Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23649 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23649 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME (CODICE_FISCALE nato a CORIGLIANO CALABRO il
07/05/1979
avverso la sentenza del 09/01/2025 della CORTE D’APPELLO DI TORINO Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME il quale ha chiesto rigettarsi il ricorso; lette le conclusioni depositate dall’avvocato NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente, che, anche in replica alle conclusioni della Procura generale, ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Torino, con la sentenza emessa il 9 gennaio 2025, riformava, solo riducendo la pena, la decisione del G.u.p. del Tribunale di Torino, che aveva accertato la responsabilità penale di NOME COGNOME per quel che qui rileva in ordine al delitto di appropriazione indebita dell’autovettura RAGIONE_SOCIALE, in locazione a lungo termine (capo 1 lett. a), nonché del delitto di causazione del fallimento a seguito di operazioni dolose, avendo omesso sistematicamente il versamento delle imposte e dei contributi previdenziali, evasi per oltre un milione e duecentomila euro (capo 1 lett. c). NOME ne era chiamato a rispondere in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita con sentenza del 4 gennaio 2018 , del quale l’imputato era stato amministratore unico dal 1 febbraio 2012.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo deduce violazione di legge processuale in relazione agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.
Quanto alla accertata responsabilità per il delitto di appropriazione indebita, il ricorrente lamenta che la riqualificazione avvenuta in primo grado, a seguito dell’opzione per il giudizio abbreviato, costituisca una non prevedibile evoluzione rispetto alla contestazione originaria di bancarotta fraudolenta societaria per distrazione. In particolare, il ricorrente ravvisa una diversità fra le due condotte, quanto al destinatario della restituzione, in un caso il curatore fallimentare e nell’altro la società locatrice, nonché quanto al tempo della restituzione medesima e, quindi, al momento consumativo, da individuarsi in un caso nella sentenza dichiarativa di fallimento e nell’altro nel successivo invio da parte della locatrice del telegramma che chiedeva la restituzione.
Tale riqualificazione determinava un vulnus alle prerogative difensive, in quanto, data la scelta del rito, non era stato possibile articolare i mezzi istruttori, come anche interloquire e concludere rispetto a tale fattispecie e non a quella contestata.
Il secondo motivo deduce vizio di motivazione quanto al dolo del delitto di appropriazione indebita, lamentando travisamento dell’interrogatorio del 14 dicembre 2020.
Si duole il ricorrente che, dopo un periodo di lavoro in Spagna, appena tratto in arresto il 22 giugno 2017 – data dalla quale fu detenuto in carcere fino al 21 dicembre 2017 e da allora agli arresti domiciliari fino al 2 febbraio 2018, quando fu poi sottoposto al divieto di dimora in Torino -aveva comunicato alla polizia giudiziaria che l’autovettura era in Spagna, ove fu poi effettivamente sequestrata. Lamenta travisamento dell’interrogatorio del 14 dicembre 2020, allorché, a differenza di quanto riferisce la sentenza impugnata, ebbe a dare indicazioni per il recupero dell’autovettura.
Da ciò deriverebbe che l’imputato ebbe ad agire senza dolo ma al più colposamente, come anche dimostra il permanere dell’auto nello stesso luogo . L’imputato non aveva mai ricevuto notizia né delle comunicazioni del curatore né dalla società locatrice dell’autovettura, essendo detenuto e , dunque, non reperibile presso la propria abitazione né a mezzo di posta elettronica certificata, costituendo tale impossibilità – a essere raggiunto dalle richieste della curatela e della società locatrice – una causa di forza maggiore.
Il terzo motivo deduce vizio di motivazione quanto al dolo del delitto di causazione del fallimento a mezzo operazioni dolose.
Lamenta il ricorrente che solo la cartella di pagamento relativa all’anno 2013 gli era stata personalmente notificata, il 24 marzo 2017, mentre quelle degli anni successivi, relativi alle imposte non versate del 2014 e 2017, erano state notificate al curatore fallimentare. Inoltre, non è stata valutata la circostanza che risultavano crediti esigibili per oltre un milione seicentomila euro, da bilancio 2015, cosicché non vi era la prevedibilità dell’evento del dissesto , difetterebbe il dolo eventuale, nonché la sistematicità delle operazioni, anche perché l’imputato era impossibilitato al pagamento a causa della non solvibilità dei crediti maturati.
Il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti, ai sensi del rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e successive integrazioni.
Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Il primo motivo è infondato.
A ben vedere, va in primo luogo evidenziato che perché possa aversi violazione del combinato disposto degli artt. 516 e ss. e 522 cod. proc. pen. occorre che il fatto contestato assuma le caratteristiche della diversità radicale richiesta dalle norme del codice di rito.
Sul punto la Corte di appello ha escluso che la riqualificazione integrasse una lesione del diritto di difesa, in quanto l’imputato ha avuto la possibilità di difendersi in modo completo a fronte della identità delle accuse.
Le disposizioni invocate regolano l’esito del giudizio : l’art. 521 che impone al giudice di trasmettere gli atti al pubblico ministero se il fatto emerso dall’istruttoria è diverso da quello contestato; l’art. 522 per il caso in cui la sentenza sia emessa per un fatto diverso e, dunque, in violazione del principio di correlazione fra contestazione e decisione.
Tali disposizioni richiedono di valutare il fatto come emerso dall’istruttoria , se del caso anche diverso da quello contestato. Pertanto, soccorre a riguardo l’autorevole principio che rileva come la diversità debba avere però i caratteri della trasformazione radicale. Per aversi mutamento del fatto, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, nella quale si riassume l ‘ ipotesi astratta prevista dalla legge, occorre che si pervenga ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne
consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’ iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 -01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619 -01).
Si è anche affermato che il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo impossibile per l’imputato difendersi (Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Rv. 281477 -01; conf. n. 16900 del 2004 rv. 228042 – 01, n. 35225 del 2007 rv. 237517 – 01, n. 15655 del 2008 rv. 239866 – 01, n. 41663 del 2005 rv. 232423 – 01, n. 4497 del 2016 rv. 265946 01, n. 33878 del 2017 rv. 271607 – 01, n. 12328 del 2019 rv. 276955 -01).
E bene, nel caso in esame il nucleo essenziale del delitto è il medesimo: la sottrazione dell’autovettura costituisce l’oggetto di entrambi i reati e il delitto di appropriazione indebita è assorbito, a riprova della non eterogeneità, nel delitto fallimentare, come emerge dal consolidato orientamento giurisprudenziale sussistente sul punto.
Infatti, il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 cod. pen. rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest’ultimo in quello di bancarotta, sicchè gli stessi fatti, già contestati ex art. 646 cod. pen., possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, alla fattispecie di bancarotta (Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, dep. 20/01/2016, COGNOME, Rv. 266018 -01; la Corte ha affermato tale principio ritenendo legittima un’ipotesi di modifica dell’imputazione ex art. 516 cod. proc. pen., operata in dibattimento dal pubblico ministero una volta intervenuta la sentenza di fallimento; conf.: N. 37298 del 2010 Rv. 248640 – 01, N. 48743 del 2014 Rv. 261301 – 01).
Dal che certamente non si verte in tema di imprevedibilità dell’evoluzione qualificatoria.
Inoltre, come emerge dallo stesso motivo di ricorso in esame, la prospettazione della sussistenza della locazione a lungo termine dell’autovettura in luogo del contratto di leasing della stessa, in origine contestata dall’imputazione e giustificante la riqualificazione, viene introdotta proprio dalla memoria difensiva depositata in primo grado, con l’intento di difendersi dal delitto di bancarotta fraudolenta (cfr. fol. 5 del ricorso).
Anche in tal senso certamente era prevedibile che il G.u.p., alla luce della sollecitazione difensiva, potesse operare la riqualificazione, per il consolidato principio per cui – cfr. Sez. 5 , n. 45044 del 24/10/2022, COGNOME, Rv. 283812; conf. Sez. 5, n. 13556 del 27/02/2015, COGNOME, Rv. 262899 – poiché nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrano solo le cose che abbiano fatto ingresso nel patrimonio di quest’ultimo, non possono essere oggetto delle condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale i beni sui quali il fallito ha un possesso solo precario e il proprietario vanta un diritto alla restituzione, come nel caso di beni ricevuti in locazione, deposito o comodato.
La prima sentenza ora citata, a tal proposito, evidenzia come il pregresso possesso dei beni strumentali acquisiti in comodato -il che vale anche per la locazione – non è dunque di per sé presupposto idoneo per la qualificazione della condotta contestata all’imputato in termini di distrazione.
D’altro canto, come richiede Sez. U COGNOME, l’imputato ha ben potuto difendersi e confrontarsi con la riqualificazione intervenuta in primo grado, già nel corso del giudizio di appello, come anche nel presente grado, cosicché l ‘ iter processuale ne ha garantito la difesa in concreto.
Inoltre, le doglianze relative all’impossibilità di articolare mezzi istruttori ovvero all’opzione per altro rito, non si sono concretizzate in richieste specifiche rivolte alla Corte di appello, cosicché si verte in doglianze che restano del tutto generiche e carenti di concreto interesse. Ne consegue l’infondatezza del primo motivo.
Quanto al secondo motivo, il Tribunale aveva chiarito -la Corte di appello fa propria la sentenza di primo grado, ma sul tema il ricorso non articola una specifica doglianza che l’imputato aveva ricevuto la richiesta di restituzione dell’autovettura a mezzo telegramma presso il domicilio, in data 20 febbraio 2018 da parte della società locatrice dell’autovettura, RAGIONE_SOCIALE : l’imputato si trovava agli arresti domiciliari (cfr. foll. 7 e 8 della sentenza di primo grado).
Ne consegue che l’imputato ebbe chiara contezza della necessità di restituire l’autovettura, avendo interrotto i pagamenti, cosicché, come evidenzia il Tribunale, con conferma della Corte di appello, a quel punto COGNOME agiva quale proprietario, intendendo l’autovettura come «cosa propria … con volontà di impossessarsene» (fol. 4 della sentenza di appello). In sostanza si era verificata l’interversione del possesso fin dal 2018.
Tale valutazione, operata dalle sentenze di merito, risulta in piena sintonia con il consolidato principio per cui il reato di appropriazione indebita di un bene in leasing è integrato dalla mera interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta uti dominus non restituendolo senza giustificazione, così da
evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato, e non da quando il contratto deve intendersi risolto a causa dell’inadempimento nel pagamento dei canoni (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016, Trovato, Rv. 267114 -01; la Corte, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna dell’imputato, al quale era stato notificato l’avviso di risoluzione del contratto e la conseguente intimazione a restituire il veicolo oggetto della locazione finanziaria; conf.: N. 38604 del 2007 Rv. 238163 – 01, N. 13347 del 2011 Rv. 250026 -01).
Tanto premesso, risulta non decisivo -il che costituisce ragione di aspecificità della deduzione di travisamento -richiamare la errata valutazione del verbale di interrogatorio del 14 dicembre 2020: l’interversione del possesso era già intervenuta a partire dal 20 febbraio 2018, a causa della ricezione della richiesta di restituzione dell’autovettura per morosità, poichè l’imputato non aveva fornito alcuna indicazione alla società locatrice quanto alla ubicazione dell’auto, che invece veniva rinvenuta successivamente solo in ragione di autonomi accertamenti da parte della polizia giudiziaria, come emerge dalle sentenze di merito.
Pertanto, corretta è l’argomentazione della Corte di appello che, seppur sinteticamente, si pone in sintonia con il principio per cui l’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita consiste nella coscienza e volontà di appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, posseduta a qualsiasi titolo, sapendo di agire senza averne diritto, ed allo scopo di trarre per sé o per altri una qualsiasi illegittima utilità (Sez. 2, n. 27023 del 27/03/2012, Schembri, Rv. 253411 -01).
Ne consegue l’infondatezza del motivo.
Il terzo motivo, relativo al delitto di cagionamento del dissesto in conseguenza di operazioni dolose, si fonda su un equivoco, già dissipato adeguatamente dalla Corte di appello.
La condotta materiale contestata non si sostanzia in inadempimenti che devono essere ‘certificati’ dalle cartelle di pagamento . Tale errato presupposto viene posto alla base delle tesi difensiva per cui solo per l’anno 2013 l’imputato potrebbe rispondere dei debiti erariali, in quanto solo per tale annualità in contestazione intervenne la notifica nei suoi confronti della cartella di pagamento, non anche per gli anni di imposta 2014 e 2017, allorché gli atti per la riscossione furono notificati al curatore fallimentare. Dal che anche il difetto di sistematicità delle evasioni tributarie e previdenziali.
Diversamente, l ‘inadempimento tributario si verifica, a differenza di quanto ritiene il ricorrente, fin dal momento in cui non vengono rispettate le scadenze di pagamento correlate agli anni di imposta 2013, 2014 e 2017. La cartella di pagamento consegue alla stabilizzazione e alla iscrizione a ruolo esecutivo del
titolo di credito erariale e, quindi, all’avvio della fase di riscossione; dunque, la cartella di pagamento costituisce un posterius rispetto all’inadempimento.
Se ciò che rileva è l’inadempimento in sé, ne sussiste la sistematicità, come ritenuto dalle sentenze di merito, per la ripetitività e per gli importi, in linea con l’orientamento per cui le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. consistono in un sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME Rv. 273337 -01; conf. n. 12426 del 2014 Rv. 259997 – 01, n. 29586 del 2014 Rv. 260492 – 01, n. 47621 del 2014 Rv. 261684 – 01, n. 15281 del 2017 Rv. 270046 -01; nello stesso senso Sez. 5,. n. 22765 del 18/02/2021, COGNOME, n.m.).
Pertanto gli argomenti utilizzati, per escludere la sistematicità richiesta, non sono corretti né decisivi, mentre corretta è la valutazione della Corte di appello che, dopo aver richiamato gli importi per le singole annualità di pagamenti evasi pari a oltre 600mila euro nel 2013, oltre 216mila euro nel 2014 e oltre 250mila euro nel 2017 -si conforma al principio per cui nel delitto in esame l’ evento di danno si realizza non solo quando la situazione di dissesto trovi la sua causa nelle condotte o operazioni dolose, ma anche quando esse abbiano solo aggravato la situazione di dissesto che costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento (in tal senso, Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv.262188, secondo cui sussiste il delitto di bancarotta fraudolenta previsto dall’art. 223, comma secondo n. 2, l. fall. anche quando le operazioni dolose dalle quali deriva il fallimento della società non comportano una diminuzione algebrica dell’attivo patrimoniale, ma determinano comunque un depauperamento del patrimonio non giustificabile in termini di interesse per l’impresa).
Quanto al dolo, il ricorrente si sofferma e contesta il dolo eventuale, in modo però aspecifico: la Corte di appello, infatti, ha invece ritenuto sussistente il dolo diretto di inadempimento, funzionale a finanziare i pagamenti nei confronti dei creditori privati in danno di quelli erariali, con ciò verificandosi l’ aggravamento del dissesto, come ritenuto dal Tribunale e non contestato in modo specifico (cfr. sentenza di primo grado, fol. 12).
In ordine al dolo, corretta è quindi la valutazione della Corte di appello, di conferma di quella di primo grado. Difatti, ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024,
COGNOME, Rv. 286349 -01, in un caso di sistematico e protratto inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali frutto di una consapevole scelta gestionale; anche alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa, fa riferimento Sez. 5,n. 45672 del 01/10/2015, Rv. 265510 -01; mentre di una un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, per la quale l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell’amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell’astratta prevedibilità dell’evento di dissesto quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare, si legge in Sez. 5, n. 38728 del 03/04/2014, Rv. 262207 -01).
Ebbene, sul punto non viene ‘attaccato’ in modo specifico l’argomentare della sentenza di primo grado – condivisa dalla Corte di appello – per la quale il rilievo degli importi evasi e la reiterazione delle evasioni nel tempo siano dimostrativi di una sistematica determinazione, nella programmazione di un disegno che rendeva prevedibile il dissesto, in assenza di prova quanto alla natura temporanea del deficit di liquidità, alla quale dover far fronte con una limitata evasione (cfr. sentenza di primo grado, fol. 12) .
Quanto poi, all’ultimo profilo della doglianza in esame, è anche affrontata dalla Corte di appello l’incidenza dell’ esistenza di crediti esigibili non riscossi, per asserita insolvenza dei debitori: la Corte utilizza un argomento non manifestamente illogico affermando che pur a fronte dello stato detentivo dell’imputato, costui avrebbe comunque potuto provvedere ai pagamenti erariali, ricorrendo alla riscossione anche a mezzo terzi dei crediti esigibili indicati in bilancio. La circostanza che ciò non sia accaduto dimostrerebbe ulteriormente la volontà dell’attuale ricorrente di non pagare i debiti erariali, che hanno determinato la maggior parte del dissesto.
Per altro, la deduzione – della impossibilità della riscossione dei crediti anche a mezzo terzi, come anche dell’insolvibilità dei debitori della fallita, ragioni che avrebbero impedito per forza maggiore l’adempimento delle obbligazioni tributarie – doveva essere accompagnata dalla relativa e specifica allegazione della causa di non punibilità: difatti, come osserva Sez. 4, n. 12099 del 12/12/2018, dep. 19/03/2019, Fiumefreddo Rv. 275284 -01, nell’ordinamento processuale penale, pur non essendo previsto un onere probatorio a carico dell’imputato, modellato sui principi propri del processo civile, è tuttavia prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale lo stesso è tenuto a fornire le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore (conf.: N. 20171 del 2013 Rv.
255916 – 01, N. 32937 del 2014 Rv. 261657 – 01). Tanto non si è verificato, risultando del tutto generica la relativa affermazione nel caso in esame, cosicché il motivo è infondato.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 23/05/2025