Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 19467 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 19467 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 06/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Cosenza NOMECOGNOME nato il 27/10/1946 a Messina
avverso la sentenza del 10/10/2024 dalla Corte d’appello di Reggio Calabria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile; udito l’Avvocato NOME COGNOME che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Reggio Calabria confermava la sentenza di non luogo a procedere per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) di NOME COGNOME in relazione al delitto di calunnia
(art. 368 cod. pen.), per aver incolpato, mediante atto di denuncia-querela depositato presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria, pur sapendola innocente, NOME COGNOME, giudice onorario in servizio presso la seconda Sezione civile del Tribunale di Messina, del delitto di cui all’art. 323 cod. pen., affermando che la stessa, in qualità di giudice dell’esecuzione nella procedura esecutiva immobiliare in cui il debitore esecutato Cosenza era rimasto soccombente, illegittimamente non ne aveva accolto le istanze, lo aveva punito ingiustamente, gli aveva arrecato un danno, favorendo volutamente la controparte NOME COGNOME che vantava nei suoi confronti un credito professionale insoluto.
Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputato, per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME deducendo i seguenti tre motivi.
2.1. Violazione dell’art. 407, comma 3-bis cod. proc. pen., nel testo vigente al tempo dei fatti, nonché degli artt. da 177 a 179 cod. proc. pen. e degli artt. 24 e 111 Cost.; vizio di motivazione.
Già in appello si era dedotta la tardività dell’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico ministero, evidenziando la violazione dell’art. 407, comma 3bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 30, legge 23 giugno 2017, n. 103, il quale, seppur abrogato dall’art. 98, comma 2, lettera c), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica al presente procedimento in virtù dell’art. 88-bis disposizioni transitorie in materia di indagini preliminari, introdotto dall’art. sexies della legge 30 dicembre 2022, n. 199 (a mente di tale articolo, in ogni caso il pubblico ministero è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque da quella dei termini di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen.).
Si aggiungeva come non ricorresse l’ipotesi disciplinata dal medesimo art. 407, comma 2, lett. b), richiamato dal cornma 3-bis (particolare complessità delle indagini), e che in ogni caso nessuna richiesta era stata formulata prima della scadenza del termine da parte del pubblico ministero per sollecitare il procuratore generale presso la Corte di appello alla proroga del termine stesso.
Si deduceva, pertanto, la nullità degli atti compiuti.
La Corte d’appello ha respinto il motivo, asserendo che l’inosservanza dei termini fissati dal codice di rito per lo svolgimento delle indagini preliminar comporta la mera inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti successivamente, tanto è vero che, nei rari casi in cui si è pronunciata sul tema, la giurisprudenza di legittimità ha qualificato come abnorme il provvedimento giurisdizionale volto a censurare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero oltre la scadenza dei suddetti termini.
Posto che l’orientamento di legittimità invocato precedeva l’introduzione del citato art. 407, comma 3-bis, cod. proc. pen., osserva il ricorrente che, a conferma della lettura qui riproposta, l’art. 412 cod. proc. pen., anch’esso nella formulazione vigente ratione temporis, disponeva che il procuratore generale presso la Corte d’appello, in caso di mancato esercizio dell’azione penale ovvero di omessa richiesta di archiviazione nel termine previsto dall’art. 407, comnna 3-bis cod. pen., disponesse con decreto motivato l’evocazione delle indagini preliminari.
Inoltre, l’art. 415-ter cod. proc. pen., quale introdotto dalla riforma Cartabia e rubricato “diritti e facoltà dell’indagato e della persona offesa in caso d inosservanza dei termini per la conclusione delle indagini preliminari”, oggi sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. n), d.lgs. 19 marzo 2024, n. 31, prevedeva che, alla scadenza dei termini di cui all’art. 407-bis, comma 2, se il pubblico ministero non aveva esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa potevano chiedere al giudice per le indagini preliminari di valutare le ragioni del ritardo e, nel caso in cui no fossero giustificate, di ordinare al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.
Significativa deve ritenersi la specificazione di termini certi e perentori a dimostrazione di un obbligo da sempre esistente, la cui violazione determinerebbe, in definitiva, una nullità insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado procedimento, per cui nemmeno ha senso l’affermazione della Corte d’appello per cui lesione avrebbe dovuto essere sollevata la prima volta davanti al giudice dell’udienza preliminare (cui, peraltro, la questione era stata posta, seppur non verbalizzata).
2.2. Violazione degli a-rtt. 425 cod. proc. pen. e 131-bis cod. pen., degli artt. 190, 495, 500 e 503 cod. proc. pen., nonché degli artt. 24 e 111 Cost.
A seguito della modifica introdotta dalla c.d. riforma Cartabia, l’art. 425, comma 3, cod. proc. pen. ha disposto che il giudice dell’udienza preliminare pronunci sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna.
In mancanza di disciplina transitoria, tale nuova regola di giudizio, in ragione del favor rei, avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie.
Di conseguenza, l’accoglimento da parte del Giudice dell’udienza preliminare della richiesta avanzata dal Pubblico ministero di riconoscere la particolare tenuità del fatto ha indotto tale Giudice a decidere della colpevolezza dell’imputato senza che questi abbia potuto esercitare il proprio diritto di difesa costituzionalmente garantito e, soprattutto, beneficiare del diritto alla prova dibattimentale (i particolar modo, del diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico su fatti costituenti oggetto delle prove a carico).
Tale diritto è stato precluso anche dalla Corte d’appello, che ha respinto il motivo relativo all’art. 131-bis cod. pen., affermando che non si poteva pervenire a un esito più favorevole per l’appellante.
D’altro canto, la richiesta di applicazione dell’art 131-bis cod. pen. è stata formulata dal Pubblico ministero in udienza davanti al Giudice dell’udienza preliminare senza previa tempestiva informazione all’imputato, in quanto mera conseguenza della rinuncia alla costituzione di parte civile da parte della persona offesa e soprattutto della riconciliazione tra le parti (segno che non vi era alcun intento calunniatorio negli scritti di Cosenza, ma solo l’esercizio di un diritto d difesa e di critica di provvedimenti giudiziari).
E per le modalità di svolgimento procedimentale si è impedito l’esame della persona offesa.
2.3. Violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 368 e 323 cod. pen., nonché all’art. 131-bis cod. pen. e violazione degli artt. 190, 495, 505 e 503 cod. proc. pen.; violazione dell’art. 48 della CDFUE e dell’art. 6 CEDU; vizio di motivazione; inidoneità degli atti di indagine preliminare a fondare un giudizio di penale responsabilità del ricorrente in quanto manifestamente contraddittori ed insufficienti; mancata pronuncia di sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste.
La Corte d’appello ha operato una lettura distorta degli atti del procedimento penale e delle censure che il ricorrente aveva mosso alla dottoressa COGNOME in relazione a due procedimenti ad essa assegnati, rispettivamente, di esecuzione mobiliare e opposizione a precetto.
Premesso che la dott.ssa COGNOME, in primo grado, aveva rigettato l’opposizione dell’imputato, rifiutandosi di accertare e dichiarare l’inesistenza del decreto ingiuntivo, secondo la Corte di appello, dagli sviluppi processuali della vicenda civilistica non si evincono elementi a supporto della malafede di COGNOME, sicché le accuse mosse dall’imputato nei suoi confronti sarebbero totalmente infondate. Inoltre, i provvedimenti giurisdizionali si sarebbero limitati ad emendare errori in iudicando o in procedendo, senza mai neppure esprimere rilievi di macroscopiche violazioni legislative o abnormità delle decisioni.
Ma le censure del ricorrente hanno . trovato conferma nei successivi provvedimenti giurisdizionali, tra cui l’Ord. Cass. civ. n. 8129 del 2024, che ha dichiarato l’inesistenza del decreto ingiuntivo sulla cui base era stato intimato l’atto di precetto.
Inoltre, avendo conosciuto l’atto esecutivo opposto, la Giudice era incompatibile nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi avverso il medesimo atto.
I Giudici dell’appello hanno poi stravolto il contenuto dei fatti accaduti in relazione all’udienza dinanzi alla dottoressa COGNOME del 3 aprile 2017, ritenendo non veritiere le dichiarazioni dell’imputato.
Tuttavia, innanzitutto, le sommarie informazioni testimoniali rese dall’Avv. Condurso in data 2 aprile 2022, acquisite in sede di indagini preliminari, non avrebbero potuto essere utilizzate ai fini della decisione, non essendo stato condotto l’esame del teste e non essendone consentita la lettura.
In secondo luogo, il racconto di COGNOME reso a distanza di ben cinque anni dai fatti, era frammentario e sommario.
In terzo luogo, la Corte incorre in errore riguardo al dato, documentale ed agevolmente accertabile, del momento del deposito telematico della comparsa di costituzione (deposito eseguito lo stesso giorno durante il corso dell’udienza, alle 10,25, e non alle 15,49, come ritenuto dalla Corte d’appello), ponendo tale personale rilievo alla base dell’astratta configurazione della presunta calunnia.
In quarto luogo, la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto la sussistenza del dolo in capo all’imputato per il mero fatto che questi aveva rivendicato i suoi diritti e, con gli atti di opposizione alle richieste di archiviazione del pubbl ministero, esercitato il suo preciso diritto processuale, sebbene il dolo di calunnia sia un dolo diretto e non possa essere eventuale.
Prima ancora, le condotte omissive della dottoressa COGNOME hanno trovato sostanziale conferma nella citata ordinanza della Corte di Cassazione che ha accolto l’opposizione all’esecuzione per inesistenza del titolo esecutivo, il che esclude in radice il dolo di calunnia, come d’altronde desumibile anche dal fatto che la dottoressa COGNOME ha inteso riconciliarsi con l’imputato.
Contraddittoria e illogica è la motivazione, poi, nella parte in cui si afferma che Cosenza è una persona sufficientemente istruita al punto da conoscere, quantomeno per sommi capi, le regole giuridiche alla base del funzionamento dei processi, sicché avrebbe dovuto essere pienamente consapevole del principio per cui gli errores in iudicando o in procedendo devono essere contestati nelle opportune sedi – strada invero percorsa dal Cosenza – senza considerare che egli ha un titolo di specializzazione universitaria post lauream in patologia clinica con cui ha svolto l’incarico di dirigente sanitario nelle aziende ospedaliere dell’ASP di Messina, e quindi in un ambito lontano da quello giuridico: circostanza che andava in senso esattamente opposto rispetto al riconoscimento del dolo.
Così come illogica è l’affermazione per cui il ricorrente conosceva gli snodi della vicenda processuale per averla seguita personalmente tramite un difensore: affermazione da cui i Giudici sembrano paradossalmente inferire che, se non fosse stato sufficientemente istruito, Cosenza non sarebbe finito imputato del reato ascritto.
3. L’imputato ha presentato una memoria ex art. 611 cod. proc. pen. in cui, ripercorsa la vicenda processuale, sviluppa le argomentazioni contenute nel terzo motivo di ricorso, particolarmente insistendo sulla mancanza di intento calunniatorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
L’art. 407, comma 3-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 30, lett. a) legge 23 giugno 2017, n. 103, abrogato dall’art. 98, comma 1, lett. a) d. Igs. 10 ottobre 2022, n. 150 e vigente nel periodo compreso tra il 3 agosto 2017 e il 30 dicembre 2022, recitava: «In ogni caso il pubblico ministero è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415-bis» cod. proc. pen., salvo proroga nel caso di particolare complessità delle indagini.
Da nessun passaggio si evince, tuttavia, che il mancato rispetto dei termini comportasse la nullità degli atti, sicché, essendo le nullità tassative, deve ritenersi che, sotto questo aspetto, nulla fosse mutato rispetto al passato (ma la conclusione è a tutt’oggi valida) quando pacificamente si riteneva che il decorso del termine per il compimento delle indagini implicasse, al più, l’inutilizzabilità, a istanza di parte, delle prove raccolte dopo la scadenza dei suddetti termini (ex multis, Sez. 2, n. 12423 del 23/01/2020, P., Rv. 279337).
Peraltro, i Giudici del provvedimento impugnato correttamente ricordano che tale pacifica interpretazione ebbe l’avallo anche della Corte costituzionale la quale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 409, comma 4, e 554 cod. proc. pen., in relazione all’art. 407 cod. proc. pen., sollevata con riferimento all’art. 112 Cost., precisò che il decorso del termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice per il compimento delle indagini preliminari non determinava la decadenza del pubblico ministero dal potere di formulare le sue richieste (sent. Corte cost. n. 436 del 1991).
Considerazione cui può aggiungersi quanto rilevato in sede di requisitoria orale del Procuratore generale, e cioè che la persistenza di tale potere trova conferma – e non smentita – nella positivizzazione del potere di sollecitazione del pubblico ministero, per il tramite del Giudice, ad opera dell’indagato.
Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Si prescinda dal fatto che si potrebbe finanche dubitare dell’estensibilità al caso di specie dell’insegnamento di legittimità secondo cui sussiste l’interesse dell’imputato a impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., trattandosi di pronuncia che: 1) ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651-bis cod. proc. pen.); 2) è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. d.P.R. n. 313 del 2002); 3) può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis, comma terzo, cod. pen. (tra le altre, Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017, 2018, COGNOME, Rv. 272877). Nel procedimento in oggetto, infatti, la particolare tenuità del fatto è stata riconosciuta con una sentenza di non luogo a procedere emessa nell’udienza preliminare ex art. 425 cod. proc. pen., che conserva un carattere processuale e non di merito, sicché alla stessa non si applica la disposizione dell’art. 651-bis c.p.p., come confermato, in motivazione, ad esempio, da Sez. 5, n. 21409 del 11/02/2016, COGNOME, Rv. 267145. Né altro specifico e concreto interesse è stato allegato dal ricorrente, che si è limitato a richiamare genericamente un diritto ad ottenere una valutazione più approfondita, ai sensi del nuovo testo dell’art. 425, comma 3, cod. proc. pen.
Quanto a tale aspetto, appare poi dirimente il fatto che l’imputato – il quale non deduce di essere stato assente all’udienza preliminare – ben avrebbe potuto opporsi alla richiesta di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. da parte dell’accusa, ma non lo fece. Con la conseguenza che non può certo dolersi, in questa sede, di un’indebita compressione (peraltro revocabile in dubbio) del suo diritto di difesa.
Quanto al terzo motivo di ricorso, va premesso che, nella sentenza impugnata, la Corte di Appello compie una molto analitica ricostruzione dell’antefatto civilistico della denuncia di Cosenza, intesa a dimostrare la mancanza di atteggiamenti favoritistici e/o prevaricatori da parte della persona offesa e, quindi l’insussistenza dell’abuso d’ufficio di fatto attribuito dal ricorren a COGNOME.
4.1. In tal senso, si precisa che:
nel 2015, tale Avv. COGNOME propose al Giudice di pace di Messina ricorso per decreto ingiuntivo per recuperare onorari nei confronti di Cosenza, in relazione ad attività professionale prestata nell’ambito di un procedimento di esecuzione mobiliare promosso dallo stesso imputato nei confronti del Ministero della giustizia;
la Giudice di pace di Messina, dott.ssa COGNOME emise quindi un decreto ingiuntivo nei confronti di Cosenza, il quale formulò opposizione e domanda riconvenzionale per il risarcimento del danno patrimoniale biologico derivante da responsabilità professionale del COGNOME, oltre che per il danno subito per effetto del procedimento monitorio instaurato;
a conclusione del giudizio civile, COGNOME dichiarò l’inammissibilità dell’opposizione e il rigetto delle domande riconvenzionali formulate da Cosenza (che reagì nelle sedi giudiziarie) e assegnò in pagamento al pignorante un quinto della pensione mensile del Cosenza.
Dal che l’accusa di persecuzione mossa da Cosenza a COGNOME, che avrebbe agito per agevolare il creditore, e conseguente procedimento penale a carico della seconda per abuso d’ufficio, nel cui ambito l’attuale ricorrente si oppose numerose volte all’archiviazione, adducendo sempre ulteriori accuse di malafede e parzialità.
4.2. I Giudici di secondo grado specificano, inoltre, il contenuto della denuncia sporta dall’imputato contro COGNOME la quale: avrebbe differito la definizione del procedimento in seguito alla rinuncia del primo precetto da parte di COGNOME per ritardare la condanna alle spese di quest’ultimo, così danneggiando l’esecutato; avrebbe impedito all’udienza del 3 aprile 2017 la costituzione in giudizio dell’imputato e non avrebbe accolto l’istanza di sospensione contenuta nella comparsa di costituzione, in attesa della decisione sull’istanza di inibitoria, omettendo di verbalizzare la presenza dell’Avv. COGNOME e allontanandola immotivatamente dall’aula di udienza; avrebbe arbitrariamente riconosciuto al pignorante una somma superiore a quella dovuta, e condannato l’imputato per due volte al pagamento delle spese di giudizio sulla base del medesimo titolo esecutivo, invalido ed inefficace; avrebbe agito arbitrariamente e con malafede, in violazione del dovere di imparzialità a favore evidente ed illecito di COGNOME.
Per contro, innanzitutto e per un verso, la sentenza impugnata dimostra, in modo completo e coerente, che COGNOME non realizzò alcun atto illegittimo e, dunque, alcun abuso d’ufficio: sul punto, essendo il caso di chiosare che, comunque, al di là, in genere, dei fisiologici margini di discrezionalità di qualunque provvedimento giudiziario e vuoi anche della possibilità di errori, in concreto, dubbi sulla correttezza dell’operato della Giudice non sono desumibili da Ord. Cass. civ. n. 8129 del 2024, ripetutamente richiamata dal ricorrente, che solo successivamente dichiarò la nullità del titolo esecutivo nei suoi confronti per un vizio “formale”, consistente nella mancata firma del decreto ingiuntivo.
In secondo luogo e per altro verso, si soffernna sulla non conformità al vero di quanto sotto più profili dichiarato dall’imputato, a tale fine richiamando anche le sommarie informazioni testimoniali di COGNOME, sostituta processuale dell’avvocato di fiducia dell’imputato e, pertanto, ritenuta vieppiù credibile:
dichiarazioni dalle quali non si desume affatto che COGNOME fosse stata allontanata dall’aula dal Giudice di pace durante l’indicata udienza del 3 aprile (come riferito dall’imputato), ma, semmai, ancora una volta, il comportamento fortemente oppositivo del ricorrente (per quanto si legge nel provvedimento impugnato, COGNOME riferiva, infatti, che essendo rientrata in aula dopo aver avvisato telefonicamente il difensore di fiducia di Cosenza dell’eccezione di inammissibilità – relativa al deposito cartaceo, anziché telematico, della comparsa di costituzione e risposta – sollevata dalla controparte, constatava che Cosenza si stava rivolgendo animatamente alla Giudice di pace, sicché quest’ultima, data la concitazione, la invitava ad allontanare l’uomo dall’aula. Condurso aggiungeva peraltro di non esservi riuscita, sicché, rimanendo sopraffatta da tale tipo di reazione, si allontanava – quindi, spontaneamente – dall’aula).
Né – incidentalmente – può concordarsi con le deduzioni difensive sull’inutilizzabilità di tali dichiarazioni, essendosi il procedimento concluso i udienza preliminare e non avendo comunque l’imputato sollevato analoga censura in appello, nonostante il rilievo attribuito dal Giudice di primo grado alle sommarie informazioni in oggetto (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.).
Oltretutto, i Giudici dell’appello reputano documentalmente provata la correttezza del dato riportato nella sentenza di primo grado sul momento di avvenuta accettazione del deposito degli atti (nel pomeriggio), a conferma dell’impossibilità, per COGNOME, di visualizzarli: quindi, in ultima analisi, de correttezza del suo operato e, specularmente, della falsità di quanto rilevato dal ricorrente.
4.3. Venendo, ora, specificamente alle deduzioni sul dolo, sulla cui mancanza insiste pure la memoria presentata ex art. 611 cod. proc. pen., anche tale aspetto viene compiutamente e logicamente argomentato nel provvedimento impugnato.
I Giudici dell’appello mostrano di concordare, infatti, con la sentenza di primo grado, ove questa desume già dal tenore della denuncia sporta dall’imputato la sussistenza dell’elemento soggettivo ed esclude che questo possa essere negato per la rinuncia alla costituzione di parte civile di COGNOME, trattandosi di scelta personale che nulla ha a che fare con l’elemento soggettivo della calunnia, tantopiù – specificano – che il delitto tutela il bene giuridico pubblicistico del regola funzionamento della giustizia (non irragionevolmente, il Tribunale revocava peraltro in dubbio la buona fede di Cosenza già sulla scorta delle reiterate opposizioni all’archiviazione del procedimento a carico della Giudice, anche in ragione delle espressioni in esse usate).
Precisano, inoltre, come la totale infondatezza nell’attribuzione di fatti specifici a COGNOME sottenda la certezza della loro non attribuibilità in capo all’imputato: rilievo che esclude la configurabilità del dolo in forma meramente eventuale.
Soltanto a questo punto, aggiungono – in modo peraltro sostanzialmente incidentale – che il grado di istruzione e culturale dell’imputato, nonché la diretta
conoscenza delle vicende processuali da lui personalmente seguite confermano la sussistenza del dolo, specificando, peraltro, che l’affermazione che Cosenza non
aveva un preciso accanimento nei confronti della Giudice di pace è sconfessata dal carattere preciso degli specifici addebiti a lei mossi e dai toni veementi usati nei
suoi confronti.
Rilevano, inoltre, come le deduzioni dell’imputato sulla propria onestà e buone ragioni, nel contesto di un accertamento tecnico, quel è quello giudiziario-penale
sulla sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie, possano valere, al limite, ai fini del trattamento sanzionatorio o del riconoscimento della particolare
tenuità, come nel caso di specie.
4.4. Correttamente, infine, Giudici dell’appello escludono che, nel caso di specie, si configuri un diritto di critica dei provvedimenti giudiziari, diritto evoca
sebbene in modo incidentale, ancora in questa sede di legittimità, avendo la denuncia sporta nei confronti di COGNOME travalicato i limiti di operatività dell’art. 51 cod. pen., notoriamente rappresentati dalla verità, dalla pertinenza dei fatti narrati e dalla continenza della narrazione, da intendere peraltro qui in modo vieppiù rigoroso, posto che le espressioni diffamatorie hanno riguardato un’autorità giudiziaria, a protezione della quale la giurisprudenza sovranazionale (sulla scorta dell’art 10, § 2, CEDU) e di legittimità predispone una tutela “rafforzata”.
4.5. In conclusione, per le ragioni esposte, la motivazione della sentenza impugnata appare esente da illogicità, tantomeno manifesta, oltre che da vizi di legge, e il terzo motivo di ricorso, per converso, infondato, lambendo invero l’inammissibilità nelle parti in cui reitera deduzioni già respinte con argomentazione ampia ed analitica.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 06/05/2025