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Beni culturali: l’onere della prova spetta al possessore

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un soggetto contro il sequestro di 198 documenti, qualificati come beni culturali, che erano stati posti in vendita su una piattaforma online. La sentenza sottolinea un principio fondamentale: quando i documenti hanno una chiara provenienza da archivi pubblici, come quelli di un tribunale, spetta al possessore dimostrarne l’origine lecita. La semplice affermazione che non siano beni culturali non è sufficiente a superare le prove concrete della loro natura archivistica.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Beni culturali: la Cassazione stabilisce che l’onere della prova sulla provenienza lecita spetta al possessore

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato il delicato tema della circolazione e del possesso di beni culturali di provenienza archivistica, chiarendo un principio di fondamentale importanza: spetta a chi possiede tali beni dimostrarne l’origine lecita. La decisione è scaturita dal ricorso presentato contro un’ordinanza di sequestro di numerosi documenti storici posti in vendita su una nota piattaforma di e-commerce.

I fatti del caso

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna aveva rigettato un’istanza di dissequestro relativa a 198 documenti, sequestrati perché ritenuti beni culturali e corpo del reato di cui all’articolo 518-quater del codice penale. L’indagato, che aveva messo in vendita i documenti online, ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo, tra le altre cose, la mancanza di prova sulla natura di bene culturale dei documenti e la loro legittima appartenenza a privati, quindi liberamente commerciabili.

Secondo la difesa, si trattava di materiale che poteva essere ceduto in quanto inutile e privo di interesse, come previsto da vecchie normative relative a enti come la Croce Rossa. Inoltre, si contestava che l’onere di dimostrare la provenienza da procedure di scarto fosse stato illegittimamente posto a carico dell’indagato.

La qualificazione dei beni culturali e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo infondato e generico. I giudici hanno evidenziato come il ricorrente non si fosse adeguatamente confrontato con le motivazioni del provvedimento impugnato. Quest’ultimo, infatti, poggiava su elementi concreti e inequivocabili: uno dei documenti in vendita apparteneva all’archivio del Tribunale di Ravenna e, più precisamente, a una serie di fascicoli penali del 1926. Altri 64 documenti avevano una simile provenienza archivistica pubblica, confermata anche da segnalazioni della Soprintendenza archivistica.

Questi elementi, secondo la Corte, erano sufficienti a comprovare, almeno in questa fase cautelare, l’appartenenza dei documenti a una serie archivistica completa, smentendo la tesi della difesa secondo cui si trattava di oggetti isolati e di proprietà privata. Il ricorso, di fatto, si limitava a riproporre le stesse argomentazioni già respinte dal GIP, senza contestare nel merito le prove specifiche sulla provenienza pubblica dei reperti.

Le motivazioni

Il cuore della decisione della Cassazione risiede nell’applicazione del cosiddetto principio di vicinanza della prova. La Corte ha stabilito che, di fronte a documenti che palesemente appartengono ad archivi pubblici e quindi rientrano nella nozione di beni culturali, l’onere di dimostrare la loro legittima provenienza non può che gravare su chi li detiene. È il possessore, infatti, la parte che ha la maggiore possibilità di fornire elementi a sostegno della propria tesi difensiva, come ad esempio la documentazione che attesti l’acquisto da una legittima procedura di scarto autorizzata dalla competente Soprintendenza.

La Corte ha inoltre smontato la tesi difensiva basata sulla normativa del 1928 (d.l. 2034/1928), la quale prevedeva la cessione di ‘carta da cestino’ alla Croce Rossa. I giudici hanno chiarito che, anche secondo tale legge, era necessario un preventivo riconoscimento formale da parte dell’amministrazione di provenienza dell’«inutilità della ulteriore conservazione». Tale prova, nel caso di specie, era totalmente mancante. Infine, la Corte ha giudicato irrilevante l’argomento secondo cui non vi fossero state azioni di rivendicazione formali, poiché risultavano agli atti ben 111 richieste di restituzione e 17 denunce, dimostrando un concreto interesse pubblico al recupero dei documenti.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un concetto cruciale per la tutela del patrimonio archivistico nazionale. Chiunque acquisti, detenga o ponga in vendita documenti storici, specialmente se recanti timbri o intestazioni di enti pubblici, deve essere in grado di provarne la provenienza lecita. L’apparenza di un bene come appartenente a un archivio pubblico fa scattare una presunzione sulla sua natura di bene culturale, invertendo di fatto l’onere della prova. Non è lo Stato a dover dimostrare che il bene sia stato illecitamente sottratto, ma è il privato a dover provare di averlo acquisito legalmente. Una lezione importante per collezionisti, commercianti e chiunque operi nel mercato di documenti storici.

Chi deve provare la provenienza lecita di documenti storici di origine pubblica?
In base al principio di ‘vicinanza della prova’, spetta alla parte che possiede i documenti dimostrarne l’origine lecita, ad esempio provando che provengono da una procedura di scarto autorizzata, in quanto è la parte che ha più facilmente accesso a tali prove.

La vendita online di vecchi documenti d’archivio è lecita?
Non è lecita se i documenti sono qualificabili come beni culturali, come quelli provenienti da archivi pubblici, e il venditore non è in grado di dimostrare di averli acquisiti legalmente. La loro natura archivistica li sottrae alla libera commerciabilità.

Un ricorso in Cassazione può limitarsi a ripetere le argomentazioni già respinte in precedenza?
No, un ricorso è considerato inammissibile se si limita a riproporre le stesse doglianze già esaminate e respinte nel precedente grado di giudizio, senza confrontarsi specificamente con le motivazioni della decisione impugnata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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