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Chiamata in correità e bancarotta fraudolenta

Due amministratori di fatto sono stati condannati per bancarotta fraudolenta per distrazione, basandosi sulla testimonianza dell’amministratore di diritto. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ribadendo che la chiamata in correità, se supportata da validi riscontri esterni, costituisce piena prova e non un semplice indizio. La sentenza sottolinea l’impossibilità di utilizzare il ricorso in Cassazione per una nuova valutazione dei fatti già accertati nei gradi di merito.

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Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in Correità e Bancarotta: la Parola del Complice è Prova Piena

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4828 del 2024, torna su un tema cruciale del diritto processuale penale: il valore probatorio della chiamata in correità. Il caso in esame riguarda una condanna per bancarotta fraudolenta per distrazione a carico di due amministratori di fatto, la cui responsabilità è stata provata principalmente attraverso le dichiarazioni del coimputato amministratore di diritto. La Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, offre importanti chiarimenti su quando la parola di un complice si trasforma da semplice indizio a prova piena.

I Fatti del Processo

Due soggetti venivano condannati in primo grado e in appello per il reato di bancarotta fraudolenta. Secondo l’accusa, in qualità di amministratori di fatto di una società poi fallita, avrebbero distratto una somma di circa 345.000 euro in favore di un’altra società a loro riconducibile. L’operazione sarebbe avvenuta tramite l’emissione di fatture per operazioni inesistenti tra il 2005 e il 2007. La figura chiave del processo è stata l’amministratore di diritto della società fallita, il quale, anch’egli condannato, ha reso dichiarazioni accusatorie decisive nei confronti dei due ricorrenti, descrivendoli come i veri gestori e beneficiari dell’operazione illecita.

I Motivi del Ricorso e la questione della chiamata in correità

La difesa degli imputati ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su diversi motivi. I principali erano:

1. Violazione di legge e vizio di motivazione: si contestava l’attribuzione della qualifica di amministratori di fatto, sostenendo che le prove, basate quasi esclusivamente sulla chiamata in correità del coimputato, fossero insufficienti.
2. Errata qualificazione della condotta: si negava che l’operazione costituisse una “distrazione”, poiché i fondi erano stati trasferiti a una società collegata che svolgeva attività funzionali agli scopi sociali della fallita.
3. Mancanza dell’elemento soggettivo: si sosteneva l’assenza di dolo, chiedendo una riqualificazione del fatto in bancarotta semplice, ormai prescritta.
4. Trattamento sanzionatorio: si lamentava una disparità di trattamento rispetto al coimputato che aveva reso le dichiarazioni.

Il fulcro della difesa risiedeva nel tentativo di sminuire il valore probatorio delle dichiarazioni del complice, ritenute non supportate da adeguati riscontri esterni.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile in ogni sua parte. I giudici hanno ritenuto che i motivi presentati non fossero altro che una riproposizione delle censure già esaminate e respinte dalla Corte d’Appello, senza un reale confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata. In sostanza, la difesa tentava di ottenere una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità, specialmente in presenza di una “doppia conforme” (decisioni uguali in primo e secondo grado).

Le Motivazioni

La sentenza è particolarmente interessante per le motivazioni con cui la Corte ha respinto le doglianze sulla chiamata in correità. La Cassazione ha ribadito principi consolidati:

* Natura di Prova: La chiamata in correità non è un mero indizio, ma una vera e propria prova. Pertanto, se adeguatamente supportata, è di per sé idonea a fondare un giudizio di colpevolezza.
* Necessità dei Riscontri Esterni: Per essere valida, la dichiarazione del coimputato deve essere valutata unitamente ad “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, come previsto dall’art. 192, comma 3, del codice di procedura penale. Questi riscontri non devono necessariamente costituire una prova autonoma della colpevolezza, ma devono essere elementi certi, di qualsiasi natura (documentale, testimoniale o anche logica), in grado di confermare la credibilità del dichiarante e la veridicità delle sue affermazioni.

Nel caso specifico, i giudici di merito avevano correttamente individuato i riscontri nelle seguenti circostanze:
1. La complessa rete di società, tutte riconducibili ai ricorrenti, che dimostrava il loro interesse diretto nell’operazione.
2. L’emissione di una nota di credito da parte della società beneficiaria per stornare le fatture, a cui però non era mai seguita la restituzione della somma, corroborando la natura fittizia dell’operazione.
3. Le ammissioni stesse dell’amministratore di diritto, il cui ruolo era stato giudicato meramente esecutivo rispetto alle direttive degli amministratori di fatto.

La Corte ha inoltre respinto gli altri motivi, definendo generiche le lamentele sulla pena (correttamente graduata in base ai ruoli e ai precedenti penali) e ricordando che la statuizione sulla provvisionale non è impugnabile in Cassazione, data la sua natura discrezionale e non definitiva.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio fondamentale per la pratica processuale: la chiamata in correità è uno strumento probatorio potente, ma il suo utilizzo richiede un rigoroso vaglio di attendibilità e la presenza di riscontri esterni. La decisione chiarisce che il ricorso per Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito dei fatti. Per gli operatori del diritto, ciò significa che i motivi di ricorso devono essere specifici e focalizzati su vizi di legittimità della sentenza, non sulla speranza di una diversa interpretazione delle prove. Per gli imputati, la sentenza è un monito sulla difficoltà di scardinare un quadro probatorio basato sulle dichiarazioni di un complice, quando queste sono state accuratamente verificate e corroborate dai giudici di merito.

Le dichiarazioni di un co-imputato sono sufficienti per una condanna?
Sì, le dichiarazioni di un co-imputato (chiamata in correità) hanno valore di prova e non di semplice indizio, e possono quindi essere sufficienti per una condanna, ma solo a condizione che siano supportate da altri elementi di prova esterni che ne confermino l’attendibilità.

Cosa si intende per “riscontro esterno” alla chiamata in correità?
Un riscontro esterno è qualsiasi elemento di prova, anche di natura logica o indiziaria, che non deve necessariamente provare autonomamente la colpevolezza, ma deve essere dotato di consistenza tale da confermare la credibilità delle dichiarazioni accusatorie. Nel caso di specie, sono stati considerati riscontri la struttura societaria riconducibile agli imputati e le movimentazioni finanziarie anomale.

È possibile contestare la quantificazione della pena o della provvisionale in Cassazione?
La quantificazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito e può essere contestata in Cassazione solo per vizi di motivazione manifestamente illogici. La statuizione relativa alla provvisionale, invece, non è impugnabile con ricorso per cassazione, in quanto si tratta di una decisione di natura discrezionale, provvisoria e non destinata a passare in giudicato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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