Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 21963 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 21963 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/03/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
1.NOME, nato in Albania il DATA_NASCITA rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, di fiducia
e da avverso la sentenza in data 04/07/2023 della Corte di appello di Milano, quinta
2.NOME COGNOME, nato in Albania il DATA_NASCITA rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO, di fiducia sezione penale;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1-bis cod. proc. pen., 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell’art. 5-duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall’art. 17 del d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112 e che, conseguentemente, il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME,
letta la requisitoria scritta ex art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 e succ. modif., con la quale il Sostituto procuratore generale, NOME COGNOME, ha concluo chiedendo di dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi;
letta la memoria di replica presentata nell’interesse di NOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 04/07/2023, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia resa in primo grado, nei confronti di NOME e di NOME, all’esito di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza in data 16/12/2020, ritenuta per NOME la recidiva specifica infraquinquennale ed esclusa per NOME la contestata recidiva, concesse le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla recidiva per NOME, riduceva la pena inflitta ai medesima in primo grado, rideterminandola per NOME, in relazione al reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 (capo A) e al reato di cui all’art. 629 cod. pen. (capo B), in anni tre di reclusione ed euro 600 di multa e per NOME, in relazione di cui all’art. 629 cod. pen. (capo C), in anni due, mesi due, giorni venti di reclusione ed euro 445 di multa, con conferma nel resto della sentenza di primo grado.
Avverso la predetta sentenza, nell’interesse di NOME e di NOME, sono stati proposti distinti ricorsi per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex rt. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3. Ricorso di NOME.
Primo motivo: violazione di legge in relazione agli artt. 521, 522 e 597 cod. proc. pen. in punto di recidiva, per la ritenuta sua sussistenza nella forma infraquinquennale (con conseguenziale applicabilità del regime sanzionatorio di cui al terzo comma dell’art. 99 cod. pen. che prevede un aumento di pena della metà in caso di concorso di più circostanze di cui al comma 2) sebbene mai in tal modo contestata dalla pubblica accusa; violazione di legge in relazione agli artt. 99, 106 cod. pen. e 445 cod. proc. pen. per non aver escluso la contestata recidiva, in quanto gli unici due titoli fondanti la contestazione – sentenza Tribunale di Monza del 20/04/2004, irrevocabile il 08/07/2004, estinti reati ed effetti penali 08/07/2009; sentenza Tribunale di Monza del 16/03/2010, irrevocabile il 06/06/2010, estinti reati ed effetti penali il 06/06/2015 – afferiscono a reati estint per il decorso dei cinque anni dal passaggio in giudicato delle relative pronunce,
senza la commissione di altri reati; vizio di motivazione in punto di ritenuta sussistenza e qualificazione della recidiva. La doverosa esclusione della recidiva consentirebbe un trattamento sanzionatorio ancora più favorevole in termini di aumento a titolo di continuazione e di applicazione delle attenuanti generiche nella massima estensione.
Secondo motivo: vizio di motivazione in merito alla mancata concessione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi ex artt. 20-bis, con contestuale violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. La modifica normativa introdotta dalla cd. legge Cartabia è intervenuta dopo la presentazione dell’atto di appello (29/04/2021) e l’astratta applicabilità della misura non custodiale del lavoro di pubblica utilità sostitutivo si è verificata unicamente dopo la parziale riforma della sentenza impugnata da parte del giudice di secondo grado, con riduzione della pena detentiva da quattro a tre anni di reclusione.
4. Ricorso di NOME.
Primo motivo: mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione al reato di estorsione (capo C) con contestuale richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto. I giudici di merito evidenziano circostanze a carico del ricorrente e ne accomunano nella vicenda anche il fratello NOME, concludendo per la responsabilità penale pure di quest’ultimo, chiamato però a rispondere ad altro specifico e circoscritto titolo, per fatti diversi.
Secondo motivo: mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla pena finale inflitta in concreto. La pena detentiva inflitta in concreto in dispositivo dalla Corte d’appello è superiore nella misura di dieci giorni di reclusione rispetto a quella indicata in parte motiva (anni due, mesi due e giorni venti di reclusione, invece di anni due, mesi due e giorni dieci di reclusione), rendendo incomprensibile il percorso seguito per arrivare alla determinazione della pena effettivamente inflitta.
Terzo motivo: inosservanza della legge processuale con riferimento alla norma introdotta dal D.Lgs. 150/2022, art. 31, comma 1 (in vigore dal 30/12/2022) contenuta nell’art. 545-bis, comma 1, cod. proc. pen. (mancato avvertimento da parte del giudice), al fine di consentire al condannato di usufruire delle pene sostitutive nella loro recente ampliata configurazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono entrambi inammissibili.
Ricorso di NOME.
2.1. Il primo motivo è proposto in situazione di carenza di interesse.
Al ricorrente era stata contestata originariamente la recidiva specifica reiterata. In primo grado la stessa era stata ritenuta e posta in bilanciamento, con giudizio di equivalenza, con le circostanze attenuanti generiche. In appello, senza alcuna modificazione della contestazione, la recidiva veniva riqualificata dai giudici in specifica infraquinquennale, con eliminazione della recidiva reiterata, e le circostanze attenuanti generiche venivano ritenute come prevalenti rispetto alla predetta riqualificata recidiva, con conseguente riduzione di pena: la fattispecie non solo è stata attenuata con riferimento al titolo (la recidiva infraquinquennale prevede un aumento di pena – fino alla metà – inferiore a quello della recidiva reiterata, che invece, in presenza anche della recidiva specifica, è fisso nella misura di due terzi) ma ha consentito un giudizio di bilanciamento nel senso della prevalenza delle attenuanti riconosciute (impedito in presenza di una ritenuta recidiva reiterata) con la conseguente ricaduta della diminuzione della pena finale.
In tale prospettiva, pur in presenza di un orientamento contrapposto (Sez. 1, n. 9019 del 23/11/2023, dep. 2024, Boukssid, Rv. 285921), si intende dare continuità all’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui è inammissibile, per carenza di interesse, l’impugnazione dell’imputato preordinata ad ottenere l’esclusione di una circostanza aggravante quando la stessa sia stata già ritenuta subvalente rispetto alle riconosciute attenuanti (cfr., Sez. 1, n. 43269 del 25/09/2019, R., Rv. 277144; Sez. 2, n. 38697 del 24/06/2015, COGNOME, Rv. 264803; Sez. 3, n. 16717 del 09/03/2011, COGNOME, Rv. 250000; Sez. 7, Ord. n. 32566 del 13/07/2022, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 28230 del 22/06/2022, COGNOME, non mass.; Sez. 2, n. 23313 del 24/02/2022, COGNOME, non mass.). L’interesse all’impugnazione, dunque, deve presentare le caratteristiche della concretezza e dell’attualità, che si realizzano quando, con l’impugnazione proposta, si intenda perseguire un risultato, non soltanto teoncamente corretto, ma anche praticamente favorevole. Tali caratteristiche marcano nel caso in esame, visto che l’imputato non ottiene alcun vantaggio attuale e concreto dalla riqualificazione della recidiva richiesta in questa sede, recidiva che, comunque, è stata ritenuta subvalente in sede di appello, con gli effetti favorevoli sulla pena come sopra indicati.
In ogni caso, si ritiene che fosse onere del ricorrente (onere, nella specie, non assolto) segnalare, ai fini della specificità della richiesta, eventuali ulterio effetti deteriori che la stessa, al di là della determinazione in concreto della pena, avrebbe avuto sul complessivo trattamento del condannato, in tal modo facendo residuare un suo sostanziale ed effettivo interesse alla eventuale eliminazione della stessa in sede di impugnazione.
Al riguardo, va rilevato che, nel motivare la riduzione delle generiche non nella massima misura si è fatto riferimento “al profilo criminale del giudicabile”, individuato in modo del tutto generico (e compatibile con la mera presenza di precedenti penali) e non con riguardo alla recidiva. Infine, nessun riferimento alla recidiva risulta operato in sede di aumento per la continuazione.
La totale assenza di pregiudizio per un trattamento formalmente e sostanzialmente più favorevole rende evidente la carenza di interesse al motivo proposto.
2.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
In tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché i giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame o in sede di “motivi nuovi” ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen., ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell’udienza di discussione d’appello (cfr., Sez. 4, n. 4934 del 23/01/2024, COGNOME, Rv. 285751; Sez. 4, n. 636 del 29/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Ry. 285630).
Nel caso in esame, il motivo riguardante l’eventuale “rimodulazione della statuizioni di pena”, stante la sua genericità, non comprende anche la specifica richiesta delle nuove pene sostitutive, che implicano un impegno per l’imputato e dunque necessitano del suo consenso.
La difesa avrebbe potuto presentare una tale richiesta, con riguardo all’udienza d’appello, anche “in sede di conclusioni scritte ed in via subordinata”, in caso di mitigazione della pena, ma ciò, nella fattispecie, non è avvenuto.
3. Ricorso di NOME.
3.1. Evocativo di non consentite censure in fatto con richiesta di rivalutazione nel merito e comunque manifestamente infondato è il primo motivo.
Le censure ivi proposte sono sostanzialmente orientate a riprodurre una serie di deduzioni già ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte territoriale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle correlative risultanze processuali, poiché imperniate sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal guisa richiedendo l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione.
Sotto tali profili, dunque, il motivo di ricorso non è volto a rilevar mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d’accusa enucleati con riferimento alle condotte oggetto dei rispettivi capi d’imputazione in narrativa richiamati.
Si è dinanzi, in definitiva, ad un quadro argomentativo logicamente articolato nelle premesse e nelle relative conclusioni, esulando, come è noto, dai poteri di questa Suprema Corte quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali dal ricorrente ritenute più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207945).
La Corte di legittimità, infatti, non può sostituire una propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio, dovendo saggiare la tenuta logica della pronuncia sottoposta alla sua cognizione senza oltrepassare i limiti di un accertamento della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, accertamento che deve necessariamente condursi alla stregua degli stessi parametri valutativi che geneticamente le danno corpo, ancorché questi siano, in ipotesi, sostituibili da altri. L’indagine sul discorso giustificativo della decisione impugnata, pertanto, ha un orizzonte percettivo delimitato al riscontro dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari temi ivi apprezzati, non potendosi mai sovrapporre nella verifica dell’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è giovato per sostenere il suo convincimento o della loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione come vizio denunciabile deve essere, per ciò, inevitabilmente palese e di immediata riconoscibilità.
Nel caso di specie, invero, l’adeguatezza e logicità (nel senso appena specificato) della motivazione della sentenza impugnata non sono state minimamente aggredite dal ricorrente, limitatosi a prospettare critiche sulle valutazioni dalla Corte d’appello rese in ordine alla fondatezza ed ai risultati del materiale probatorio sottoposto al suo esame, delineandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, la cui rivisitazione, come già osservato, non è in alcun modo percorribile in questa sede.
Fermo quanto precede, come evidenziato dalla Procura generale, la tesi difensiva si basa sulla contestazione del giudizio di attendibilità della persona offesa COGNOME. Al riguardo, la Corte territoriale, nel vagliare la plausibili intrinseca delle dichiarazioni della persona offesa quanto ai fatti di estorsione e nel
raffrontarle con gli elementi esterni di prova, ha fatto puntuale applicazione degli insegnamenti della giurisprudenza (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214) secondo cui le dichiarazioni della parte offesa possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e oggettiva, con un vaglio dell’attendibilità del dichiarante più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talché tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. Tuttavia – ed è proprio quello che la Corte di merito ha fatto – può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato (cfr., Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, COGNOME, Rv. 248016; Sez. 6, n. 33162 del 03/06/2004, COGNOME, Rv. 229755).
Nel caso in esame, le dichiarazioni della persona offesa, che non si è comunque costituita parte civile, non sono state smentite da alcun elemento contrario e sono state attentamente vagliate e ritenute scevre da qualsiasi intento calunniatorio. La Corte d’appello ha conferito rilievo al tenore pacato della deposizione e all’assenza di toni rabbiosi e rancorosi da parte della persona offesa. E’ stata valorizzata la linearità della ricostruzione nonché i riscontri provenienti dalle altre risultanze acquisite nel corso del giudizio, rappresentate dal contenuto della messaggistica rinvenuta nel cellulare della vittima, nonché dalle informazioni rese dai testi COGNOME e COGNOME. Ciò posto, ogni ulteriore vaglio critico circa il giudizi di attendibilità della deposizione della persona offesa è precluso a questa Suprema Corte in ossequio al principio secondo il quale la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni, che, peraltro, non si ravvisano nel caso di specie.
Quanto alla pregnanza intimidatoria della frase minacciosa utilizzata da NOME, la Corte d’appello ha ritenuto in modo del tutto congruo ed esente da vizi logico giuridici che essa sussistesse, tanto da determinare la vendita della vettura da parte della persona offesa. La Corte d’appello ha implicitamente ritenuto ininfluente la circostanza che la vettura sia stata formalmente ceduta all’NOME, invece che al COGNOME, in quanto la persona offesa si è determinata a compiere tale negozio esclusivamente in virtù dell’intimidazione ricevuta. La cessione del bene configura correttamente il perfezionamento del reato. Peraltro,
estremamente significativa appare la circostanza che in occasione del passaggio di proprietà, il COGNOME si fosse intestato un’utenza telefonica rimasta nella disponibilità del COGNOME.
3.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
Dall’esame del testo della sentenza d’appello, appare chiaramente ricostruibile il procedimento seguito dai giudici di secondo grado per determinare la pena. Gli stessi, partendo dalla pena di anni cinque di reclusione ed euro 1.000 di multa, hanno proceduto alla riduzione ex art. 62-bis cod. pen. ad anni tre e mesi quattro di reclusione ed euro 667 di multa, ed operato l’ulteriore riduzione del terzo per il rito abbreviato: riduzione che avrebbe dovuto condurre alla pena finale di anni due, mesi due e giorni venti di reclusione e 445 euro di multa, come appunto indicato nel dispositivo in calce alla sentenza e a quello “separato” letto in udienza, e non invece in anni due, mesi due e giorni dieci di reclusione ed euro 445 di multa, come erroneamente indicato nella motivazione, frutto di un evidente errore materiale non incidente sulla validità della decisione.
II Manifestamente infondato è il terzo motivo.
Si afferma in giurisprudenza che, in tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, il giudice non è tenuto a proporre, in ogni caso, all’imputato l’applicazione di una pena sostitutiva, essendo investito di un potere discrezionale al riguardo, sicché l’omessa formulazione, subito dopo la lettura del dispositivo, dell’avviso di cui all’art. 545-bis, comma 1, cod. proc. pen., non comporta la nullità della sentenza, presupponendo un’implicita valutazione dell’insussistenza dei presupposti per accedere alla misura sostitutiva (Sez. 1, n. 2090 del 12/12/2023, S., Rv. 285710).
Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila, così quantificata in ragione dei profili di colpa emergenti dai ricorsi, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore della Cassa delle ammende. processuali e della somma di euro tremila Così deciso in Roma il 27/03/2024.