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Chiamata in correità: i riscontri devono essere certi

La Corte di Cassazione analizza un caso di tentato omicidio aggravato dal metodo mafioso, basato sulla dichiarazione di un collaboratore di giustizia (chiamata in correità). La sentenza conferma la condanna per un imputato, per cui esistevano prove di riscontro specifiche e individualizzanti, ma annulla con rinvio quella dell’altro, poiché i riscontri a suo carico erano generici e non sufficienti a collegarlo in modo certo al reato.

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Pubblicato il 16 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in Correità: Quando la Parola di un Pentito non Basta per la Condanna

Nel processo penale, la valutazione della prova è un momento cruciale, specialmente quando le accuse si fondano sulle dichiarazioni di un coimputato. La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 20035 del 2024, offre un’analisi fondamentale sul tema della chiamata in correità, ribadendo un principio cardine: per condannare, non basta l’accusa di un ‘pentito’, ma servono riscontri esterni, solidi e, soprattutto, ‘individualizzanti’.

I Fatti del Processo

Due individui venivano condannati in primo e secondo grado per tentato omicidio aggravato dal metodo mafioso e porto abusivo di armi. L’accusa si basava principalmente sulle dichiarazioni di un ex complice, divenuto collaboratore di giustizia. Questi aveva descritto l’agguato, indicando i due imputati come co-autori del crimine, commesso per agevolare il clan camorristico di appartenenza.
Gli imputati ricorrevano in Cassazione, lamentando l’inadeguatezza delle prove a loro carico. In particolare, contestavano la valutazione di credibilità di un secondo collaboratore, le cui dichiarazioni erano state usate come principale riscontro alle accuse del primo.

La Chiamata in Correità e la Necessità di Riscontri

Il Codice di procedura penale italiano (art. 192, comma 3) stabilisce una regola cautelativa fondamentale: le dichiarazioni di un coimputato o di una persona indagata nello stesso reato possono essere usate come prova solo se corroborate da altri elementi che ne confermino l’attendibilità. Questo per evitare condanne basate unicamente su accuse che potrebbero essere dettate da rancore, interesse personale o tentativi di alleggerire la propria posizione.
La giurisprudenza ha precisato che questi riscontri devono essere:
Esterni: provenienti da una fonte diversa dal dichiarante.
Indipendenti: non influenzati dalla dichiarazione da riscontrare.
Individualizzanti: capaci di collegare in modo specifico il singolo imputato al fatto-reato contestato.

L’Analisi della Cassazione sulla validità della Chiamata in Correità

La Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi dei due imputati separatamente, giungendo a conclusioni opposte, proprio sulla base del principio del riscontro individualizzante.

La Posizione del Primo Ricorrente

Per il primo imputato, la Corte ha rigettato il ricorso. I giudici hanno ritenuto che la chiamata in correità fosse supportata da riscontri sufficientemente individualizzanti. In particolare:
– Le dichiarazioni di un secondo collaboratore, pur con alcune discrepanze, avevano confermato la presenza del ricorrente sul luogo del delitto, riconoscendolo anche in fotografia.
– Le intercettazioni telefoniche, sebbene relative a un altro procedimento, descrivevano il movente e le modalità del tentato omicidio in modo coerente con il racconto del collaboratore.
La Corte ha concluso che, nel loro insieme, questi elementi fornivano una conferma solida e specifica al ruolo del primo imputato.

La Posizione del Secondo Ricorrente

Per il secondo imputato, invece, la Corte ha accolto il ricorso, annullando la sentenza di condanna. Il motivo risiede proprio nella mancanza di un riscontro individualizzante. Le dichiarazioni del secondo collaboratore parlavano della presenza di una terza persona, ma la indicavano con un nome di battesimo diverso da quello del ricorrente e non vi era stata alcuna identificazione fotografica. Nemmeno le intercettazioni menzionavano il suo nome. Di conseguenza, l’unica prova a suo carico restava la chiamata in correità del primo collaboratore, insufficiente da sola a fondare una condanna.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha ribadito che il riscontro non può limitarsi a confermare l’esistenza del fatto storico, ma deve ‘offrire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato’. Per il secondo imputato, le prove a supporto erano generiche: confermavano che l’agguato c’era stato e che probabilmente c’era un terzo uomo, ma non fornivano alcun elemento per affermare con certezza che quel terzo uomo fosse proprio lui. Questa carenza probatoria ha reso la motivazione della condanna insufficiente, violando il principio secondo cui ogni accusa deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Le Conclusioni

Questa sentenza è un importante promemoria dei principi di garanzia del nostro sistema processuale. Sottolinea che, sebbene il contributo dei collaboratori di giustizia sia fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata, le loro dichiarazioni devono essere trattate con estrema cautela. La condanna di un individuo non può basarsi su una semplice accusa, anche se proveniente da un ex complice. È necessario un ‘quid pluris’, un elemento di prova esterno e specifico che colleghi inequivocabilmente l’accusato al reato. In assenza di tale riscontro ‘individualizzante’, il dubbio prevale e l’imputato deve essere assolto, come la giustizia impone.

La dichiarazione di un co-imputato (chiamata in correità) è sufficiente per condannare un’altra persona?
No, secondo l’art. 192 del codice di procedura penale e la costante giurisprudenza, la chiamata in correità non è sufficiente da sola. Deve essere supportata da altri elementi di prova esterni che ne confermino l’attendibilità e la veridicità.

Cosa si intende per ‘riscontro individualizzante’ nel contesto di una chiamata in correità?
Un riscontro individualizzante è un elemento di prova che non si limita a confermare che il reato è avvenuto come descritto dal dichiarante, ma che collega specificamente e direttamente la persona accusata a quel determinato fatto. Deve riguardare la riferibilità del reato all’imputato, non solo l’oggettività del crimine.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato una condanna e ne ha confermata un’altra nello stesso processo?
La Corte ha applicato il principio del riscontro individualizzante in modo rigoroso. Per il primo imputato, esistevano prove specifiche (il riconoscimento da parte di un secondo collaboratore e le intercettazioni) che lo collegavano direttamente al reato. Per il secondo imputato, invece, tali prove specifiche mancavano: gli elementi di riscontro erano generici e non permettevano di identificarlo con certezza come partecipe al crimine, rendendo la sua condanna illegittima.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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