Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 25632 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 25632 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 21/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a NAPOLI il 05/05/1981 NOME COGNOME nato a NAPOLI il 18/03/1965
avverso la sentenza del 14/11/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
COGNOME Sostituto Procuratore generale COGNOME– ha
chiesto di dichiarare inammissibili i ricorsi.
I I alkikr- GLYPH rej2)../ e z
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata pronunziata 11 14 novembre 2024 dalla Corte di appello di Milano, che ha confermato la sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, che aveva condannato COGNOME NOME ed COGNOME NOME per il reato dì bancarotta impropria da operazioni dolose nonché
quest’ultimo anche per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, in relazione alla società “RAGIONE_SOCIALE“, fallita il 14 dicembre 2018. Aveva, altresì, condannato il COGNOME anche per il reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000.
Secondo l’impostazione accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, il COGNOME (nella qualità di amministratore unico dal 4 luglio 2014 all’il luglio 2016) e l’COGNOME (nella qualità di amministratore unico dall’Il luglio 2016 alla data del fallimento) avrebbero cagionato il fallimento della società per effetto di operazioni dolose, omettendo sistematicamente, a partire dal 2014 e fino al 2017, di versare imposte e ritenute previdenziali, accumulando negli anni un consistente debito nei confronti dell’erario, ammontante ad oltre 20 milioni di euro (capo A2).
L’COGNOME, inoltre, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare pregiudizio ai creditori, avrebbe parzialmente sottratto o comunque distrutto i libri e la documentazione contabile della fallita (capo Al).
Il COGNOME, infine, al fine di consentire alla società “RAGIONE_SOCIALE” l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, nella qualità di amministratore unico della “RAGIONE_SOCIALE” – soggetto interposto nell’acquisto di pannelli solari dalla “RAGIONE_SOCIALE“, poi rivenduti alla “RAGIONE_SOCIALE” -, emetteva a fatture per operazion inesistenti, pari, nell’anno 2015, a euro 11.241.785,77, oltre IVA, e, nell’anno 2016, a euro 10.650.678,05, oltre IVA (capo B).
Avverso la sentenza della Corte di appello, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori di fiducia.
Il ricorso di COGNOME NOME si compone di quattro motivi.
3.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 223 legge fall. e 27 Cost.
Il ricorrente sostiene che il reato di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose non potrebbe essere attribuito alla responsabilità dell’imputato, atteso che questi, nell’ambito della Virgo, avrebbe rivestito un ruolo meramente formale.
Dagli atti, invero, emergerebbe che nessuno l’avrebbe indicato come autore delle condotte contestate. In particolare, COGNOME COGNOME (socio sia della “RAGIONE_SOCIALE” che della “RAGIONE_SOCIALE“) – ossia la persona che aveva ideato e tratto profitto dall’operazione di evasione fiscale descritta al capo B – aveva riferito «che il suo interlocutore per le relazioni con la società RAGIONE_SOCIALE era il signor COGNOME».
Dagli accertamenti del curatore fallimentare e delle Agenzie delle entrate, inoltre, emergerebbe che la complessa operazione di evasione fiscale sarebbe stata realizzata mediante la mera interposizione della Virgo, nell’esclusivo interesse della Peimar, senza che da essa conseguisse alcun profitto in favore della fallita.
Il ricorrente, inoltre, evidenzia che il Tribunale di Milano, con sentenza n. 15607 del 2019 (passata in giudicato), aveva assolto il COGNOME per avere, nel dicembre 2016, in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, omesso il versamento dell’IVA, affermando che, «anche nel periodo ricompreso tra il 4 luglio 2014 e 1’11 luglio 2016, in cui era il rappresentante legale della società, egli non se ne occupava concretamente, ma solo formalmente essendo la gestione demandata al coimputato».
In relazione a tale sentenza, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in errore, affermando che la posizione dell’imputato, nella sentenza già passata in giudicato, non sarebbe stata approfondita. Sostiene che, in ogni caso, sussisterebbe un contrasto di giudicati tra la sentenza del Tribunale di Milano e quella impugnata.
La Corte territoriale non avrebbe adeguatamente motivato sui profili evidenziati e in ordine alla consapevolezza da parte dell’imputato della complessa operazione di evasione fiscale perpetrata dal Casale e dal COGNOME, né avrebbe motivato in ordine al «dolo dell’evento».
Sarebbe, inoltre, incorsa in un travisamento del fatto, nell’affermare che il giudice di primo grado avrebbe posto in continuazione i reati oggetto del presente processo con quelli oggetto della sentenza n. 15607 del 2019. Il Tribunale di Milano, infatti, con tale sentenza, avrebbe assolto l’imputato dai reati a lui ascritti.
In considerazione delle argomentazioni esposte e dei motivi indicati nell’atto d’appello, il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza impugnata.
3.2. Con un secondo motivo, deduce il vizio di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 516, 521 e 522 cod. proc. pen. e 8 d.lgs. n. 74 del 2000.
Rappresenta che, nell’imputazione, viene contestato al COGNOME di aver commesso il reato di bancarotta impropria in concorso con l’COGNOME.
Tanto premesso il ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, avendo affermato – a seguito delle osservazioni della difesa, che aveva posto in rilievo come l’operazione di evasione fiscale fosse stata escogitata dal COGNOME e dal COGNOME – che: «nulla importa se sia stato lui concretamente a ideare o a porre in essere il meccanismo evasivo, essendo sufficiente, ai fini della sua responsabilità penale, l’aver accettato il rischio … della propria condotta omissiva ». In tal modo, secondo il ricorrente, la Corte di appello avrebbe finito per ritenere responsabile l’imputato «non per aver commesso la condotta tipica», ma per una condotta omissiva, da porsi in concorso, ex art. 110 cod. pen., con il Casale o con il COGNOME o con altre persone che avrebbero realizzato la condotta commissiva tipica. In difformità
all’imputazione, nella quale non erano contestati l’art. 110 cod. pen. e il concorso di altre persone nel reato, né era configurata una condotta omissiva.
La violazione del principio di correlazione tra sentenza e accusa risulterebbe ancor più evidente, in relazione all’imputazione per il reato di cui all’8 d.lgs. n. 74 del 2000, con la quale era stata contestata al COGNOME «la fattispecie monosoggettiva».
3.3. Con un terzo motivo, i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000.
Sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che l’appellante avesse eccepito solo l’oggettiva insussistenza del reato di cui all’art. 8», quando, invece, la difesa aveva chiesto: «l’assoluzione di NOME COGNOME per entrambi i reati per i quali era intervenuta condanna in primo grado, con la formula per non aver commesso il fatto».
La Corte di appello, pertanto, con riferimento al reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, sarebbe incorsa in un vizio di omessa motivazione in ordine alla valutazione della richiesta della difesa di assoluzione per non aver commesso il fatto.
Il ricorrente sostiene che, in ogni caso, l’imputato dovrebbe esser assolto dal reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, essendo state commesse dal Casale e dal Mallone le operazioni oggetto di contestazione.
Il reato, inoltre, sarebbe oggettivamente insussistente per i motivi indicati nell’atto d’appello, che dovrebbero ritenersi integralmente trascritti nel ricorso, e perché la complessa operazione escogitata dal COGNOME e dal COGNOME non avrebbe comportato alcun risparmio di IVA per la Peimar, ma avrebbe comportato solo l’acquisto della merce da parte di quest’ultima a prezzi concorrenziali. Mancherebbe, dunque, la finalità di evadere VIVA.
3.4. Con un quarto motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 62-bis cod. pen.,
Contesta il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, sostenendo che la Corte di appello avrebbe dovuto valorizzare l’incensuratezza dell’imputato e il fatto che altri avrebbero escogitato il meccanismo fraudolento e avrebbero beneficiato dei relativi benefici fiscali.
Il ricorso di COGNOME NOME si compone di quattro motivi.
4.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 223 legge fall. e 27 Cost.
Sostiene che la Corte di appello, in violazione dell’art. 27 Cost., avrebbe riconosciuto la penale responsabilità dell’imputato per il reato di bancarotta impropria per il solo fatto che egli fosse il formale amministratore della fallita.
La Corte territoriale, secondo il ricorrente, avrebbe eccessivamente valorizzato una memoria, redatta personalmente da COGNOME COGNOME, che era stata depositata nell’ambito di un altro processo, che aveva a oggetto il reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000. In tale memoria, l’imputato ammetteva di non aver versato VIVA dovuta dalla “RAGIONE_SOCIALE“, di cui era il legale rappresentante. Il ricorrente, tuttavia, pone in rilievo che: il reato di omesso versamento dell’IVA si differenzia nettamente dal reato di bancarotta impropria; l’imputato non aveva mai ammesso di aver posto in essere condotte finalizzate al fallimento della Virgo; nessuno aveva individuato l’imputato quale autore materiale delle condotte contestate; l’imputato aveva acquisito la carica di legale rappresentante della società solo l’11 luglio 2016, allorquando le condotte rilevanti sarebbero state già realizzate; il COGNOME aveva riferito che era il COGNOME il suo interlocutore per le relazioni con la Virgo; la complessa operazione di evasione fiscale era stata realizzata per recare vantaggio alla COGNOME; la Virgo non aveva tratto alcun vantaggio da detta operazione, ma anzi ne era stata danneggiata.
Per tali motivi e per quelli illustrati nell’atto d’appello, che si dovrebbero intendere integralmente trascritti, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata.
4.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 226 legge fall.
Rappresenta che: l’imputato era diventato legale rappresentante della Virgo 1’11 luglio 2016; la società era stata posta in liquidazione già il 28 febbraio 2017; l’imputato aveva consegnato al curatore una parte della documentazione.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che, considerati tali elementi, non vi sarebbe certezza sul fatto che, in epoca anteriore all’il luglio 2016, la contabilità fosse stata tenuta e che poi successivamente fosse stata consegnata all’imputato.
Per tali motivi e per quelli esposti nell’atto d’appello, la sentenza dovrebbe essere annullata.
4.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 62-bis cod. pen.,
Contesta la motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, sostenendo che la Corte di appello si sarebbe concentrata solo sulla «quasi incensuratezza» dell’imputato, trascurando la circostanza che questi avrebbe solo marginalmente partecipato alla complessa operazione di evasione fiscale. Evidenzia, inoltre, la circostanza che l’imputato aveva rivestito il ruolo di amministratore della società fallita per un breve periodo di tempo.
Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibib; i ricors; .
L’avv. NOME COGNOME peril;imputati , ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di annullare la sentenza impugnata anche per i motivi «illustrati nella sentenza della Corte di giustizia UE del 9 novembre 2023 BK C 175/22, che si intendono integralmente trascritti».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
1.1. Preliminarmente, deve essere rilevato che entrambi i ricorrenti, ripetutamente, hanno chiesto l’annullamento della sentenza impugnata anche per i motivi di appello che dovrebbero intendersi «integralmente trascritti» nei ricorsi. Il difensore del COGNOME inoltre, nelle conclusioni scritte, ha chiesto di annullare la sentenza impugnata anche per i motivi «illustrati nella sentenza della Corte di giustizia UE del 9 novembre 2023 BK C- 175/22, che si intendono integralmente trascritti».
Al riguardo, deve essere rilevato che tali richieste sono inammissibili per genericità intrinseca.
In primo luogo, va ricordato che questa Corte ha già affermato che il principio secondo cui l’utilizzo di formule implicanti il rinvio ad atti che dovrebbero intendersi trascritti non è sufficiente per ritenere incardinato il rapporto processuale su motivi esterni rispetto all’atto di impugnazione (cfr. Sez. 1, n. 778 del 15/11/2022, COGNOME, Rv. 283952; Sez. 6, n. 48468 del 14/11/2023, P., Rv. 285453; Sez. 5, n. 41782 del 26/05/2016, COGNOME, Rv. 267864).
Nel caso in esame, l’inammissibilità dei motivi è ancor più evidente, atteso che l’atto di impugnazione è un ricorso per cassazione e i rinvii vengono fatti agli atti di appello e a una sentenza della Corte di giustizia UE. In tal modo, i ricorrenti finiscono per chiedere a questo Collegio di sostituirsi alla difesa tecnica delle parti e di effettuare l’operazione di enucleare i motivi di impugnazione deducibili in sede di legittimità da un atto di gravame con effetto devolutivo e, addirittura, da una sentenza di una corte sovranazionale.
Il ricorso di COGNOME NOME è inammissibile.
2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Le censure mosse dal ricorrente, invero, risultano generiche e versate in fatto.
Il ricorrente si limita ad articolare alcune censure che, pur essendo state da lui riferite alle categorie dei vizi di motivazione e di violazio e di legge, ai sen
dell’art. 606 cod. proc. pen., non evidenziano alcuna violazione di legge né effettivi travisamenti di prova o vizi di manifesta logicità emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata da entrambi i giudici di merito (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano). Al riguardo, va ricordato come «l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione abbia un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizione processuali, se non, in quest’ultimo caso, nelle ipotesi di errore del giudice nella lettura degli atti interni del giudizio denunciabile, sempre nel rispetto della catena devolutiva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), ultima parte, cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 14722 del 30/01/2020, COGNOME).
Ebbene, nel caso in esame, il ricorrente, a fronte della ricostruzione dei giudici di merito, fondata sugli accertamenti del curatore e dell’Agenzia delle entrate, si limita genericamente ad asserire che nessuno avrebbe indicato l’imputato come autore delle condotte contestate. Va, peraltro, rilevato che le condotte contestate sono di natura omissiva e riguardano azioni di stretta prerogativa dell’amministratore, che è tenuto a presentare le dichiarazioni fiscali e a pagare i tributi.
Il ricorrente invoca, poi, le dichiarazioni rese dal COGNOME, che aveva riferito di avere avuto come interlocutore il signor COGNOME. Al riguardo, non essendo stato dedotto e dimostrato un travisamento delle dichiarazioni del COGNOME, va rilevato che spetta solo ai giudici di merito valutare la rilevanza di tali dichiarazioni nell’ambito delle complessive risultanze processuali. Va, peraltro, evidenziato che, dallo stesso stralcio delle dichiarazioni riportate nel ricorso, emerge che il COGNOME aveva riferito che «l’ing. COGNOME era un intermediario della RAGIONE_SOCIALE, ruolo ben diverso da quello di amministratore della società, rivestito dall’imputato.
Risulta, poi, poco conferente l’argomentazione con la quale il ricorrente pone in rilievo che l’operazione di evasione fiscale non avrebbe determinato alcun profitto per la società fallita, atteso che la logica della complessa operazione di evasione fiscale era proprio quella di far conseguire vantaggi alla RAGIONE_SOCIALE, mediante il sacrificio della fallita.
Il motivo si presenta generico anche nella parte in cui invoca la sentenza del Tribunale di Milano del 2019.
Al riguardo, in primo luogo, va evidenziato che il ricorrente non ha allegato al ricorso per cassazione la sentenza né ha chiesto di allegarla alla cancelleria dell’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento impugnato. In proposito, va ricordato che, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Cossu, Rv. 280419; Cass., Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, COGNOME, Rv. 276432).
Sotto altro profilo, va rilevato che la censura in questione si presenta pure estrinsecamente generica, non confrontandosi effettivamente il ricorrente con la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte di appello pone in rilievo che la sentenza del Tribunale di Milano del 2019 era scarsamente significativa perché aveva a oggetto reati fiscali commessi in un periodo di tempo in cui il COGNOME non rivestiva il ruolo di amministratore della società. In particolare, il ricorrente non spiega perché la Corte di appello sarebbe caduta in errore nel rilevare che il Tribunale di Milano aveva approfondito solo le questioni oggetto di quel giudizio, che erano relative a un periodo di tempo in cui l’imputato non era più amministratore della Virgo.
Del tutto generica è pure la censura relativa a un presunto contrasto di giudicati, rappresentato rispetto a una sentenza non allegata al ricorso. Va, peraltro, evidenziato che, da quanto emerge dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso, le due sentenze sembrerebbero riguardare fatti diversi.
Generica risulta anche la censura relativa alla carenza di motivazione in ordine al «dolo dell’evento». Al riguardo, peraltro, va ribadito che, contrariamente a quanto sembra ritenere il ricorrente, ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, COGNOME, Rv. 286349).
Quanto, infine, al presunto «travisamento del fatto», nel quale la Corte di appello sarebbe incorsa nell’affermare che il giudice di primo grado avrebbe posto in continuazione i reati oggetto del presente processo con quelli oggetto della sentenza n. 15607 del 2019, va rilevato che si tratta di un mero errore materiale, nel quale il giudice di secondo grado è incorso nei riassumere la sentenza di primo grado. La Corte di appello, per errore, ha ripetuto, anche con riferimento alla posizione del COGNOME, l’inciso relativo alla riconosciuta continuazione, in realtà da riferire solo all’altro imputato (l’errore, peraltro, è stato fatto solo nella premessa,
avendo poi la Corte territoriale riportato correttamente il calcolo effettuato dal Tribunale). Si tratta, come detto, di un mero errore materiale, che non ha comportato alcun pregiudizio al COGNOME, che risulta privo di qualsiasi interesse concreto rispetto alla censura mossa.
2.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Va, in primo luogo, posto in rilievo che nell’imputazione viene contestato al COGNOME di aver commesso il reato di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose, mediante la sistematica omissione del versamento delle imposte. Alcuna immutazione rispetto a tale imputazione si trova nella sentenza, che si limita, nel quadro di tale complessiva condotta omissiva, ad inserire anche l’operazione finalizzata a favorire l’altrui evasione fiscale, che implicava anche il mancato versamento dell’IVA da parte della Virgo.
La sentenza risulta perfettamente corrispondente anche all’imputazione relativa all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, nella quale espressamente si fa riferimento al fatto che l’imputato aveva emesso le fatture per operazioni inesistenti, al fine di consentire ad altre società l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Va, peraltro, posto in rilievo che la Corte di appello, con l’affermazione evidenziata dal ricorrente, si è limitata a rappresentare che la tesi difensiva, secondo la quale l’imputato sarebbe rimasto completamente estraneo all’ideazione del meccanismo evasivo, non risulterebbe comunque determinante al fine di escludere la responsabilità penale di quest’ultimo. Evidenziando, però, subito dopo, che la tesi difensiva era infondata anche in fatto, essendovi «plastici indici» del pieno coinvolgimento dell’imputato nell’operazione, essendo egli sicuramente consapevole del fatto che la fallita non poteva emettere fatture per importi milionari, relative ad operazioni di commercio di materiale elettrico, essendo priva di strutture, di magazzini di stoccaggio, di personale dipendente e di mezzi di trasporto.
2.3. Il terzo motivo è inammissibile.
Quanto alla censura relativa all’omessa motivazione sulla richiesta della difesa di assoluzione per non aver commesso il fatto, va rilevato, in primo luogo, che il motivo di appello si presentava del tutto generico, atteso che il ricorrente si era limitato a chiedere: «l’assoluzione di NOME COGNOME per entrambi i reati per i quali era intervenuta condanna in primo grado, con la formula per non aver commesso il fatto».
Sotto altro profilo, va rilevato che, in ogni caso, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo il quale il reato sarebbe stato commesso non dal COGNOME, ma dal COGNOME e dal COGNOME, trova, comunque, adeguata smentita nella sentenza di merito, nella quale si dà atto che la complessa operazione di evasione implicava il
necessario coinvolgimento della società amministrata dal COGNOME che era sicuramente consapevole del fatto che la fallita non poteva emettere fatture per importi milionari, relative a operazioni di commercio di materiale elettrico, essendo priva di strutture, di magazzini di stoccaggio, di personale dipendente e di mezzi di trasporto.
La seconda censura, con la quale il ricorrente sostiene che l’operazione contestata non avrebbe consentito alla Peimar di evadere l’IVA, ma solo di acquistare merce a prezzi concorrenziali, è priva di specificità estrinseca, atteso che, con essa, il ricorrente si limita a reiterare rilievi analoghi a quelli mossi con l’appello, ai quali la Corte territoriale ha risposto con congrua argomentazione in fatto e corretta valutazione in diritto, con le quali il ricorrente non si effettivamente confrontato. La Corte di appello – peraltro riportandosi a quanto già descritto dall’Agenzia delle entrate e illustrato nella sentenza di primo grado ha rappresentato che la fallita aveva operato come mera “cartiera”, interponendosi fittiziamente tra la Oviero e l’effettiva e diretta società acquirente, che era stata la RAGIONE_SOCIALE. Il fittizio passaggio tra la reale venditrice e l’interposta, mediante l’abuso del regime di sospensione, avveniva senza applicazione dell’IVA. Successivamente la stessa merce, con IVA esposta, veniva venduta dall’interposta (che aveva omesso il versamento di qualsiasi imposta) alla reale acquirente, che otteneva il vantaggio di percepire la detrazione dell’IVA, che in realtà non aveva versato alla Virgo, che aveva operato solo fittiziamente.
2.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Per la consolidata giurisprudenza di legittimità, invero, nel motivare il diniego delle attenuanti generiche, è sufficiente un congruo riferimento, da parte del giudice di merito, agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, COGNOME, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244), come avvenuto nel caso in esame (cfr. pagina 12 della sentenza impugnata). La Corte di appello, in particolare, ha ritenuto che non potessero essere riconosciute le attenuanti generiche per la gravità delle condotte fraudolentt poste in essere dall’imputato e per l’entità del passivo che era derivato a carico della società, superiore ai 20 milioni di euro.
Il ricorso di COGNOME NOME è inammissibile.
3.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Le censure mosse dal ricorrente, invero, al pari di quelle mosse dal COGNOME con il primo motivo di ricorso, risultano generiche e versate in fatto.
La censura relativa alla memoria redatta personalmente da COGNOME Pasquale, oltre a essere generica e versata in fatto, è anche manifestamente infondata.
La Corte d’appello, invero, ha dato atto che, nella memoria prodotta dallo stesso COGNOME, l’imputato aveva attribuito a sé la cogestione della società,
unitamente al COGNOME sin da epoca anteriore alla formale assunzione della carica. Pertanto, senza incorre r “rn alcun vizio logico, ha correttamente ritenuto che tale memoria assumesse rilevanza al fine di ritenere dimostrato il ruolo di amministratore della società rivestito dall’COGNOME.
Quanto al fatto che le operazioni sarebbero state realizzate quando l’imputato non aveva ancora assunto la carica di legale rappresentante, va rilevato che, secondo la contestazione, le operazioni erano state commesse tra il 2014 e L ‘i 2017 e l’imputato aveva assunto il ruolo di amministratore unico dal luglio 2016. Senza contare che, nella citata memoria, l’imputato si era attribuito la cogestione della società ancora prima del momento in cui aveva assunto formalmente la carica di legale rappresentante.
Quanto alla dedotta differenza tra il reato di omesso versamento dell’IVA e il reato di bancarotta impropria, va rilevato che la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME, Rv. 273337). Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, poi, ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, COGNOME, Rv. 286349).
Le restanti censure, oltre a essere generiche e versate in fatto, sono poco conferenti.
Per molte di esse, va ribadito quanto già esposto con riferimento al primo motivo del ricorso del COGNOME: che le condotte contestate sono di natura omissiva e riguardano azioni di stretta prerogativa dell’amministratore, che è tenuto a presentare le dichiarazioni fiscali e a pagare i tributi; che il COGNOME aveva riferito che «l’ing. COGNOME era un intermediario della RAGIONE_SOCIALE», ruolo ben diverso da quello di amministratore della società, rivestito dall’imputato; che la logica della complessa operazione di evasione fiscale era quello di avvantaggiare non la Virgo, ma la COGNOME, mediante il “sacrificio” della fallita.
3.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Le deduzioni del ricorrente, invero, sono generiche e poco coerenti.
La deduzione relativa al fatto che l’imputato aveva consegnato al curatore una parte della documentazione, per esempio, appare poco coerente con l’ipotesi
(formulata dallo stesso ricorrente) secondo la quale la contabilità, in epoca anteriore all’il luglio 2016, non sarebbe stata tenuta o non sarebbe stata consegnata all’imputato dal precedente amministratore.
Il ricorrente, inoltre, non si confronta minimamente con la sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte di appello ha evidenziato che la sussistenza della bancarotta documentale era confermata anche dalla condotta tenuta dall’imputato, che aveva cercato di ostacolare la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società, in un primo momento, affermando che la documentazione fosse custodita da un ragioniere, di cui non forniva mai i recapiti, e, in un secondo momento, successivamente all’attivazione della procedura per conseguire la c.d. “pace fiscale” (avviata dopo le contestazioni dell’Agenzia delle entrate), consegnando solo una parte della documentazione, rivelatasi del tutto inattendibile e corredata da rilevanti omissioni (non riportava neppure le operazioni di conto corrente), a causa delle quali non era stato possibile neppure accertare la destinazione di svariati bonifici disposti sui conti della fallita.
3.3. Il terzo motivo è inammissibile.
Va premesso che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi ritenuti rilevanti al fine del riconoscimento o del diniego del beneficio (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269).
Ebbene, nel caso in esame, la Corte di appello, in ordine alle attenuanti generiche, con motivazione adeguata e priva di vizi logici, ha ritenuto che non vi fosse alcun elemento utile a giustificarne il riconoscimento. Ha, poi, ritenuto di scarso rilievo la “biografia penale” dell’imputato, sia perché la mera incensuratezza, di per sé, non è sufficiente al fine del riconoscimento del beneficio, sia perché l’imputato era gravato da un precedente specifico.
Quanto al presunto scarso contributo che l’imputato avrebbe fornito alla commissione dei reati, va rilevato che si tratta di una deduzione di merito che, peraltro, si pone in netto contrasto con la ricostruzione dei fatti e le valutazioni operate dalla Corte di appello.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in euro 3.000,00.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, il 21 marzo 2025
Il
Consigliere estensore
GLYPH
Il P sidente