.5. Con il quinto motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 64, 197, 210 cod. proc. pen. con riferimento alle dichiarazioni di COGNOME con riguardo al capo D).
COGNOME era stato escusso come teste assistito previo riconoscimento della facoltà di non rispondere in relazione al capo D) ai sensi dell’art. 210 comma 4, cod. proc. pen.
Ma COGNOME non aveva ricevuto gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen.
Il Tribunale aveva dato per scontato che tali avvisi fossero stati formulati in fase di indagini ma non era stata presa visione del relativo verbale, onde constatare che il dato corrispondesse al vero, onde poter procedere ai sensi dell’art. 197-bis cod. proc. pen.
Anche in questo caso derivava da ciò l’inutilizzabilità della dichiarazione, non rilevando la mancata formulazione di rilievi nelle precedenti fasi di giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Per ragioni di ordine logico si impone innanzi tutto l’analisi del quarto e del quinto motivo, che risultano infondati e in parte inammissibili.
1.1. Il ricorrente ha prospettato che le dichiarazioni rese da NOME COGNOME avrebbero dovuto reputarsi inutilizzabili, in quanto indebitamente era stata attribuita al predetto la veste di testimone assistito ai sensi dell’art. 197-bis cod. proc. pen., quando in realtà al momento della deposizione il predetto era gravato da procedimento pendente per i fatti di cui al capo D), contestato anche al ricorrente, fatti da ritenersi connessi in ragione del vincolo della continuazione.
1.2. Orbene, tale deduzione non può essere accolta.
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Va infatti rilevato che le disposizioni riguardanti le figure soggettive de dichiaranti devono essere lette sincronicamente, per comprenderne la rispettiva portata.
L’art. 197 cod. proc. pen. costituisce al riguardo la norma cardine del sistema, prevedendo l’incompatibilità alla testimonianza per i coimputati del medesimo reato o per gli imputati in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. (concorso o cooperazione nel reato o evento prodotto con condotte indipendenti), salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile, nonché per gli imputati in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b) cod. proc. pen., salva l’ipotesi di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cod. proc. pen. (cioè preceden dichiarazioni con relativi avvisi) e quella della pronuncia di sentenza irrevocabile.
Corrispondentemente l’art. 197-bis cod. proc. pen. prevede specificamente i casi in cui non opera l’incompatibilità alla testimonianza, ma è invece disciplinata la c.d. testimonianza assistita, con riguardo alle ipotesi, già in nuce desumibili dall’art. 197 cod. proc. pen., di procedimento connesso o collegato, in cui sia intervenuta sentenza irrevocabile, o di procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. o collegato, ove siano state rese dichiarazioni precedute dall’avviso di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cod. proc. pen.
A ben guardare, dunque, l’incompatibilità alla testimonianza non viene in rilievo di per sé nei casi di connessione derivante da continuazione o concorso formale, in quanto la valutazione va correlata al reato contestato all’imputato nel processo in cui devono essere rese le dichiarazioni, cosicché o anche quest’ultimo risponde del reato in continuazione, nel qual caso potrà operare l’ipotesi di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. oppure la circostanza che il dichiarante risponda di reato continuato non assume rilievo se non in quanto sia ravvisabile l’ulteriore ipotesi di connessione ex art. 12, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. ovvero di collegamento probatorio.
Ulteriore riscontro di tale conclusione è desumibile dall’art. 210 cod. proc. pen., che al primo comma prevede l’ipotesi di connessione ex art. 12, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. e al sesto comma prevede quella della connessione ex art. 12, comma 1, lett. c) ovvero del collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., facendo salva in questo caso l’eventualità che il soggetto abbia reso dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato ovvero quella che il soggetto non si avvalga della facoltà di non rispondere e riceva gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen., ipotesi nelle quali sarebbe applicabile la disciplina dettata dall’art. 197-bis cod. proc. pen.
Del tutto inconferente risulta dunque l’assunto difensivo incentrato sul vincolo della continuazione intercorrente tra gli altri reati e quello di cui al capo D
relativamente al quale pendeva ancora procedimento a carico del dichiarante COGNOME.
1.3. Va peraltro rimarcato che l’escussione di costui era avvenuta, secondo quanto specificato nella sentenza di primo grado, facendo leva sulla pronuncia irrevocabile intervenuta nei suoi confronti perd reato di cui al capo A) e prendendo atto dell’ulteriore procedimento per il reato di cui al capo D), con riguardo al quale era stata peraltro riconosciuta al dichiarante la facoltà di non rispondere, della quale COGNOME COGNOME COGNOME era comunque avvalso.
Inoltre, il Tribunale ha rilevato come con riguardo a NOMECOGNOME dovesse ravvisarsi comunque il presupposto di cui all’art. 197-bis cod. proc. pen., in quanto non era dubitabile che in relazione alle precedenti dichiarazioni fossero stati fatti gli avvi di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cod. proc. pen., dovendosi aggiungere che, con riguardo al reato di cui al capo D), non veniva in rilievo un’ipotesi di concorso nel medesimo reato quanto piuttosto di collegamento, a seguito dell’autonomia dei reati correlati rispettivamente alla cessione di sostanze stupefacenti, addebitata al ricorrente in concorso con COGNOME, e di acquisto e presa in consegna di sostanze stupefacenti, configurabile a carico di COGNOME.
1.4. A fronte di ciò, nel quinto motivo di ricorso si conl:esta l’assunto che fossero stati dati a COGNOME COGNOME occasione di precedenti escussioni gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cod. proc. pen., mentre nulla viene contestato in ordine alla concreta esclusione del concorso di persone e alla conseguente ravvisabilità di reati autonomamente configurabili.
Orbene, deve al riguardo sottolinearsi che né nell’immediatezza, cioè in occasione dell’escussione di COGNOME nel giudizio di primo grado né nell’atto di appello erano state formulate eccezioni al riguardo.
La deduzione difensiva, formulata per la prima volta nel ricorso, avrebbe dovuto dunque essere necessariamente corredata da un idoneo supporto probatorio, cioè dalla concreta dimostrazione che in occasione di precedenti escussioni di COGNOME, al predetto non fossero stati dati gli avvisi di cui all’art. 6 comma 3, lett. c), cod. proc. pen.
Deve infatti richiamarsi il principio per cui «nel caso in cui una parte deduca il verificarsi di cause di nullità o inutilizzabilitài collegate ad atti non rinvenibi fascicolo processuale (perché appartenenti ad altro procedimento o anche qualora si proceda con le forme del dibattimento – al fascicolo del pubblico ministero), al AVV_NOTAIO onere di precisa indicazione che incombe su chi solleva l’eccezione si accompagna l’ulteriore onere di formale produzione delle risultanze documentali – positive o negative – addotte a fondamento del vizio processuale» (Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, COGNOME, Rv. 244329).
Per questa parte dunque la censura, non corredata da idonei supporti probatori, risulta genericamente formulata.
Ne discende che non sono configurabili profili di inutilizzabilità delle dichiarazioni di COGNOME.
I primi due motivi di ricorso sono parimenti infondati e in parte inammissibili.
2.1. E’ stato devoluto, innanzi tutto, il terna della valutazione di dichiarazion resTiani e da COGNOME, cioè da soggetti che avevano dovuto rispondere di reati connessi o collegati, relativamente ai quali entrambi avevano riportato sentenze di condanna irrevocabili o, nel caso di COGNOME, ancora pendeva separato procedimento.
Va, invero, rilevato che la prova a carico del ricorrente è stata desunta dalla convergenza delle dichiarazioni accusatorie rese dai predetti, da valutarsi agli effetti dell’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., cioè tenendo conto dell’attendibilità di quanto dichiarato e dei relativi elementi di conferma.
E’ noto al riguardo che deve essere vaglliata sia la credibilità soggettiva del dichiarante in rapporto alla personalità e al passato del dichiarante, ai suoi rapporti con il soggetto chiamato in correità, alla genesi della chiamata, sia l’attendibilità oggettiva del narrato, in relazione ai profili della precisione, coerenza, costanza e spontaneità della dichiarazione, dovendosi inoltre rinvenire i riscontri esterni ed individualizzanti, cioè autonomamente desumibili e riguardanti il soggetto cui si riferisce la chiamata (Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino, 192465).
Sulla base di un più recente e condivisibile arresto giurisprudenziale (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145), nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice, ancora prima di accertare l’esistenza di riscontri esterni, deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante l’attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, ma tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale».
Peraltro la sussistenza dei riscontri può essere desunta anche da una pluralità di chiamate che risultino convergenti «in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione ed avere portata individualizzante, intesa quale riferibilità sia alla persona dell’incolpato che alle imputazioni a lui ascritte, senza che possa pretendersi la piena sovrapponibilità dei loro rispettivi contenuti narrativi dovendosi piuttosto privilegiare l’aspetto sostanziale della concordanza sul nucleo
centrale e significativo della questione fattuale da decidere» (Sez. 6, n. 47108 del 08/10/2019, Bombardino, Rv. 277393).
D’altro canto, in presenza di plurime dichiarazioni deve verificarsi che la convergenza non sia frutto di collusione o di concerto calunnioso e che non sia il risultato di condizionamenti e reciproche influenze, dovendosi escludere che non ricorrano fenomeni di allineamento delle indicazioni più recenti a quelle raccolte per prime (Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo, Rv. 270291).
Sta di fatto che il giudizio finale inerisce al merito, ove sia scandito da passaggi non manifestamente illogici o contraddittori, che tengano conto del significato euristico delle indicazioni rivenienti dagli arresti giurisprudenziali (si rinvia a Se 6, n. 13442 del 08/03/2016, COGNOME, Rv 266924 e a Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, Basile, 258153, per l’affermazione che «è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. quando è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. E), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto).
2.2. Ciò posto, si osserva che il Tribunale ha ampiamente motivato in ordine all’attendibilità dei dichiaranti con riguardo a tutti i profili rilevanti e che la territoriale, tenendo conto delle censure difensive, ha confermato il giudizio formulato dal Tribunale, riconoscendo la completezza dell’analisi e la sua rispondenza ai canoni che devono presiedere a quel giudizio.
Di nessun rilievo risultano le asserite anomalie del procedimento riassumibili nella durata del procedimento a carico del ricorrente e nella mancata specifica ricerca di possibili conferme delle propalazioni accusatorie a suo carico.
I giudici di merito hanno sottolineato colme si tratti di profilo non incidente sulla valutazione delle prove acquisite e come in realtà siano ravvisabili plurime ragioni a giustificazione dei tempi e modi di sviluppo dell procedimento, a cominciare dalle vicende legate alla soppressione del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE e dal fatto che la compagna di COGNOME lavorava presso l’ufficio del giudice delle indagini preliminari del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, circostanza che sconsigliava il ricorso ad operazioni di intercettazione.
Altrettanto ininfluente risulta la deduzione incentrata sul fatto che le dichiarazioni erano state reputate inidonee a suffragare la responsabilità del ricorrente con riguardo a molte delle imputazioni formulate a suo carico: in realtà il Tribunale è giunto a pronuncia liberatoria nei casi in cui non era dato ricostruire con precisione, in ragione della genericità delle dichiarazioni accusatorie, il preciso contesto fattuale e temporale delle condotte.
Si tratta di valutazione che non implicava un giudizio radicalmente negativo sulle chiamate ma esprimeva l’esigenza di una scrupolosa indagine in ordine all’individuazione del nucleo essenziale delle vicende, in taluni casi narrate in modo meno preciso anche in ragione del tempo trascorso e della sovrapposizione dei fatti.
2.3. Ma, a fronte di ciò, è stato ampiamente esaminato dai giudici di merito sia il profilo della credibilità soggettiva sia quello dell’attendibilità dei dichiara in tale prospettiva si è rilevato che non erano ravvisabili in alcun modo intenti calunniosi, tema tutt’altro che estraneo alla verifica necessaria, che, con riguardo a COGNOME, che dirigeva il reparto ed operava costantemente con il ricorrente, non erano configurabili ragioni di astio o di inimicizia, che le pur esistenti ragion di risentimento di COGNOME verso il ricorrente non assumevano rilievo, in quanto le dichiarazioni rese riflettevano la presa di distanza che COGNOME aveva già maturato, parlando delle vicende relative ai suoi rapporti illeciti con i due militari sia co genitori sia con il Carabiniere COGNOME, che aveva poi confermato il racconto di COGNOME.
Non risultano illogici i rilievi dei giudici di merito in ordine al fatto che NOME avesse deciso di intercettare i colloqui con i due militari, anche se riscontri erano stati acquisiti in tale prospettiva nei confronti di COGNOME, fermo restando che ove le dichiarazioni fossero state ispirate da astio verso NOME non vi sarebbe stata ragione di rivolgere accuse anche nei confronti di COGNOME: non vale in senso contrario l’assunto difensivo per cui le dichiarazioni avrebbero potuto essere parzialmente vere, posto che il quadro fattuale narrato implicava il coinvolgimento dei due militari e, come sottolineato dalla Corte, il COGNOME non solo era risultato a conoscenza del meccanismo della sottrazione dello stupefacente sequestrato, ma in un colloquio con COGNOME aveva mostrato di voler parlare anche con “NOME“, circostanza incomprensibile ove il predetto non fosse stato coinvolto negli illeciti, fermo restando che non sarebbe stato ipotizzabile che COGNOME agisse da solo, visto che NOME era informatore di NOME.
Ed ancora si è rimarcato non illogicamente che l’interesse a mentire non avrebbe potuto desumersi dai vantaggi conseguibili e alla resa dei conti conseguiti sul piano del trattamento sanzionatorio, dal momento che l’attendibilità di dichiarazioni accusatorie non implica una valutazione sul piano etico e non è incompatibile con il perseguimento di finalità utilitaristiche, tanto meno quando in partenza le dichiarazioni valgano ad allargare la sfera delle condotte illecite ipotizzabili anche a carico del dichiarante: si tratta di giudizio rispetto al quale no vale il rilievo difensivo incentrato sull’estrema mitezza della pena irrogata a COGNOME.
Deve comunque richiamarsi sul punto il principio per cui «in tema di criteri di valutazione della chiamata in correità, va distinto il generico interesse a “collaborare”, che può animare utilitaristicamente ogni collaborante in ragione della possibilità di fruire dei benefici di legge, e non ne inficia la credibilit mancanza di quantomeno serie allegazioni contrarie, dall’interesse concreto a rendere dichiarazioni eteroaccusatorie inquinate – per malanimo, astio, rancore, intese collusive o altro – tale da rendere legittimo il sospetto concreto di inattendibilità delle propalazioni accusatorie, ciò che deve indurre il giudice a maggiore cautela e ad applicare con criterio di rigore gli ulteriori parametri valutativi offerti dall’esperienza e dalla logica» (Sez. 6, n. 48320 del 12/04/2022, Manna, Rv. 284074).
2.4. Quanto poi alle dichiarazioni di COGNOME, che sono valse a corroborare l’originaria chiamata in correità di COGNOME, sono stati difensivamente dedotti i profili di maggiore criticità: è stato infatti sottolineato che il COGNOME aveva res dichiarazioni a carico di COGNOME solo in un secondo momento, dopo che originariamente si era limitato ad ammettere le proprie responsabilità per fatti per i quali vi era già evidenza probatoria, escludendo in quella fase il coinvolgimento del ricorrente; è stato inoltre segnalato che le diverse dichiarazioni erano state precedute da pressioni dei familiari anche sulla scorta di indicazioni in ordine ai vantaggi che sarebbero potuti derivare dalla collaborazione, ed erano intervenute dopo che COGNOME aveva potuto avere conoscenza, a seguito dell’applicazione di misura cautelare, delle dichiarazioni rese da COGNOME.
Ma su tali punti sia il Tribunale sia la Corte, che ha fatto propri i rilievi formul nella sentenza di primo grado, hanno idoneamente motivato, rilevando che le pressioni dei familiari non erano volte ad indurre NOME a formulare gratuite accuse ma a narrare i fatti a sua conoscenza e che in concreto ciò era avvenuto, tanto che il dichiarante aveva narrato particolari autonomi ed aveva escluso la responsabilità di NOME NOME alcuni casi, come con riguardo alla cessione della cocaina a NOME, di cui al capo D).
Tali elementi valevano a comprovare da un lato la sostanziale indipendenza e credibilità della fonte e a suffragare l’attendibilità del narrato, ulteriormen comprovata secondo la Corte dalla conversazione intercorsa tra NOME e la compagna, nel corso della quale il predetto, convintosi a collaborare, aveva finito per affermare «gli dico tutto quello che vuole, quello che non vuole che so», espressione non illogicamente intesa come manifestazione dell’intendimento di dichiarare tutto ciò che di cui COGNOME era effettivamente a conoscenza e non dell’intenzione di compiacere l’organo inquirente a tutti i costi.
3. Relativamente al secondo motivo, incentrato sulla valenza della memoria difensiva e dell’informativa n. 33/27 del 12/8/2011 della RAGIONE_SOCIALE, da cui avrebbe dovuto desumersi l’indisponibilità nel 2008 da parte del ricorrente e di COGNOME di sostanza stupefacente del tipo cocaina, nella quantità di 100 grammi che sarebbe stata consegnata a COGNOME (capo A2), deve rilevarsi l’infondatezza degli assunti, a fronte del fatto che, secondo quanto segnalato dalla Corte, l’informativa non era idonea a fornire una precisa indicazione di tutta la droga di cui i due complici si erano appropriati: deve del resto rimarcarsi come dallo stesso tenore dell’informativa invocata e allegata al ricorso risulti che la sollecitata ricerca, condotta in relazione allo stato del pratiche e atti dell’ultimo decennio riguardanti indagini sugli stupefacenti, aveva tratto spunto da un verbale di ricognizione, perquisizione e sequestro della Polizia di Stato del 3 agosto e dalle risultanze rivenienti dalla risistemazione del carteggio del RAGIONE_SOCIALE; era stato dato atto che vi erano situazioni in cui sostanza stupefacente in sequestro non risultava depositata in cancelleria o distrutta e che non avrebbe potuto escludersi che degli atti non si trovassero al loro posto «in questi uffici».
Alla resa dei conti il giudizio della Corte non avrebbe potul:o dirsi smentito da quelle risultanze, tanto più in relazione a quanto precisato citrca la necessità di tener conto anche di un arresto eseguito ad Udine, in occasione del quale era stato effettuato il sequestro di sostanza stupefacente detenuta dentro un termos per il caffè.
La circostanza che tale circostanza fosse stata ricordata da COGNOME a distanza di anni e non nell’immediatezza e che secondo le prime indicazioni il predetto avesse fatto riferimento, quale modalità appropriativa, a sostanza stupefacente di cui veniva omessa l’effettiva distruzione, non vale a dimostrare la radicale inaffidabilità del narrato, in relazione al fatto che si tratta di episodio di modesta consistenza (la consegna a COGNOME di circa 100 grammi di cocaina), specificamente confermato dal COGNOME anche a suo carica e che comunque l’informativa invocata dalla difesa non era di per sé idonea ad escludere disponibilità di droga non idoneamente documentata, in origine o in itinere.
La doglianza formulata non risulta dunque decisiva e tale da disarticolare la ricostruzione della vicenda sulla base delle dichiarazioni sostanzialmente convergenti del COGNOME e del COGNOME.
4. Il terzo motivo è inammissibile.
Il tema della riconducibilità dell’episodio di cessione di 100 grammi di cocaina nell’ambito del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, cl.P.R. 309 del 1990 non aveva formato oggetto di appello, tanto che il ricorrente non ha neanche
contestato l’omessa rappresentazione di un motivo siffatto nella prima parte della sentenza impugnata, contenente il resoconto dei motivi di appello (per la necessità di una specifica contestazione nel ricorso, Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, COGNOME, Rv. 270627): su tali basi deve ritenersi che la questione, implicante un inquadramento fattuale della vicenda alla luce di tutti gli indici disponibili, secondo i parametri indicati dallo stesso art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, COGNOME, Rv. 274076), fosse ormai preclusa in sede di ricorso, dovendosi comunque escludere che il diverso inquadramento potesse reputarsi autoevidente, a fronte dell’allarmante contesto descritto nelle sentenze di merito.
Posto che il ricorso non può nel suo complesso reputarsi inammissibile, deve darsi conto del tempo trascorso ai fini della prescrizione.
In tale ottica, computando il termine massimo di anni dodici e mesi sei e aggiungendo i periodi di sospensione computati in giorni 441, deve ritenersi che sia maturato, a decorrere dal 10 giugno 2009, il termine massimo di prescrizione con riguardo al reato di peculato di cui al capo A4), relativamente al quale la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per tale causa.
Eliminata la pena imputata dai giudici di merito a tale reato a titolo di aumento, la pena deve essere nel complesso rideterminata, secondo le valutazioni già formulate, in anni nove mesi tre di reclusione ed euro 37.500,00 di multa.
Il ricorso deve essere rigettato nel resto.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo A4, perché estinto per prescrizione, Rigetta nel resto il ricorso. Ridetermina la pena in anni nove, mesi tre di reclusione ed euro 37.500 di multa. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 154-ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 07/11/2023