Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 13512 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 13512 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
A.A. NOME , nata
omissis
avverso la sentenza del 05/06/2024 della Corte di assise di appello di omissis visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il difensore di parte civile, avvocato NOME COGNOME, che ha chi conferma della sentenza impugnata con il favore delle spese di lite; i difensori dell’imputata, avvocati NOME COGNOME COGNOME e NOME COGNOME
uditi che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza 3 ottobre 2011 la Corte di assise di appello di om issis riaffermava la penale responsabilità di calunnia ai danni di NOME COGNOMENOMECOGNOMENOME accusato lo stesso NOME COGNOME in ordine al delitto di contestatole per avere falsamente NOME , suo datore di lavoro, di essere l’assassino di
NOME.NOMERAGIONE_SOCIALE l, uccisa nel proprio appartamento del capoluogo umbro la notte tra il 1° e il 2 novembre 2007.
Dal concorso nell’omicidio, e dagli altri reati contestuali, NOME veniva invece assolta dal giudice di secondo grado, assieme al coimputato COGNOME COGNOME.COGNOME.
La Corte di assise di appello escludeva, in rapporto a ciò, l’aggravante del nesso consequenziale di cui all’art. 61, n. 2), cod. pen., e, riconosciute le attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante di cui all’art. 368, secondo comma, cod. pen., condannava NOME alla pena principale di tre anni di reclusione, confermando altresì le statuizioni civili in favore della persona calunniata.
In base all’imputazione (capo F) della rubrica), le accuse calunniose nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME erano state formulate attraverso dichiarazioni rilasciate dall’interessata, in Questura, nelle prime ore del 6 novembre 2007. NOME era stata qui assunta a sommarie informazioni testimoniali, dalla polizia giudiziaria, alle ore 1.45, e aveva quindi reso spontanee dichiarazioni al Pubblico ministero, alle ore 5.45.
In tali sedi NOME aveva indicato COGNOME COGNOME come autore dell’omicidio. Avendo l’imputata in precedenza negato di avere risposto al messaggio che COGNOME COGNOME le aveva inviato, per comunicarle che la sera del 10 novembre non era necessaria la sua collaborazione nel locale da lui gestito, gli inquirenti le avevano fatt constatare, non senza veemenza, il suo mendacio sul punto, convertito nella verbalizzazione della falsa accusa.
A seguito di essa, COGNOME NOMECOGNOME era stato sottoposto a fermo ai sensi dell’art. 384 cod. proc. pen., al quale era subentrata la misura cautelare della custodia in carcere. Solo a distanza di quattordici giorni le investigazioni avrebbero rivelato l’estraneità del soggetto al fatto di sangue.
Nel corso del dibattimento di primo grado era stata peraltro acquisita, ad istanza della parte civile (avanzata ai sensi dell’art. 495 cod. proc. pen.), e nonostante l’opposizione difensiva, una dichiarazione scritta e autografa z’L ), dell’imputata, risalente alle ore 13.00 del 6 novembre 2007.
Era stata la stessa NOME a farsi consegnare la carta e la penna occorrenti dal personale di polizia presente in Questura, al quale il manoscritto era stato quindi affidato.
Si trattava di un vero e proprio memoriale, in lingua inglese, in cui la giovane statunitense tornava a coinvolgere COGNOME NOMECOGNOME negli accadimenti culminati nell’omicidio di COGNOME NOME.NOME COGNOME , nei termini che saranno più oltre approfonditi.
Il memoriale era suscettibile di valere, nella prospettiva del giudice di primo grado procedente, sia come veicolo ulteriore dell’accusa calunniosa, sia come elemento dimostrativo del relativo stato soggettivo. L’atto era stato infatti acquisito, in pari tempo, quale corpo di reato (art. 235 cod. proc. pen.), nonché quale documento, probatoriamente rilevante, comunque proveniente dall’imputata (art. 237 cod. proc. pen.).
Le sentenza di appello convergeva con quella del grado antecedente nel ritenere che NOME fosse stata sottoposta a stringenti richieste di informazioni da parte degli inquirenti nei giorni immediatamente successivi al fatto di sangue (anche in quanto era l’unica delle giovani conduttrici dell’appartamento ad essere a NOME la sera dei fatti, oltre alla persona assassinata) e, in tale contesto, avesse incolpato ingiustamente NOME di delitti di cui sapeva non essere lui il responsabile.
Secondo il giudice di primo grado, l’azione dell’imputata andava inevitabilmente ricondotta alla necessità di allontanare da sé, e dal coimputato NOME COGNOME , gli elementi di esistente responsabilità che si andavano profilando a loro carico.
A parere della Corte di assise di appello, viceversa, NOME avrebbe dato in pasto agli inquirenti il nome di NOME allo scopo non di scagionarsi da un omicidio che pure non aveva commesso, ma di superare, senza ulteriori negative conseguenze, il particolare momento di insopportabile pressione psicologica, che si era venuta a creare su di lei per le esasperate insistenze operate dagli inquirenti al fine di ottenere indicazioni significative per lo sviluppo delle indagin
La sentenza di appello era impugnata dalla difesa di NOME dinanzi alla Corte di cassazione, nel capo concernente il reato di calunnia.
Con sentenza n. 26455 del 2013 la Corte suddetta, prima sezione penale, rigettava il ricorso, determinando il passaggio in giudicato, al riguardo, della statuizione di penale responsabilità.
5.1. Secondo la sentenza di legittimità, le sovrapponibili valutazioni dei giudici di merito in ordine alla configurabilità della calunnia erano riconducibil
alla solidità del dato probante, di natura documentale, in cui era scolpita la falsa incolpazione.
Sotto altro verso, era stato inappuntabilmente ritenuto che l’imputata fosse perfettamente al corrente dell’innocenza dell’accusato, in quanto ciò emergeva dal contenuto del colloquio, intercettato, svolto il 10 novembre 2007 con la madre. Non poteva quindi dare adito a perplessità il suo stato soggettivo, denotante l’assoluta mancanza di volontà di smentire presso gli inquirenti l’indicazione nominativa che aveva loro maliziosamente offerto, nonostante provasse per averlo fatto un forte rimorso.
5.2. La Corte di legittimità reputava «(i)l dato oggettivo quind assolutamente inconfutabile, come opinato in entrambi i gradi di giudizio, laddove dal punto di vista soggettivo l’argomentazione assunta, secondo cui la giovane con un comportamento estremo il nome del NOME.COGNOME. solo per uscire da una situazione di disagio intellettuale dove era stata condotta dall’eccesso di zelo e dall’ingiustificabile intemperanza degli operanti, non poteva avere fondamento» ai fini di un esito per lei liberatorio.
La calunnia è infatti ravvisabile, come la pronuncia n. 26455 del 2013 non mancava di ricordare, ogni qualvolta l’indiziato di reato, per difendersi, non si limiti a sostenere l’infondatezza dell’ipotesi di accusa formulata a suo carico, ma fornisca precise indicazioni dirette a coinvolgere la responsabilità di altri soggett di cui conosca l’innocenza, atteso che il diritto ad allontanare da sé ipotesi di responsabilità trova il suo limite nel divieto di accusare falsamente terze persone. Non poteva dunque essere invocata la scriminante dell’esercizio del diritto. Mentre la perduranza nell’atteggiamento delittuoso, scoperto solo a seguito della registrazione del colloquio con la madre, svelava l’insussistenza di uno stato di necessità, anche solo plausibilmente supposto, essendo quest’ultimo correlato ad una condizione di inevitabilità del comportamento penalmente illecito, e quindi di inesistenza di strade alternative, nel caso di specie no immaginabile.
5.3.IA.A.1, secondo la sentenza di cassazione, possedeva poi un livello socioculturale adeguato ed era perfettamente in grado di cogliere il disvalore sociale della sua condotta, pacificamente incriminata dalla legislazione statunitense.
5.4. La sentenza di legittimità affermava, infine, che la notizia calunniosa di reato ben potesse essere tratta dalle dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini preliminari, anche se inutilizzabili per il mancato rispetto di garanzie difensive, o contenute in un atto di interrogatorio nullo. Era, ciò nonostante, consentito addebitare il reato di cui all’art. 368 cod. pen. al dichiarante.
5.5. La Corte di cassazione annullava con rinvio, viceversa, la decisione assolutoria di appello in relazione all’omicidio di e ai reati
contestuali, e per l’effetto altresì demandava alla Corte di assise di appello di omissis all’uopo designata, la rivalutazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2), cod. pen. riferita alla calunnia, in precedenza esclusa.
Con sentenza 30 gennaio 2014 la Corte di assise di appello di omissis giudice del rinvio – dopo avere affermato la responsabilità di NOME (e di
I D.D. l) sull’omicidio, e sui reati contestuali per i quali era stata già pronunciata condanna in primo grado – riteneva, a proposito della calunnia, la sussistenza dell’aggravante del nesso consequenziale, adeguando la risposta sanzionatoria complessiva al mutato, e aggravato, scenario di penale responsabilità.
NOME proponeva ricorso ulteriore per cassazione, per il tramite dei suoi difensori di fiducia.
All’esito del relativo giudizio, la quinta sezione penale di questa Corte adottava sentenza (n. 36080 del 2015), con la quale:
annullava senza rinvio la condanna relativa ai capi ancora sub iudice, così prosciogliendo definitivamente l’imputata (e I D.D. I) dall’omicidio e dai delitti contestuali, per non aver commesso il fatto;
quanto alla calunnia di cui al capo F), annullava senza rinvio la condanna limitatamente all’aggravante del nesso consequenziale, che definitivamente escludeva, rideterminando la pena principale relativa a tale reato nella misura di tre anni di reclusione.
A seguito del passaggio in giudicato della condanna per calunnia, NOME aveva intanto proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciando plurime violazione della Convenzione.
Il ricorso era parzialmente accolto con sentenza pronunciata dalla prima sezione della Corte suddetta, in data 24 gennaio 2019.
La Corte EDU Corte ravvisava – in primo luogo – la violazione dell’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e di trattamento inumano e degradante), limitatamente ad un profilo procedurale.
I giudici di Strasburgo osservavano che NOME aveva ripetutamente denunciato, prima dell’apertura del processo e nel corso di esso, le modalità offensive ed aggressive degli interrogatori cui era stata sottoposta quella notte in Questura, nonché Io * stato di forte tensione emotiva e di confusione mnemonica e rievocativa che si era in lei pertanto ingenerato.
La denuncia aveva trovato significativa eco nella sentenza del 3 ottobre 2011, in cui la Corte di assise di appello di omissis aveva evidenziato l’ossessiva
durata degli interrogatori, la vulnerabilità della ricorrente, la pression psicologica da lei subita, nonché il suo stato di oppressione e di stress, tali da compromettere la spontaneità delle sue dichiarazioni.
Secondo la Corte EDU, tali denunciati comportamenti, non privi di iniziali riscontri riferiti al contesto generale in cui si era svolta l’audizione de ricorrente, avrebbero dovuto mettere in allerta le autorità nazionali sull’eventuale violazione del rispetto della dignità della persona e della sua capacità di autodeterminazione, preteso dall’art. 3 della Convenzione.
Tale disposizione avrebbe dunque imposto che, nel caso in esame, fosse condotta una indagine ufficiale effettiva, per identificare e punire i possibi responsabili.
La mancata apertura dell’indagine (alla quale non poteva considerarsi equivalente l’avvio di un procedimento penale per calunnia ulteriore, riguardo gli stessi fatti, ai danni proprio di NOME poi sfociato nell’assoluzione) determinava la condanna dell’Italia per violazione del menzionato parametro convenzionale, esclusivamente dal lato formale e strumentale.
Per quanto riguardava, invece, il profilo materiale della doglianza, la Corte EDU riteneva che non vi fossero elementi certi per poter concludere che la ricorrente fosse stata oggetto dei trattamenti inumani e degradanti lamentati.
Veniva pertanto esclusa la violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione.
La Corte EDU ravvisava – in secondo luogo – la violazione dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, lettera c), della Convenzione (diritto ad un processo equo e ad adeguata assistenza difensiva).
I giudici di Strasburgo muovevano nuovamente dal presupposto ,che le deposizioni della ricorrente del 6 novembre 2007 fossero state raccolte in un contesto di forte pressione psicologica, che non aveva potuto essere meglio chiarito nell’ambito di un’inchiesta ufficiale. Ciò nonostante, esse avevano costituito, per se stesse, il reato di calunnia ascritto alla ricorrente e, dunque, prova materiale per il suo verdetto di colpevolezza
Eppure dagli atti processuali, e in particolare dal verbale dell’audizione della ricorrente svoltasi, senza assistenza difensiva, alle ore 5.45, non risultava che a quest’ultima fossero stati comunicati i suoi diritti procedurali.
Ciò posto, la Corte EDU concludeva nel senso che il Governo italiano non fosse riuscito a dimostrare che la limitazione dell’accesso della ricorrente all’assistenza legale durante l’audizione del 6 novembre 2007 alle ore 5.45 non avesse inciso irrimediabilmente sull’equità del processo.
Infine, la Corte EDU ravvisava la violazione dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, lettera e), della Convenzione (diritto ad un processo equo e ad adeguata assistenza dell’interprete).
Secondo la sentenza europea, il ruolo svolto dall’ispettrice di polizia nominata come interprete – mentre la ricorrente, accusata penalmente ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione, esponeva la sua versione dei fatti – era andato oltre le funzioni che tale figura avrebbe dovuto assicurare.
L’interprete aveva voluto stabilire una relazione umana ed emotiva con la ricorrente, attribuendosi un ruolo di mediatore ed assumendo un atteggiamento genitoriale, che non erano assolutamente richiesti nel caso di specie.
Di qui l’accertata compromissione del diritto all’assistenza linguistica, e dell’equità del procedimento anche sotto questo ulteriore e concorrente profilo.
Divenuta definitiva la sentenza europea, ed entrato in vigore nell’ordinamento nazionale l’art. 628-bis cod. proc. pen., la difesa di NOME
attivava il corrispondente strumento processuale, diretto a conformare l’ordinamento interno alle decisioni della Corte EDU che abbiano accertato la violazione di diritti riconosciuti dalla Convenzione.
A tal fine la difesa ricorreva dinanzi alla Corte di cassazione, domandando la «eliminazione degli effetti pregiudizievoli» derivanti dalle violazioni riscontrate e sanzionate in sede di giurisdizione convenzionale.
Con sentenza n. 47183 del 2023 la Corte di cassazione, quinta sezione penale, accoglieva il ricorso per quanto di ragione.
13.1. Secondo la Corte di legittimità, il rimedio invocato, non precluso per il solo fatto che l’interessata avesse ottenuto in sede europea un equo indennizzo, presupponeva che le violazioni convenzionali avessero avuto effettiva incidenza, per natura e gravità, sul provvedimento giurisdizionale interno, tale per cui, se esse non si fossero verificate, l’esito del procedimento sarebbe stato ragionevolmente diverso.
Ciò posto, la stessa Corte reputava che non si potesse fare altro che prendere atto della portata tranchant delle affermazioni della Corte EDU.
Non si poteva negare, in particolare, che le violazioni accertate dalla Corte europea in rapporto all’art. 6 della Convenzione possedessero le menzionate incidenti caratteristiche.
Si trattava, sì, di violazioni di carattere processuale (il diritto all’assiste difensiva e a quella linguistica), tali da riflettersi, tuttavia, sull’«in sé» del di calunnia. Le violazioni, infatti, avevano condizionato in modo decisivo il momento stesso della formulazione delle accuse calunniose a carico di
NOME.B. , rese da NOMEA. senza che le venisse garantita la dovuta assistenza di un difensore, quanto alle dichiarazioni delle ore 5.45, e senza che fosse assicurata un’adeguata e corretta assistenza linguistica, quanto alle medesime dichiarazioni e a quelle antecedente delle ore 1.45.
La perentoria affermazione, in tal senso, dei giudici di Strasburgo comprometteva in modo irrimediabile entrambi gli ambiti dichiarativi, nei quali
NOME si era determinata ad accusare falsamente l’innocente
B.B.
Tale constatazione minava inevitabilmente, e in radice, la possibilità di utilizzare processualmente, quale corpo del reato di calunnia, le dichiarazioni in questione, che « essere, quindi, espunte dal materiale a carico».
13.2. Restava, però, il memoriale, ossia il documento spontaneamente vergato da NOME Io stesso 6 novembre 2007, dopo che era stata dichiarata in stato di fermo e prima che venisse condotta in carcere, e da lei consegnato ad una funzionaria della Questura di omissis
«Su tale documento», afferma la sentenza n. 47183 del 2023, «non è scesa la scure della Corte edu, che pure lo ha menzionato. Né esso può dirsi compromesso – anche solo indirettamente – dalla violazione del diritto all’assistenza difensiva e del diritto all’assistenza linguistica».
«Riguardo al primo versante», prosegue la quinta sezione penale, «non si tratta di una dichiarazione resa oralmente dinanzi agli inquirenti – polizia giudiziaria o pubblico ministero – ma di uno scritto che la A.A. ha voluto, di propria iniziativa, redigere. Da questo punto di vista non pare che vi siano incertezze, considerato che la Corte sovranazionale è stata attenta a circoscrivere il bersaglio delle critiche basate sulla violazione del dirit all’assistenza difensiva al solo verbale delle ore 5.45».
«Quanto al secondo versante, quello dell’assistenza linguistica», è l’ulteriore sviluppo del ragionamento, «il documento è stato redatto in inglese, il che esclude in radice che vi siano implicazioni che lo riguardino legate alle anomalie rilevate dalla Corte edu nell’assistenza linguistica apprestata alla IA.A. F>.
13.3. Rispetto al memoriale, si trattava comunque:
di stabilire l’eventuale collocazione delle dichiarazioni ivi contenute nel novero di quelle ascritte come calunniose, giacché in giudizio il manoscritto era stato ripetutamente richiamato, ora solo come momento probatoriamente significativo, ora come vero e Proprio corpo del reato di cui all’art. 368 cod. pen.;
in tale seconda opzione, di ricostruire il contenuto ed il senso delle dichiarazioni medesime, onde appurarne l’effettiva natura calunniosa a fronte di affermazioni in proposito non sempre congruenti tra loro; a fronte di una lettura giudiziale degli accadimenti, secondo cui il manoscritto si ponesse quale momento di ulteriore reiterazione della falsa incolpazione dell’innocente, era
anche emersa (specialmente nell’impostazione data dalla Corte EDU) la possibile ricostruzione, per la quale il manoscritto contenesse una smentita delle accuse antecedenti.
La Corte di cassazione, non potendo dirimere essa stessa, in prima analisi, tali questioni, ne rimetteva la soluzione alla Corte di assise di appello di omissis ordinando la riapertura del processo dinanzi ad essa in relazione alla calunnia, previa revoca, nella parte corrispondente, delle sentenze di legittimità già intervenute e previo annullamento con rinvio, negli stessi limiti, della sentenza della Corte di assise di appello di omissis del 3 ottobre 2011.
La Corte di assise di appello di omissis si è pronunciata con sentenza 5 giugno 2024, in epigrafe richiamata.
Il giudice territoriale ha anzitutto delimitato il suo campo di indagine, affermando di essere chiamato a celebrare nuovamente il giudizio di merito sulla calunnia, «onde verificare la resistenza della pronuncia di condanna all’azione demolitoria della Corte edu», nei termini indicati dalla sentenza rescindente di legittimità.
Il suo precipuo compito sarebbe quello di «stabilire se il giudizio di colpevolezza a carico dell’imputata , una volta espunte dal materiale utilizzabile le dichiarazioni verbali rese da NOME alle ore 01:45 e alle ore 05:45 del 6 novembre 2007, possa essere confermato».
I passaggi motivazionali successivi della sentenza in epigrafe possono essere quindi sintetizzati, come segue.
15.1. L’interpretazione del contenuto del memoriale, data dalla Corte EDU nel senso della ritrattazione delle dichiarazioni accusatorie già rese verbalmente agli inquirenti, non è vincolante, e il giudizio odierno non è limitato ad una presa d’atto di tale impostazione.
Se fosse altrimenti, la riapertura del giudizio di merito, ordinata dalla Corte di cassazione, non avrebbe senso.
15.2. La sentenza europea ha accertato violazioni della Convenzione che non riguardavano il memoriale, scritto nella lingua madre dell’imputata (l’inglese), da ritenere pienamente utilizzabile, ai sensi dell’art. 237 cod. proc. pen., quale documento proveniente dall’imputata medesima, che ne era stata spontanea autrice materiale.
Quest’ultima circostanza era stata confermata dalla stessa RAGIONE_SOCIALE nel corso del suo esame dibattimentale, svolto dinanzi alla Corte di assise di primo grado all’udienza del 12 giugno 2009. L’imputata aveva, in detta sede, negato di avere
ricevuto indicazioni, o di avere subito condizionamenti da parte della polizia o di chiunque altro, all’atto della stesura del documento.
15.3. Il memoriale era stato acquisito, nel giudizio di primo grado, all’udienza del 6 febbraio 2009, ed era stato acquisito, oltre che come documento proveniente dall’imputata, quale corpo del reato di calunnia.
15.4. Nel memoriale, NOME accusa ancora, falsamente, NOME di essere l’assassino di NOME.
La falsa incolpazione è esplicita («Nel flashback che sto avendo, vedo NOME come l’assassino…») e la ripetuta rappresentazione della scena tra la realtà e l’irrealtà, in una irrisolta oscillazione tra il certo, il dubitativo e l’on considerata un mero escamotage, che non incrina la configurabilità della calunnia sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
15.5. Sotto il profilo oggettivo, la calunnia è reato di pericolo ed è sufficient che la condotta dell’agente sia idonea a far insorgere il rischio di un procedimento penale a carico del soggetto falsamente incolpato.
Nella specie, la falsa accusa non era a prima vista inverosimile, grottesca o assurda, e poco importava che il calunniato fosse stato già, alle ore 8.30 del mattino, sottoposto a fermo dopo essere stato additato come omicida, dalla stessa RAGIONE_SOCIALE.A.1, nelle dichiarazioni verbali della notte.
15.6. Sotto il profilo soggettivo, il delitto di calunnia è integrato anch quando la responsabilità penale di un terzo sia maliziosamente prospettata in forma dubitativa, se il denunciante è consapevole dell’innocenza della persona indicata come reo.
Ebbene, NOME era perfettamente consapevole dell’innocenza di NOME. Ella era all’interno dell’abitazione della vittima al momento dell’omicidio, ben sapendo dunque che lì NOME non si trovava. L’urlo straziante della vittima, chiaramente avvertito da testimoni, è stato riportato da NOME agli inquirenti prima ancora che quei testimoni fossero ascoltati. perché in casa. NOME poteva averlo udito solo
NOME
Nel colloquio del 10 novembre 2007, intercorso tra NOME e sua madre in carcere, intercettato, l’imputata si dice perfettamente conscia di avere coinvolto nella vicenda una persona perfettamente estranea.
La piena coscienza di avere accusato un innocente traspare altresì dalle conversazioni con i familiari, captate il 13 e il 17 novembre.
Ciò nonostante, NOME tace la circostanza con gli inquirenti, nulla rivelando loro in proposito, né nell’interrogatorio dell’8 novembre (in sede di convalida del proprio fermo, ove si avvale, della facoltà di non rispondere), né più oltre.
NOMECOGNOME era in carcere, ma l’imputata non faceva alcunché per scagionarlo, non mostrava di nutrire dubbi o incertezze su di lui, o di essere in confusione.
15.7. Il movente della calunnia andava rinvenuto nel tentativo di NOME unica delle coinquiline di NOME presente a omissis la sera dell’omicidio, di distogliere da sé i sospetti, dirigendoli ingiustamente verso una terza persona.
E’ per questo che NOME neppure nei giorni seguenti l’arresto di NOME ritrattava la falsa incolpazione, pur consapevole di tale sua natura e pur pervasa dai sensi di colpa.
La Corte di assise di appello di omissis ha così ribadito la condanna per calunnia, aggravata ai sensi dell’art. 368, secondo comma, cod. pen., escluso il solo nesso consequenziale rispetto all’omicidio e ai reati contestuali.
Ferme le attenuanti generiche in rapporto di equivalenza, la Corte di merito ha infine quantificato la pena principale, attestandola alla misura già precedentemente stabilita di tre anni di reclusione, e ha confermato le statuizioni civili.
Avverso la sentenza testé richiamata NOME A.A. NOME I, con il ministero dei suoi difensori di fiducia, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, ricorre ora per cassazione.
Il ricorso è strutturato in quattro motivi, di seguito illustrati nei l strettamente funzionali alla loro comprensione e compiuta disamina (art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.).
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., e il vizio di motivazione, avendo la sentenza impugnata, a suo dire, omesso di conformarsi alla sentenza rescindente con riferimento al duplice profilo di demandata valutazione, nel quadro del procedimento di cui all’art. 628-bis cod. proc. pen.
La Corte di legittimità aveva affidato al giudice di merito il compito di verificare, in primo luogo, se il memoriale costituisse corpo del reato. Solo in caso affermativo, si sarebbe dovuto passare alla valutazione dell’idoneità calunniosa dello scritto e al riscontro dell’elemento soggettivo.
Stabilire, dunque, se il memoriale facesse parte del compendio dichiarativo criminoso, o si trattasse soltanto di un elemento probatorio di contorno, di un post factum non determinante, era essenziale.
La Corte di assise di appello di omissisnon avrebbe affatto compreso il punto e avrebbe reso al riguardo una motivazione apparente, en passant, facendo sostanzialmente derivare la natura di corpo di reato del memoriale dalla
sua ritenuta attitudine calunniosa, con censurabile inversione del ragionamento logico.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla natura di corpo del reato assegnata al memoriale, in contrasto con le emergenze processuali.
20.1. In esordio, la difesa rammenta che l’imputazione originaria non conteneva l’assunto che la calunnia fosse stata commessa attraverso il memoriale, facendo la contestazione esclusivo riferimento alle dichiarazioni (verbali) rese da NOME in Questura. Tanto ciò era vero che, al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento, il memoriale non vi era confluito. E, sulla formazione del fascicolo, nessuna parte aveva sollevato obiezioni entro il termine di cui all’art. 491, comma 2, cod. proc. pen.
Il manoscritto faceva la sua comparsa all’udienza dibattimentale del 16 gennaio 2009, come produzione documentale del patrono di parte civile, che la Corte di assise avrebbe formalmente ammesso solo ai sensi dell’art. 237 cod. proc. pen., ossia come documento proveniente dall’imputata. La sua possibile rilevanza come corpo del reato sarebbe stata solo ipotizzata dalla Corte di assise, ma l’acquisizione non sarebbe avvenuta su base legale corrispondente, ossia a norma dell’art. 235 del medesimo codice.
20.2. Se si fosse trattato di corpo del reato (id est, di un ulteriore momento consumativo del reato di calunnia), del resto, l’iniziativa di far acquisire memoriale, sia pure tardivamente a dibattimento in corso, sarebbe spettata al solo Pubblico ministero, che avrebbe anche dovuto contestare il fatto nuovo ai sensi dell’art. 518 cod. proc. pen., circostanza mai avvenuta.
Era insomma chiara la natura del memoriale, quale documento probatoriamente rilevante, acquisito sotto questo assorbente profilo e valutabile, ove processualmente utilizzabile, sia a carico che a discarico; e, invece, giammai quale mezzo (ulteriore) di perpetrazione della calunnia, e quindi parte integrante della relativa condotta criminosa di ordine sostanziale.
20.3. La sentenza di primo grado avrebbe richiamato il manoscritto solo per escludere che le dichiarazioni verbali precedenti fossero state sollecitate e forzate dagli inquirenti. Per la Corte di assise, dunque, il memoriale non rappresenterebbe «una porzione della condotta di calunnia», ma un elemento di conferma dell’accusa, particolarmente dal lato dell’elemento psicologico.
La sentenza di appello del 3 ottobre 2011 ne avrebbe rimarcato la natura «non genuina», negando però che tale valutazione potesse inficiare l’apprezzamento sul carattere calunnioso delle dichiarazioni verbali, le sole attraverso cui il reato sarebbe stato commesso.
La prima sentenza di cassazione sarebbe tornata ad utilizzare il memoriale come mero elemento probatorio, riferibile alla condotta in imputazione contestata, riprendendo la valutazione di primo grado circa la condizione di tranquillità e serenità in cui NOME si sarebbe trovata all’atto della stesura d documento. La replicazione delle accuse, ivi intervenuta, avrebbe dato semplicemente la conferma del fatto che il contesto dichiarativo originario, in cui la calunnia risiedeva, fosse immune da pressioni psicologiche.
A conclusioni analoghe sarebbe giunta, incidentalmente, la sentenza del giudice di rinvio del 30 gennaio 2014 (quantunque la calunnia, in sé, non fosse più sub iudice).
20.4. La difesa menziona, in chiusura di motivo, la sentenza del Tribunale di Firenze del 14 gennaio 2016 (di assoluzione di NOME dall’imputazione di calunnia ai danni degli operatori di polizia) e la sentenza della Corte EDU.
La prima decisione avrebbe stigmatizzato l’influenza che l’atteggiamento scorretto dei poliziotti e dell’interprete avrebbe avuto sulle dichiarazioni verbal dell’imputata, anticipando così il verdetto europeo, che addirittura qualificava il memoriale come una «ritrattazione», traendo da ciò conferma della coartazione psicologica patita da NOME durante la notte in Questura, e quindi della non equità del procedimento penale avente ad oggetto la calunnia ai danni di NOME imperniato sulle corrispondenti dichiarazioni.
20.5. All’esito della ricognizione di tutte tali pronunce, andrebbe recisamente esclusa la collocazione del manoscritto nel perimetro della contestazione, e della conseguente condanna a suo tempo pronunciata.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 368 cod. pen. e il vizio della motivazione in relazione all’affermata sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi della calunnia.
21.1. A torto il memoriale sarebbe stato valutato come elemento avulso dal contesto, «quasi immerso in un iperuranio epistemico artatamente costruito e dunque del tutto fittizio».
Le dichiarazioni verbali anteatte andavano espulse dal materiale a carico (come imposto dalla sentenza rescindente di legittimità, in ossequio ai dicta della Corte EDU), ma andavano apprezzate per comprendere la situazione di fondo, di condizionamento psicologico e negata libertà morale che aveva vissuto NOME nel rilasciarle (accertata anche dal giudicato europeo), che era la medesima situazione dalla quale originava il memoriale di poche ore successivo, inquinato alla stessa stregua e non valutabile a sostegno di un qualsivoglia addebito di natura penale.
21.2. Risulterebbe dunque palese come il memoriale non potesse considerarsi il veicolo di accuse dotate di precisione e serietà, né documento dal carattere reale e tangibile. Il contrario opinamento del giudice territoriale sarebbe completamente immotivato.
Se riguardato nella sua essenza, con approccio d’insieme, il manoscritto sarebbe apparso nella sua reale consistenza: un documento confuso, infarcito di dubbi, che sul piano oggettivo costituiva non già rinnovazione dell’incolpazione, ma il tentativo disperato di correggere le dichiarazioni precedenti, ottenute in violazione dei diritti umani. La Corte EDU, incredibilmente «irrisa» sul punto dalla sentenza impugnata, lo aveva infatti valutato come atto di ritrattazione dell’accusa.
21.3. Proprio per la sua natura di atto di ritrattazione, integrante un «dietrofront narrativo», e per nulla dunque un escamotage, il memoriale non era neppure concretamente idoneo, in quanto tale, a determinare l’avvio di un procedimento penale.
21.4. In aggiunta, la calunnia tramite memoriale andava ritenuta non prefigurabile per una ulteriore ragione squisitamente giuridica.
La pretesa accusa, ivi veicolata, era già stata portata a conoscenza dell’Autorità giudiziaria. Il pericolo di incriminazione si era già inverato e condotta dell’imputata risultava inoffensiva.
21.5. Dal lato psicologico, il reato sarebbe parimenti da escludere.
All’interno di un procedimento di recepimento, sul piano nazionale, di una condanna europea, il giudice procedente avrebbe trattato il tema della condizione psico-fisica di NOME sottoposta a lunghi ed estenuanti interrogatori notturni, estremamente confusa e spaventata, «in maniera chirurgica», come se la violazione dei suoi diritti fondamentali e le pressioni subite potessero essere sottoposte ad un assurdo «cherry picking» (processo di indebita selezione dei soli elementi a favore della tesi che si intende dimostrare), per il quale lo stato d prostrazione dell’imputata potesse essere considerato rilevante per un momento temporale, e non anche per quello successivo e al primo strettamente connesso.
Lo stato soggettivo compromesso viceversa perdurava, influendo negativamente sull’animus caluniandi. Il fatto che NOME si fosse fatta consegnare i fogli di sua iniziativa sarebbe irrilevante, perché espressivo, sul piano logico della mera volontà di dichiarare, e non di una libera volontà di accusare.
L’intenzione dell’imputata era quella di ritrattare, come risulterebbe dalla decisione della Corte EDU, dalla sentenza del Tribunale di omissis del 14 gennaio 2016, dalle dichiarazioni rese da NOME nel giudizio a quo e dalle trascu{ate memorie difensive ivi depositate.
21.6. Sotto il profilo specifico della consapevolezza dell’innocenza, infine, non si riuscirebbe a comprendere come tale dato potesse essere inferito dalla supposta presenza in casa dell’imputata al momento dell’omicidio (che, peraltro, il memoriale neppure accrediterebbe).
Anche le sentenze, che nel processo già celebrato hanno considerato appurata una tale presenza, non avrebbero mai affermato, o lasciato credere, che NOME solo perché presente, dovesse necessariamente conoscere l’identità di eventuali altre persone che si fossero trovate nelle altre stanze dell’appartamento.
Solo l’essere lei stessa l’assassina poteva darle la certezza di stare accusando una persona innocente. Ma NOME non era l’assassina, come giudizialmente accertato, e la difesa ricorrente si rifiuta di credere che la Corte di merito abbia nutrito al riguardo un indicibile retropensiero.
21.7. Se non vi è consapevolezza dell’innocenza, non si può incorrere nel reato di calunnia.
Il fatto che NOME non nutrisse questa consapevolezza trasparirebbe altresì, in modo netto, da numerosi passaggi della sentenza della Corte EDU, nel motivo trascritti.
22. Con il quarto motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. e il vizio della motivazione in relazione alla dosimetria della pena.
La sentenza impugnata sarebbe, al riguardo, mera fotocopia del precedente giudicato, ma non terrebbe conto, in chiave retrospettiva, degli elementi in seguito conclamati, e quindi della lesione dei diritti fondamentali dell’imputata accertata dalla Corte EDU, avente diretta ricaduta sull’intensità del dolo.
La logica avrebbe imposto un ridimensionamento della pena anche per la ragione che il perimetro oggettivo della calunnia (espunte dal suo ambito le dichiarazioni verbali) si era inevitabilmente ristretto.
23. In vista della trattazione odierna del ricorso in pubblica udienza, la difesa di parte civile ha depositato articolata memoria, mediante la quale argomenta a sostegno della sentenza impugnata.
Nella memoria è minuziosamente ripercorso l’iter processuale, allo scopo di far risaltare, per quanto di maggiore e peculiare interesse in questa sede, la natura calunniosa del memoriale e la sua genetica acquisizione al processo in quanto atto consumativo del reato, i cui elementi costitutivi sarebbero perfettamente conclamati sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
Nella discussione orale le parti hanno illustrato le relative posizioni e ragioni, rassegnando le conclusioni in epigrafe trascritte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il complesso di rimedi regolato dall’art. 628-bis cod. proc. pen., inserito dall’art. 36, comma 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – come puntualmente ricordato dalla sentenza rescindente di legittimità, n. 47183 del 2023 – risponde alle sollecitazioni sovranazionali, che esigevano l’introduzione, nel nostro diritto processuale, di meccanismi che dessero esecuzione alle decisioni definitive della Corte EDU, in ossequio al disposto dell’art. 46, paragrafo 1 della Convenzione, secondo cui «(l)e Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti».
In questo contesto assumeva particolare rilievo la Raccomandazione del 19 gennaio 2000 del RAGIONE_SOCIALE, che aveva affermato la necessità che gli Stati soccombenti dinanzi alla Corte di Strasburgo non provvedessero solo a versare somme a titolo di equa soddisfazione ai ricorrenti vittoriosi, ma anche ad adottare ogni misura che, adattandosi alle peculiarità del caso concreto, fosse idonea a porre fine alla violazione constatata.
La Corte costituzionale e la Corte di cassazione avevano, nel frattempo, adattato alcuni istituti del codice di rito, votati ad altri scopi, convertendol strumenti volti a dare seguito alle decisioni della Corte europea, ma l’intervento del legislatore si imponeva per esigenze di certezza e stabilità dell’ordinamento, nel quadro dei principi di tassatività ed eteronoma regolamentazione dei mezzi di impugnazione, tanto più se di natura straordinaria.
La fisionomia del polivalente modello processuale di nuovo conio è stata convenientemente delineata nella menzionata sentenza rescindente e in questa sede si torna in argomento al solo scopo, utile ai fini del preliminare inquadramento generale dei motivi di ricorsi odierni, di far ulteriormente risaltare una delle caratteristiche salienti del nuovo istituto, che è quella di accentrare nella Corte di cassazione la valutazione preliminare del dictum europeo, nonché l’apprezzamento della sua reale incidenza sulla pronuncia definitiva nazionale e così anche della necessità effettiva di rimuoverla o emendarla, e in quali forme ed eventuali limiti, in modo da sanare il vizio accertato in sede sovranazionale.
Come esplicitato nella Relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, si è trattato di una scelta coerente con i criteri direttivi della legge delega n. 134 de 2021 (con particolare riferimento al comma 13, lett. o), del suo art. 1), che imponevano di «dare esecuzione al triplice obbligo di neutralizzazione e
rivalutazione della sentenza e di riapertura del procedimento derivante dalla sentenza europea di condanna alla restitutio in integrum, conservando però un ragionevole margine di apprezzamento a tutela del giudicato nazionale».
Quest’ultimo è dunque da considerare cedevole, in stretto rapporto con la pronuncia europea accertativa della violazione convenzionale e nei soli limiti segnati dall’esigenza di rimozione dei relativi effetti pregiudizievoli in seno all’ordinamento interno.
Per principio consolidato, maturato sotto il vigore dell’istituto della c.d revisione europea, introdotto con sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011 (con cui il rimedio di cui all’art. 628-bis cod. proc. pen. si pone nel ricordato rapporto di continuità), la riapertura del processo non è, infatti, consentita in assenza di esito favorevole ottenuto dall’interessato dinanzi alla Corte EDU, da attuare in Italia (Sez. 5, n. 7918 del 13/12/2018, dep. 2019, Di Dato, Rv. 275628-01; Sez. 1, n. 56163 del 23/10/2018, COGNOME, Rv. 274557-01; Sez. 2, n. 40889 del 20/06/2017, COGNOME, Rv. 271198-01; v. anche Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278054-01), né può spingersi oltre il confine segnato dal predetto accertamento favorevole.
Alla Corte suprema nazionale è dunque affidato, in linea con la sua vocazione istituzionale, e a garanzia dell’equilibrio di un sistema di tutela multilivello, il compito di tracciare il relativo perimetro.
Nella vicenda che ci occupa, il compito è stato puntualmente assolto dalla sentenza di cassazione n. 47183 del 2023, che ha dato impulso al giudizio a quo
La decisione rescindente ha dunque già previamente operato – con effetti vincolanti sull’ulteriore corso del procedimento, connaturali al ruolo della giurisdizione di vertice e alle ragioni del suo previsto intervento nella fattispeci – la ‘delimitazione del confine’, entro il quale il giudicato interno sarebbe stat suscettibile di doverosa rivisitazione.
3.1. In tale decisione è stato già osservato e ritenuto come la Corte EDU avesse dichiarato integrate:
la violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il solo aspetto procedurale, per avere lo Stato italiano ricusato di promuovere un’opportuna inchiesta tesa ad appurare la consistenza effettiva dei prefigurati abusi, potenzialmente inquadrabili in tale ambito, ai danni di persona che, come NOME risultava trattenuta negli uffici di polizia per ragioni di giustizia penale, sen dunque che l’esistenza dei trattamenti inumani e degradanti, e quindi la violazione materiale del parametro in questione, potessero dirsi in realtà accertati;
la violazione dell’art. 6, paragrafo 3, lett. c), della Convenzione concernente il diritto di «difendersi personalmente o con l’assistenza di un difensore di propria scelta », quanto alle dichiarazioni rese da A.A.
alle ore 5.45 del 6 novembre 2007;
la violazione dell’art. 6, paragrafo 3, lett. e), della Convenzione concernente il «diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata» nella procedura, quanto ad entrambe le audizioni notturne.
Ha già valutato poi la quinta sezione penale di questa Corte che, mentre la prima violazione non poteva, per la sua essenza, riverberarsi sul giudicato riguardante la calunnia e sulla relativa tenuta, le violazioni ulteriori – così com apprezzate dalla Corte EDU, in un contesto che a quest’ultima era comunque apparso anche influenzato dal contegno tenuto dagli inquirenti quella stessa notte e dalle condizioni soggettive dell’interessata – avessero compromesso l’equità del procedimento in quel giudicato sfociato.
La calunnia ai danni di NOME , definitivamente accertata, risultava infatti certamente perpetrata attraverso i narrati oggetto di quelle stesse dichiarazioni ed audizioni, che per la Corte sovranazionale risultavano assunte in spregio alle garanzie procedurali assicurate dalla CEDU.
Il processo andava pertanto nuovamente celebrato, dovendo i narrati in questione essere espunti dal campo di consumazione del reato.
3.2. Il dovere di conformazione del giudicato interno alle statuizioni della Corte europea, secondo quanto irretrattabilmente deciso, assume questo preciso orizzonte, né può, come osservato, valicarlo.
La rinnovazione del giudizio si rendeva dunque necessaria, perché la configurabilità della calunnia potesse essere rivalutata, e lo fosse prescindendo dai contenuti narrativi la cui acquisizione aveva attirato le censure dei giudici di Strasburgo.
Bisognava in effetti verificare e statuire se, nel campo della consumazione, potesse rientrare un ulteriore comportamento, eventualmente compreso nel perimetro della contestazione e suscettibile di rilievo calunnioso, consistito nella stesura del memoriale, consegnato da NOME agli inquirenti alle ore 13.00 del 6 novembre 2007.
3.3. E’ noto che la presentazione di plurimi atti di consapevole falsa incolpazione, nei confronti della medesima persona e per lo stesso crimine, realizza una unitaria calunnia quando il contenuto dell’atto ulteriore, penalmente rilevante se isolatamente compiuto, sia solo diretto a ribadire l’iniziale accusa (da ultimo, Sez. 6, n. 3368 del 09/01/2018, Muglia, Rv. 272159-01).
La sentenza rescindente afferma chiaramente, ponendo un punto fermo al riguardo, come le violazioni convenzionali, accertate dalla Corte di Strasburgo, si riferissero solo all’operato delle Autorità italiane preposte alle investigazioni allorché NOME rilasciò ad esse, durante la notte, dichiarazioni a vario titolo raccolte a verbale.
La stessa sentenza inappuntabilmente constata come nessuna statuizione risultasse adottata dal giudice europeo, che potesse associare le violazioni medesime, o infrazioni convenzionali di qualunque altro genere, alla compilazione del memoriale e al contesto procedurale, cronologicamente posteriore e ontologicamente distinto, anche sotto il piano delle garanzie spettanti all’accusato, in cui la compilazione era avvenuta.
Si tenga presente che il memoriale era stato redatto, d’iniziativa dell’imputata, nella sua lingua madre, sicché la preventiva nomina dell’interprete non sarebbe stata invero possibile, né concretamente utile. Quanto all’assistenza difensiva, è la stessa ricorrente che aveva riconosciuto (v. sentenza Corte EDU, § 144) che, alle ore 8.30 del 6 novembre 2007, molte ore prima della consegna del memoriale, un avvocato di ufficio era stato nominato. Tanto è vero che sempre la ricorrente aveva dedotto, in sede europea, di essere stata privata di tutela legale con specifico ed esclusivo riferimento ai precedenti interrogatori e alle audizioni notturne, e l’impatto dell’utilizzo di tali sole prove sull’equità procedimento aveva contestualmente denunciato (v. sentenza da ultimo citata, §§ 141 e 144).
Era dunque fondamentale stabilire il ‘peso’ che il confezionamento del manoscritto aveva assunto nell’economia dell’incriminazione, e dell’accertamento che ne era conseguito, nell’ambito di una calunnia, quale quella ai danni di NOME
, eventualmente manifestatasi sotto forma di reato plurisussistente.
Gli indicati rilievi sono ben accordati al sistema di tutela dei diritti uma delineato dalla Convenzione e appaiono pienamente rispettosi degli obblighi di conformazione al giudicato sovranazionale, gravanti sugli Stati membri del Consiglio d’Europa. I rilievi sottendono infatti il giusto concetto, secondo cui i giudicato interno è, al cospetto, recessivo nella misura funzionale ad assicurare il primato del diritto convenzionale (Corte cost. n. 113 del 2011), una volta tuttavia che questo abbia formato oggetto di pertinente ricognizione e di direttà applicazione al caso concreto. Ciò presuppone che l’intervenuta violazione dei relativi precetti sia stata constatata all’esito di puntuale e specifico accertamento di tipo contenzioso (salvo l’unilaterale riconoscimento in sede europea da parte dell’Autorità nazionale), in mancanza del quale, od oltre i limiti del quale, la rivisitazione del giudicato deve ritenersi preclusa.
Quel che la quinta sezione penale di questa Corte aveva dunque demandato al giudice del rinvio, con la sentenza n. 47183 del 2023, era appunto di sottoporre il giudicato sulla calunnia a ‘prova di resistenza’ rispetto pronunciamento demolitorio della Corte EDU, alla luce delle considerazioni dianzi svolte.
Tale missione, che il giudice a quo ha peraltro correttamente identificato, si sarebbe dovuta svolgere attraverso due passaggi valutativi cruciali, intorno ai quali si imperniano le fondamentali doglianze della difesa ricorrente.
Il primo e pregiudiziale passaggio valutativo avrebbe permesso di appurare se il memoriale fosse realmente compreso nel perimetro della contestazione e costituisse quindi, esso stesso, ‘corpo’ del reato di calunnia ai danni di I B.B. ossia (art. 253, comma 2, cod. proc. pen.) oggetto materiale mediante il quale il reato fosse stato portato a (ulteriore) consumazione.
Si trattava di un apprezzamento inevitabilmente retrospettivo, stante lo sbarramento che il giudicato già intervenuto avrebbe frapposto a qualunque ipotesi di implementazione dell’accusa sulla quale esso era stato costruito (arg. ex Sez. 5, n. 44998 del 09/06/2016, Spera, Rv. 268196-01).
Il secondo passaggio valutativo, che si sarebbe dischiuso in caso di apprezzamento pregiudiziale non ostativo, avrebbe consentito di riconsiderare funditus la natura calunniosa del memoriale, ancorché isolatamente riguardato, e la conclusiva possibilità di ritenere integrata la calunnia, in tutti i suoi eleme costitutivi, sulla sua sola base.
A tale successiva favorevole delibazione era legato il mantenimento del giudicato di penale responsabilità.
Le argomentazioni che precedono consentono di introdurre la disamina dei primi due motivi di ricorso, mediante i quali la difesa di COGNOMENOME si duole, da un lato, della motivazione carente e/o sbrigativa con cui il giudice del rinvio avrebbe affrontato il primo snodo valutativo, e dall’altro investe con critica diretta la bontà della soluzione al riguardo attinta.
Si tratta di censure tra loro strettamente connesse, meritevoli pertanto di trattazione congiunta.
La prima notazione che può svolgersi sul punto è che la sentenza impugnata non ha, in verità, eluso la risposta al quesito inerente «l’eventuale collocazione delle dichiarazioni del manoscritto nell’ambito di quelle calunniose e, quindi, la loro natura di corpo del reato».
Essa, al contrario, afferma testualmente che il memoriale rivestisse a pieno titolo siffatta natura, e lo afferma richiamando la circostanza che, come tale, il documento era stato acquisito sin dal dibattimento di primo grado.
Vero è che l’argomentazione al riguardo appare laconica, né il tema ha formato oggetto di ulteriore specifico approfondimento ad opera del giudice di rinvio.
Tale constatazione non è tuttavia sufficiente ad invalidare il pronunciamento. Quel che, in fondo, era rimessa al predetto giudice era l’analisi di un fatto processuale, tale òefinibile in quanto attinente alla perimetrazione del tema di accusa e di decisione nel processo già concluso, alla corrispondenza dei due estremi e – in via consequenziale – al rispetto delle prerogative difensive in proposito.
Evidenti esigenze di unitarietà dell’accertamento avevano suggerito a questa Corte di sottoporlo a delibazione pregiudiziale, in sede rescissoria congiunta a quella di revisione complessiva del giudicato.
In quanto fatto processuale, questa stessa Corte, nell’ambito del controllo istituzionale da essa ulteriormente sollecitato, è tuttavia abilitata a prenderne diretta cognizione, eventualmente anche accedendo al fascicolo di causa e agli atti in esso contenuti (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, COGNOME, Rv. 22009201; Sez. 1, n. 8521 del 09/01/2013, NOME, Rv. 255304-01; Sez. 4, n. 47891 del 28/09/2004, COGNOME, Rv. 230568-01).
Ciò che del resto rileva in sede di legittimità, rispetto ad un provvedimento che risolve una questione sul rito, in detta sede impugnato, è piuttosto la bontà della soluzione attinta, e non la completezza della motivazione che la sorregga.
Per univoco orientamento, infatti, qualora sia sottoposta al vaglio della Corte di cassazione la correttezza di una decisione che involge l’iter processuale, la Corte stessa è giudice dei presupposti di tale decisione, sui quali esercita il proprio sindacato, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla (Sez. U, n. 5 del 26/02/1991, COGNOME, Rv. 186998-01; Sez. 5, n. 17979 del 05/03/2013, COGNOME, Rv. 255515-01; Sez. 5, n. 15124 del 19/03/2002, COGNOME, Rv. 22132201) e, al limite, anche ove la giustificazione sia del tutto mancata.
La conclusione raggiunta dal giudice a quo, nel senso dell’intervenuto ‘arricchimento’ in giudizio dell’addebito di calunnia, estesosi sino a ricomprendere il memoriale nella fenomenologia delittuosa, è saldamente ancorata alle risultanze processuali.
Contrariamente agli assunti della difesa ricorrente, il memoriale fu acquisito, dal giudice di primo grado, anzitutto come corpo del reato di calunnia, e solo secondariamente come documento, proveniente dall’imputata, dotato di rilievo ,
probatorio (in particolare, ai fini del riscontro dell’elemento soggettivo del reat stesso), e ciò risulta in modo incontestabile dalla sentenza di primo grado (v. la sua pag. 6 e quanto già esposto al § 3 della parte narrativa della decisione odierna).
Non ha alcun rilievo la circostanza che il manoscritto non fosse originariamente contenuto nel fascicolo del dibattimento, che non sia stata fatta questione nei termini sul contenuto di quest’ultimo e nemmeno che l’acquisizione debba farsi risalire all’iniziativa della parte civile, assunta solo in sede di richie di ammissione delle prove. La scansione processuale degli eventi risente del fatto, incontroverso, per cui l’imputazione originaria di calunnia si risolveva nell sole antecedenti dichiarazioni verbali. Era, tuttavia, proprio la successiva attribuzione al documento della natura di corpo di reato (in quanto tale obbligatoriamente sequestrabile, qualunque fosse la persona che lo avesse formato o lo detenesse: Sez. 2, n. 50175 del 25/11/2015, COGNOME, Rv. 26552601) che implicava, giocoforza, l’identificazione del documento e del suo contenuto quale porzione ulteriore della condotta di consumazione, nonché l’ampliamento del relativo perimetro.
Lo stesso giudice di primo grado, dopo averlo dunque acquisito (anche) come corpo di reato, aveva incluso il memoriale tra gli atti di conferma e reiterazione delle dichiarazioni accusatorie calunniose (pag. 418 della relativa sentenza), né il punto risulta rivisitato, in senso utile per la ricorrente, ne sentenza di appello del 2011.
Quest’ultima, a pag. 34, afferma che il memoriale, al pari delle dichiarazioni . in Questura, proviene da persona capace di intendere e volere, ancorché sottoposta a notevole pressione emotiva e psicologica, e spiega perché non vi sia contraddizione tra il ritenere NOME innocente rispetto all’omicidio e viceversa colpevole della calunnia. La Corte di assise di appello, in questi passaggi motivazionali, accosta il reato tanto alle dichiarazioni verbali, che al memoriale, così ratificando l’assunto che la calunnia fosse stata commessa anche per il suo tramite.
Di tale assunto giudiziale l’imputata era pienamente consapevole, al punto che, nel primo motivo dell’originario ricorso per cassazione (intitolato «violazione e falsa applicazione della legge penale, inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilità, contraddittorietà e manifesta illogicità quanto alla riten sussistenza del reato di calunnia, per carenza dell’elemento materiale e psicologico del reato»), come sintetizzato nella relativa sentenza, la ricorrente premetteva essere «stata la stessa corte ad aver ritenuto la calunnia annidarsi nelle dichiarazioni spontanee e nel memoriale della RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE, riconosciuti però come atti non rappresentativi del reale accadimento della vicenda», facendo
poi seguire alla premessa la denuncia (giudicata priva di pregio) di supposta mancanza di consequenzialità del ragionamento giudiziale.
Non a caso, dunque, la Corte di cassazione nella medesima sentenza (pag. 41) dava per scontata l’obiettività del reato di calunnia, attesa «la solidità de dato probante, di natura documentale, atteso che l’accusa venne “incartata” nel memoriale del 6.11.2007, in cui la A.A. scrisse di “vedere NOME come l’assassino” e nel verbale delle dichiarazioni spontanee rilasciate, seppure in piena notte, dall’imputata alcune ore prima, con cui ebbe ad indicare il NOME come autore dell’omicidio».
La stessa Cassazione poi, discorrendo sull’elemento soggettivo del reato, rilevava la pregnanza del dolo osservando che «l’indicazione del NOME B.B. fu tenuta ferma dopo le prime dichiarazioni e venne ribadita nel memoriale, scritto in piena solitudine e a distanza temporale rispetto ad una prima reazione non controllata, sull’onda di una pressante richiesta di un nome da parte delle forze dell’ordine» (sentenza citata, pag. 43).
E’ dunque innegabile che l’accusa si sia accresciuta nel corso del processo, in modo tale da attrarre il memoriale nel perimetro della consumazione.
L’estensione dell’imputazione non ha violato le garanzie spettanti alla difesa.
Questa Corte ha già statuito che l’accertamento nel processo di una diversa e più ampia forma di estrinsecazione della condotta criminosa, che integri la medesima figura di reato contestata, non determina violazione né del contraddittorio, né del principio di correlazione tra accusa e sentenza, quando l’enunciazione del fatto e delle circostanze ulteriori sia stata comunque operata nel corso del giudizio e si riferisca ad atti conosciuti e conoscibili dall’imputat purché il medesimo sia stato messo nelle condizioni di controbattere l’accusa ampliata e di esercitare le proprie difese, e purché il fatto omogeneo accertato costituisca uno sviluppo prevedibile di quello contestato (Sez. 2, n. 6560 del 08/10/2020, dep. 2021, Capozio, Rv. 280654-01).
Tali caratteristiche sono puntualmente ravvisabili nel caso di specie.
E, sempre a proposito della correlazione tra accusa e sentenza, ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen., è innegabile che il processo svoltosi abbia riguardato vicende obiettivamente complesse, in rapporto alle quali, come ancora si legge nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555-011), non sussiste violazione del principio allorché sia stata riconosciuta la penale responsabilità dell’imputato sul fondamento di una ricostruzione dei fatti arricchita e conformata alla stregua degli elementi emersi in istruttoria, sui quali la difesa abbia potuto contraddire.
L’odierna ricorrente, è da sottolineare ulteriormente, seppur conscia del mutamento ampliativo dell’editto accusatorio, registratosi sin dal primo grado, vi aveva prestato sostanziale e formale acquiescenza, non facendone motivo di doglianza entro la conclusione del grado di giudizio successivo, e nemmeno con il primo ricorso per cassazione e con il ricorso alla Corte EDU, sicché la questione è stata sollevata per la prima volta in questa sede processuale, mentre è no o che anche la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza – ove mai nella specie configurabile – integra una nullità a regime intermedio che, in quanto verificatasi nel primo giudizio, può essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo, restando la deduzione preclusa in ogni stato di avanzamento successivo del processo (Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017, COGNOME, Rv. 269886-01; Sez. 6, n. 31436 del 12/07/2012, COGNOME, Rv. 253217-01; Sez. 4, n. 14180 del 29/11/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 233952-01).
Non sono ravvisabili lesioni dell’equo processo, sotto il profilo considerato, neppure in ottica convenzionale.
La Corte EDU desume infatti dall’art. 6, paragrafo 3, lett. a), della Convenzione la garanzia che l’accusato sia debitamente e pienamente informato delle modifiche dell’accusa e disponga del tempo e delle facilitazioni necessarie per reagire e organizzare la sua difesa sulla base di ogni nuova informazione o variazione (sentenze nn. 61005/09, COGNOME c. Spagna, § 54; 67930/01, COGNOME e COGNOME c. Svezia; 23969/94, COGNOME c. Italia, § 61).
Secondo la stessa Corte, l’informazione sull’accusa riformulata rispetto alla contestazione iniziale può a questo punto intervenire anche nel corso del processo, con mezzi quali una estensione · formale o anche solo implicita dell’imputazione (sentenza n. 42780/98, I.H. e altri c. Austria, § 34).
Nel caso, dunque, in cui i fatti vengano estesi o riqualificati nel corso del processo, all’accusato deve essere sempre accordata la possibilità di esercitare i suoi diritti di difesa in maniera pratica ed effettiva, e a tempo debito (sentenze nn. 56396/12 e succ., COGNOME e altri c. Portogallo, § 198; 56282/09, COGNOME c. Ungheria, § 24; n. 29861/03, COGNOME c. Albania, §§ 137-138; 25444/94, COGNOME e COGNOME c. Francia , § 62).
Quel che conta è, in definitiva, che l’imputato abbia avuto la possibilità di far valere i suoi mezzi difensivi rispetto all’accusa riformulata e di contestare la sua condanna su tutti i punti di diritto e di fatto pertinenti (sentenze nn. 72916/10 Gelenidze c. Georgia, § 30; 20792/05, COGNOME c. Ucraina, §§ 39-43; 49093/99, COGNOME c. Lituania, §§ 30-33; COGNOME. e altri c. Austria, cit., §§ 36-3829082/95, COGNOME c. Ungheria, §§ 49-52).
Tale risultando, in sintetico richiamo, il quadro della giurisprudenza europea pertinente, appare evidente da quanto esposto che l’imputata NOME e la sua difesa abbiano potuto prendere debita nota degli elementi di un’accusa che si era ampliata e di dibatterli nel corso del procedimento, essendo ciò fattore dirimente per escludere violazioni convenzionali (sentenza n. 20494/04, Penev c. Bulgaria, § 41).
Dalle argomentazioni che precedono discende l’infondatezza di entrambi i motivi di ricorso, primo e secondo.
Può così passarsi allo scrutinio del terzo, articolato, motivo, mediante cui la difesa ricorrente sviluppa svariati ordini di censure.
E’ opportuno partitamente riprenderli, onde procedere ad un esame regolato e conveniente.
In via logicamente preliminare, la difesa ritiene che il memoriale non avesse contenuto calunnioso, rappresentando anzi la sede nella quale NOME sulla via di un faticoso recupero della sua lucidità mentale, avesse avviato la ritrattazione delle ingiuste accuse mosse a NOME . Come atto di ritrattazione esso era stato effettivamente valutato nella sentenza della Corte EDU.
La situazione di coartazione morale e condizionamento psicologico, cui la stessa Corte EDU si era richiamata, sarebbe stata ad ogni modo perdurante al momento della redazione del manoscritto, sicché neppure esso – nella logica della doverosa garanzia dell’equità del processo – avrebbe potuto essere posto a base di un addebito di natura penale.
La difesa evidenzia, quindi, che il documento, per le sue intrinseche note di vaghezza, fumosità e irrisolta interna contraddizione, non poteva valere quale atto contenente l’elevazione di un’incolpazione astrattamente credibile, idonea a determinare l’insorgere di un procedimento penale.
NOMECOGNOME , del resto, era stato già formalmente incriminato, in quanto ne era stato disposto il fermo già la mattina del 6 novembre 2007, e l’ulteriore condotta ipoteticamente delittuosa sarebbe da considerare inoffensiva.
Sotto il profilo soggettivo, la volontà di calunniare sarebbe stata del tutto mancante. La difesa richiama, in proposito, la già denunciata situazione di negata libertà morale della dichiarante e lo scopo del manoscritto, in tesi diretto a ridimensionare, e revoc’are in dubbio, la portata dei narrati antecedenti.
Infine, si sostiene che NOME nulla potesse sapere della presenza o assenza di NOMECOGNOME nella casa di omissis e quindi nessuna consapevolezza certa della sua innocenza potesse nutrire, non essendo lei stata comunque presente nella stanza che fu teatro dell’omicidio.
I temi così sollevati saranno distintamente trattati in prosieguo di esposizione (§§ 12-17).
12. La sentenza impugnata ha ritenuto, con ampia motivazione, che il memoriale fosse atto oggettivamente calunnioso, in quanto contenente l’indicazione esplicita e precisa che NOME fosse l’autore dell’omicidio, proiettata in un contesto (tra il sogno e la realtà, il detto e il non detto) idon semmai a conferirle ancora maggiore efficacia rappresentativa e, rispetto al destinatario, superiore capacità di convincimento e seduzione.
Si tratta di una valutazione di merito, esaustiva e coerente, sottratta come tale a rivisitazione in sede di legittimità.
Le doglianze della ricorrente sul punto mirano, infatti, a sollecitare una rilettura del fatto e una diversa valutazione del significato della prova, che non trovano cittadinanza nel giudizio di cassazione (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623-01; Sez. 2 n. 20806 del 5/05/2011, Tosto, Rv. 25036201), una volta qui constatato, come nella specie, che il ragionamento di merito sia sorretto da adeguata argomentazione, esente da errori logici e giuridici (Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989, dep. 1990, COGNOME, Rv. 182961).
E’ vero che la Corte EDU, allorché si è incidentalmente occupata del memoriale, ha dato per presupposta una diversa interpretazione del suo contenuto, ma ciò essa ha fatto sulla falsariga della linea di difesa di parte ricorrente, che ne aveva dissociato la genesi e il contenuto dagli accadimenti della notte precedente, al precipuo fine di far risaltare come questi ultimi (e soltanto loro) fossero stati indebitamente condizionati dall’operato degli inquirenti.
E’ solo su quest’ultimo aspetto, tuttavia, che la Corte di Strasburgo si è pronunciata con efficacia di giudicato, mentre il giudice europeo non ha valutato in modo diretto ed approfondito la natura e il valore del manoscritto, che si collocava fuori del suo perimetro di giudizio.
L’apprezzamento di tale Corte non era dunque vincolante nel giudizio rescissorio che si è celebrato dinanzi alla Corte di assise di appello di omissis come implicitamente, ma imperativamente (anche ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen.), ritenuto dalla sentenza rescindente (la quale, diversamente, non avrebbe ordinato la riapertura del processo, inutile se il punto fosse stato irrimediabilmente definito in sede europea), e come risulta congruente con la funzione del giudizio stesso, in rapporto ai limiti di cogenza del giudicato europeo che sono stati illustrati nei §§ 2 e 3.3 che precedono.
13. La sentenza impugnata ha ulteriormente ritenuto che A.A.
, quando scrisse di suo pugno il memoriale, nella propria lingua madre, abbia agito in piena autonomia e libertà morale.
Le contrarie deduzioni difensive, intese ad accreditare un atteggiamento pstcologico della odierna ricorrente ancora perturbato e condizionato, postulano, ancora una volta, una ricostruzione alternativa del fatto e del significato della prova, che esulano dall’ambito del sindacato di legittimità.
Tali deduzioni appaiono comunque in obiettiva contraddizione non solo con le dichiarazioni rese dall’imputata nell’esame dibattimentale svolto dinanzi alla Corte di assise di omissis all’udienza del 12 giugno 2009 (ove, rispondendo alle domande del patrono di parte civile, ella negava di avere subito pressioni o condizionamenti di alcun tipo quando aveva messo per iscritto le sue dichiarazioni, e negava che il loro contenuto fosse stato suggerito o imposto da alcuno), ma con elementi significanti ulteriori, che si traggono dalla stessa impostazione del ricorso in sede europea, quale riassunto in plurimi passaggi della relativa sentenza (si veda, esemplificativamente, il § 24, in fine, al punto 16 del testo in inglese ivi richiamato, nonché i §§ 128 e 144); impostazione secondo cui, esaurita l’assunzione delle dichiarazioni della nottata, e la relativa verbalizzazione, NOME riposò, fu quindi informata dei suoi diritti difensivi e le nominato un difensore, prendendo ella in seguito liberamente e autonomamente l’iniziativa di scrivere il memoriale.
Tanto è vero ciò che, nel ricorso europeo, l’interessata con i suoi difensori non mosse contestazioni specificamente riferite al contesto spaziale e temporale dal quale il memoriale era originato (v. supra g 3.3), non lamentò in proposito di aver subito trattamenti inumani o degradanti, né di essere stata privata di assistenza legale, o di non essersi resa conto di cosa la si stesse accusando.
Eppure, come osservato al § 7, la difesa (ricorrente dinanzi alla Corte EDU) era ben al corrente (la sentenza di cassazione n. 26455 del 2013 è realmente inequivoca in proposito) che NOME era stata condannata per calunnia anche a cause delle dichiarazioni incorporate nel memoriale.
La sentenza impugnata è conforme a diritto, nella parte in cui vi si sostiene che il reato di calunnia resti integrato anche qualora la responsabilità penale di un terzo sia maliziosamente prospettata in forma dubitativa o indiretta, sempre che il denunciante sia consapevole della innocenza di chi viene indicato come possibile reo (Sez. 6, n. 3489 del 17/02/2000, COGNOME, Rv. 217117-01).
Soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente sostenere, se non a patto di confliggere con i più elementari
principi della logica e del buon senso, la configurabilità del reato ipotizzato, o l sua ascrivibilità al denunciato, deve escludersi la materialità del delitto d calunnia (Sez. 6, n. 20064 del 03/04/2024, COGNOME, Rv. 286509-01; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, COGNOME, Rv. 259268-01; Sez. 2, n. 14761 del 19/12/2017, COGNOME, Rv. 272754-01).
Ebbene, il reiterato coinvolgimento di COGNOME NOMECOGNOME nell’omicidio, ancorché nel memoriale confusamente prospettato, non aveva nulla di irrealistico, inaudito o implausibile, come correttamente osservato dal giudice a quo, e anzi contribuì a determinare l’adozione del provvedimento giurisdizionale che, sino alla fornita dimostrazione di alibi, ne limitò la libertà personale.
Nella dolorosa vicenda per cui è processo la falsa incolpazione ruotò, dunque, su circostanze perfettamente credibili, tanto che per l’accertamento della sua infondatezza fu necessario svolgere specifiche indagini.
L’azione criminale possedeva così piena attitudine a ledere gli interessi protetti, dovendosene escludere l’inoffensività a norma dell’art. 49 cod. pen.
15. La calunnia costituisce, per pacifica opinione, un reato di pericolo.
Non è infatti necessario che la prospettazione calunniosa sfoci in una formale imputazione, e tanto meno in una condanna (quest’ultima evenienza rileva solo come aggravante), occorrendo invece soltanto che la falsa incolpazione contenga in sé gli elementi necessari e sufficienti perché possa in prospettiva determinarsi l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile (Sez. 6, n. 32325 del 04/05/2010, Grazioso, Rv. 248079-01; Sez. 6, n. 26177 del 17/03/2009, COGNOME, Rv. 244357-01; Sez. 6, n. 2715 del 10/01/1997, COGNOME, Rv. 207167-01).
Con l’elevazione dell’imputazione e l’instaurazione del processo, il bene protetto dalla norma incriminatrice non può essere posto in ulteriore pericolo, perché risulta ormai irrimediabilmente leso. Giunti a questo stadio, la reiterazione dell’accusa calunniosa, ad opera del denunciante o di terzi, può solo aggravare l’offesa e/o perfezionare gli estremi di altro reato (come, ad esempio, la falsa testimonianza, se contenuta in una deposizione giudiziale), ma non integra ulteriormente il delitto in esame.
In tal senso devono essere intesi e precisati i ripetuti arresti di questa Corte (Sez. 6, n. 29579 del 20/07/2011, COGNOME, Rv. 250746-01; Sez. 6, n. 3533 del 24/01/1983, dep. 1984, COGNOME, Rv. 163749-01; Sez. 3, n. 412 del 13/03/1967, COGNOME, Rv. 104239-01), secondo cui «perché possa integrarsi il reato di calunnia è necessario che la falsa accusa possa dare adito a un procedimento penale per un reato che non sia stato in precedenza portato a conoscenza dell’autorità», ove il principio che si è voluto così stabilire è quello
per cui non sussiste calunnia ove l’incolpazione menzognera, avendo ad oggetto lo stesso reato già comunque denunciato e perseguito, non possa neppure astrattamente fondare l’esercizio di nuova e autonoma azione penale, e quindi ulteriormente compromettere, sotto la forma della messa in pericolo,,l’interesse tutelato.
Nei confronti di COGNOME NOMECOGNOME tuttavia, quando il memoriale venne consegnato alla polizia, erano state appena avviate le indagini, ed era stata solo adottata una misura pre-cautelare, non ancora sottoposta al vaglio del giudice. La definitiva incriminazione era uno scenario ancora solo futuribile. La condotta dell’imputata risulta dunque offensiva, perché ne accentuò il rischio di verificazione.
La calunnia è, poi, reato a dolo generico, che involge la coscienza e volontarietà dell’agente di muovere la falsa accusa, unita alla consapevolezza da parte sua dell’innocenza della persona accusata.
Tali note psicologiche sono evidenziate, di norma, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive che definiscono (precedendola, accompagnandola o seguendola) l’azione criminosa, dalle quali, con processo logico deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto al tempo de condotta (Sez. 6, n. 8722 del 22/05/1991, Sanguinetti, Rv. 188340-01).
17. La sentenza impugnata appare fedele a tali principi.
Dopo aver ineccepibilmente escluso, anche sul piano dell’elemento soggettivo, che la libera determinazione dell’imputata fosse stata apprezzabilmente limitata quando il memoriale fu redaíto, la sentenza stessa ha tratto sicura dimostrazione dell’intento calunnioso dagli accadimenti immediatamente posteriori alla sua stesura.
Essa appropriatamente rileva che l’indicazione di COGNOME COGNOME come l’assassino fu mantenuta ferma anche dopo la consegna del manoscritto alle forze dell’ordine, allorché la giovane cittadina statunitense, avendo il pieno controllo di se stessa e dei suoi agiti, ricevuta assistenza difensiva e il conforto di un genitore, se realmente in buona fede avrebbe compreso la gravità della condotta posta in essere e avrebbe cercato di porvi rimedio.
Già la prima sentenza di cassazione (n. 26455 del 2013), del resto, aveva messo bene in evidenza il menzionato dato probatorio e la sua significanza in chiave di analisi retrospettiva della volontà dolosa. «Quanto meno nei giorni immediatamente successivi all’improvvida iniziativa», vi si legge a pag. 43,
1A.A.1 avrebbe potuto segnalare agli investigatori di averli portati su una falsa pista, avvalendosi del supporto del difensore», visto che, medio tempor, aveva
assunto la qualità di indagata, mentre la «perduranza in tale atteggiamento antidoveroso (scoperto solo a seguito della registrazione del colloquio con la madre)» segna la netta ed eloquente divaricazione di esso dal comportamento di chi fosse stato indotto a tenerlo solo come reazione ad uno stato di necessità, anche solo erroneamente supposto.
Quanto al rilievo finale difensivo circa la pretesa inconsapevolezza dell’innocenza di COGNOME NOMECOGNOME il ragionamento giudiziale è perfettamente lineare e consequenziale, li ove con esso si rileva che l’accusato sia stato coinvolto nella vicenda in modo totalmente arbitrario e gratuito, al di fuori di ogni margine di plausibile dubbio o di errore ragionevole. Si ricordi che l’imputata, nei dialoghi intercettati in carcere il 10 novembre 2017, esaminati nella sentenza impugnata, aveva mostrato rammarico per avere compromesso la posizione di NOME cui aveva rovinato la vita e al quale doveva delle scuse, con ciò dimostrando piena consapevolezza dell’estraneità del medesimo al delitto, senza che tanto l’avesse indotta (come si ripete) ad informarne gli inquirenti e nemmeno il giudice all’udienza di convalida.
La circostanza, appurata, che NOME fosse in casa della vittima la sera dell’omicidio (in una qualunque delle stanze dell’appartamento) rafforza inevitabilmente il convincimento della piena consapevolezza in capo a lei dell’innocenza dell’accusato, coincidendo il movente della sua azione, come chiaramente indicato nella sentenza impugnata, con l’intento di uscire dalla personale situazione scomoda di sospettata per essere stata in casa al momento del delitto ed avere avuto le chiavi per farvi accesso, posto che l’autore dell’omicidio non aveva dovuto compiere nessuna effrazione per entrarvi.
A tali argomentazioni è legata la dichiarazione di infondatezza del terzo motivo di ricorso.
Resta da esaminare il quarto motivo, inerente la dosimetria della pena. Neppure tale motivo è suscettibile di favorevole considerazione.
E’ noto che, in tema di determinazione della misura della pena, il giudice del merito esercita la discrezionalità che al riguardo la legge gli conferisce, attraverso l’enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017 COGNOME, Rv. 271243-01; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196-01; Sez. 2, n. 12749 del 19/03/2008, COGNOME, Rv. 239754-01), selettivamente in grado di compendiare la valutazione operata.
Quest’ultima è insindacabile in sede di legittimità, purché sia argomentata e non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez, 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrario, Rv. 259142-01).
Ciò posto, non appare affatto arbitraria o illogica la scelta del giudice di merito di mantenere la pena attestata ad una misura comunque prossima al limite inferiore della cornice edittale, pur dopo l’avvenuta delimitazione del perimetro della consumazione, alla luce della invariata intensità del dolo e della immutata gravità del pregiudizio risentito dalla vittima, come tali ritenute, equamente bilanciate da altri rilevati elementi di segno favorevole (l’età giovane e immatura e lo stato di pregressa incensuratezza).
deve essere
20. Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME A.A. COGNOME conclusivamente respinto.
A tale pronuncia segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali; nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile, che, tenuto conto dell’impegno defensionale profuso, si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile B.B. , che liquida in complessivi euro 6.332,00, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto dispo d’ufficio e/o imposto dalla legge.
Così deciso il 23/01/2025