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Captatore Informatico: Cassazione sulle intercettazioni

Un individuo, in custodia cautelare per associazione mafiosa ed estorsione, ricorre in Cassazione contestando la legittimità delle prove raccolte tramite captatore informatico. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, fornendo un’importante analisi sui diversi regimi normativi che regolano l’uso di questo strumento investigativo. La sentenza chiarisce che per i reati di criminalità organizzata, la legge consente l’uso del captatore con un onere motivazionale meno stringente rispetto ad altri reati, confermando la validità delle intercettazioni e della misura cautelare.

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Pubblicato il 7 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Captatore Informatico: la Cassazione ne definisce i confini nelle indagini di mafia

Una recente sentenza della Corte di Cassazione torna a occuparsi di un tema cruciale nelle moderne investigazioni penali: l’utilizzo del captatore informatico. Il caso, relativo a un’ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa, offre alla Suprema Corte l’occasione per chiarire i diversi regimi di autorizzazione e i relativi oneri di motivazione per questo potente strumento di ricerca della prova, tracciando una netta distinzione tra procedimenti per criminalità organizzata e altri reati.

I fatti del caso

Il Tribunale del Riesame confermava un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un soggetto gravemente indiziato di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso e di un connesso delitto di estorsione aggravata. Le prove a carico dell’indagato provenivano in larga parte da intercettazioni ambientali e telematiche effettuate tramite l’inoculazione di un captatore informatico su un dispositivo mobile in uso a un altro esponente del sodalizio.

La difesa dell’indagato proponeva ricorso per cassazione, lamentando molteplici violazioni di legge e vizi di motivazione. Le censure si concentravano principalmente sull’asserita inutilizzabilità delle intercettazioni, sostenendo che i decreti autorizzativi del G.i.p. fossero carenti di motivazione, in particolare riguardo alla necessità di utilizzare tale strumento e alle ragioni che ne giustificavano l’impiego anche in luoghi di privata dimora. Venivano inoltre contestate le modalità di esecuzione, con il presunto illegittimo coinvolgimento di personale e impianti di società private.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato in ogni suo punto. La decisione si fonda su una dettagliata ricostruzione del quadro normativo che disciplina le intercettazioni a mezzo captatore informatico, evidenziandone la natura duale a seconda del tipo di reato per cui si procede.

Le regole per l’uso del captatore informatico nei reati di mafia

Il punto centrale delle motivazioni riguarda la distinzione operata dal legislatore. La Corte chiarisce che l’art. 266, comma 2-bis, cod. proc. pen. prevede due regimi distinti:
1. Reati di criminalità organizzata (di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.): Per questi reati, l’intercettazione tra presenti tramite captatore è sempre consentita. Ciò significa che non è richiesto un onere motivazionale aggiuntivo per giustificarne l’uso in luoghi di privata dimora (art. 614 c.p.). La legge, in questi casi, presume la necessità dello strumento, data la particolare pericolosità dei reati e la scaltrezza degli indagati.
2. Reati contro la Pubblica Amministrazione: Per questi delitti, l’uso in luoghi di privata dimora è consentito solo previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l'utilizzo.

Poiché nel caso di specie si procedeva per il delitto di associazione mafiosa, rientrante nella prima categoria, la doglianza difensiva sull’omessa motivazione riguardo all’uso in luoghi privati è stata ritenuta infondata.

Distinzione tra intercettazioni ambientali e telematiche

La Corte ha inoltre precisato che la difesa aveva erroneamente sovrapposto due tipi di captazione, soggette a regole diverse. Un conto è l’intercettazione di conversazioni tra presenti (il cosiddetto ascolto ambientale), un altro è l’intercettazione di flussi di comunicazione informatica o telematica (chat, email, dati). La difesa aveva contestato i decreti relativi a entrambe le attività come se fossero una sola. La Corte ha chiarito che i decreti erano distinti e che le censure erano state mosse in modo generico e confuso, non cogliendo le differenze normative tra le due tipologie di intercettazione.

Le motivazioni della sentenza

La Corte ha ritenuto che, sebbene per i reati di mafia non sia richiesta una motivazione specifica per l’uso in luoghi privati, resta fermo l’obbligo per il giudice di motivare con autonoma valutazione e in concreto sulla necessità di ricorrere a uno strumento così invasivo come il captatore informatico. Nel caso esaminato, il G.i.p. aveva adempiuto a tale onere, spiegando che gli indagati adottavano particolari cautele comunicative (evitando telefonate dirette e preferendo incontri di persona) che rendevano indispensabile il ricorso al trojan per il proseguo delle indagini.

In merito all’impiego di personale e impianti privati, la Corte ha ribadito che ciò è espressamente consentito dalla legge (art. 268, commi 3 e 3-bis c.p.p.), la quale autorizza l’uso di impianti esterni alla Procura quando quelli interni siano inidonei e permette alla polizia giudiziaria di avvalersi di persone tecnicamente qualificate. La motivazione del PM sulla inidoneità degli impianti della Procura è stata giudicata congrua e sufficiente.

Infine, la Corte ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti proposti dalla difesa, in quanto relativi a questioni (come la qualificazione del delitto di estorsione o le specifiche esigenze cautelari) non sollevate nel ricorso principale, in applicazione del principio che vieta di introdurre temi di indagine completamente nuovi con i motivi aggiunti.

Le conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza pratica. In primo luogo, riafferma l’ampia discrezionalità degli organi inquirenti nell’utilizzo del captatore informatico nelle indagini sulla criminalità organizzata, limitando le possibilità di contestazione da parte delle difese. In secondo luogo, sottolinea la necessità per i difensori di articolare censure estremamente precise e tecnicamente fondate, distinguendo con rigore le diverse tipologie di intercettazione e i relativi presupposti di legge, pena la genericità e l’infondatezza del ricorso. Infine, la decisione conferma la validità del principio di autoresponsabilità dell’impugnante, che deve delineare l’intero perimetro delle proprie doglianze nell’atto principale, senza poterlo ampliare a temi nuovi in un secondo momento.

È necessaria una motivazione specifica sulle ragioni per usare un captatore informatico in luoghi di privata dimora durante indagini per reati di mafia?
No. La sentenza chiarisce che per i reati di criminalità organizzata, come l’associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), la legge prevede che l’intercettazione tra presenti tramite captatore sia ‘sempre consentita’, senza richiedere un onere motivazionale aggiuntivo per giustificarne l’uso in luoghi di privata dimora, a differenza di quanto previsto per altri reati.

L’uso di personale e impianti di una società privata per effettuare le intercettazioni le rende inutilizzabili?
No. La Corte ha stabilito che la legge consente espressamente sia l’utilizzo di impianti esterni a quelli della Procura (previa motivazione sulla loro inidoneità), sia la possibilità per la polizia giudiziaria di avvalersi di personale civile tecnicamente qualificato per le operazioni di installazione e gestione del captatore. Tali modalità esecutive, se correttamente autorizzate, non sono causa di inutilizzabilità.

Qual è la differenza, ai fini legali, tra intercettare conversazioni tra presenti e flussi telematici con lo stesso captatore informatico?
La sentenza evidenzia che si tratta di due attività di captazione distinte, soggette a discipline normative diverse. L’intercettazione di conversazioni tra presenti (ascolto ambientale) segue le regole degli artt. 266 e 267 c.p.p., con le specificità viste per i reati di mafia. L’intercettazione di flussi telematici (chat, dati, ecc.) è regolata dall’art. 266-bis c.p.p. È fondamentale che le contestazioni difensive distinguano correttamente le due tipologie, poiché i requisiti di legittimità sono differenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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