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Bancarotta impropria: dolo dell’extraneus e nesso

La Corte di Cassazione ha esaminato un caso di bancarotta impropria derivante da un reato societario, consistente in un aumento di capitale fittizio realizzato con obbligazioni contraffatte. La sentenza chiarisce i requisiti dell’elemento soggettivo (dolo) per il concorrente esterno (extraneus) e la sussistenza del nesso di causalità tra l’operazione illecita e il dissesto della società, confermando le condanne degli imputati.

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Pubblicato il 31 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Bancarotta Impropria: la Consapevolezza del Danno ai Creditori è Sufficiente

Con la sentenza n. 6394 del 2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla delicata materia della bancarotta impropria da reato societario, offrendo importanti chiarimenti sul dolo del concorrente esterno (extraneus) e sul nesso causale tra l’operazione illecita e il dissesto. Il caso analizzato riguarda un complesso schema fraudolento basato su un fittizio aumento di capitale sociale, realizzato tramite il conferimento di obbligazioni palesemente contraffatte.

I Fatti di Causa

Una società operante nel settore energetico veniva dichiarata fallita. Le indagini rivelavano che il dissesto era stato causato da una serie di operazioni dolose, la principale delle quali era un massiccio aumento di capitale sociale, da 99.000 euro a oltre 10 milioni di euro. Tale aumento era stato sottoscritto dalla società controllante (socio unico) mediante il conferimento di obbligazioni, apparentemente emesse da un prestigioso istituto bancario internazionale, che si sono poi rivelate totalmente false.

Tre figure chiave sono state coinvolte nel procedimento:
1. Un soggetto, definito fornitore, che ha materialmente procurato le obbligazioni contraffatte.
2. Un secondo individuo che ha agito da intermediario, consegnando i titoli falsi all’amministratore della società controllante.
3. Un consigliere di amministrazione della società fallita.

La Corte d’Appello aveva confermato la loro responsabilità penale per il reato di bancarotta impropria, rideterminando solo la pena a seguito della prescrizione di alcuni reati minori. Contro questa decisione, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione.

La Questione del Dolo nella Bancarotta Impropria

Il cuore della difesa degli imputati esterni alla gestione societaria (il fornitore e l’intermediario) si concentrava sulla presunta assenza dell’elemento psicologico del reato, ovvero il dolo. Sostenevano di non avere la piena consapevolezza che le loro azioni avrebbero inevitabilmente condotto al fallimento della società. In particolare, il fornitore dei titoli falsi lamentava che i giudici non avessero provato la sua conoscenza di tutti i passaggi tecnici dell’operazione, come la necessità di una seconda perizia di stima per finalizzare l’aumento di capitale della società poi fallita.

La Prova del Nesso Causale

L’intermediario, dal canto suo, contestava il nesso di causalità tra la sua condotta (la consegna dei titoli) e il dissesto, avvenuto oltre due anni dopo. A suo dire, questo lasso di tempo e il fatto che i titoli fossero stati conferiti in una società diversa (la controllante) interrompevano il legame causale richiesto per la configurabilità del reato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato i ricorsi del fornitore e dell’intermediario, dichiarando inammissibile quello del consigliere di amministrazione per tardività. Le motivazioni della Corte sono di grande interesse per comprendere i contorni del reato di bancarotta impropria.

Il Dolo dell’Extraneus: Non Serve la Certezza del Fallimento

La Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: per la configurabilità del dolo in capo al concorrente extraneus, non è richiesta la specifica intenzione di provocare il fallimento. È sufficiente la consapevolezza che la propria condotta contribuisce a un depauperamento del patrimonio sociale a danno dei creditori. Nel caso di specie, era considerato “assolutamente inverosimile” che gli imputati, fornendo titoli falsi per un valore di dieci milioni di euro, non si fossero rappresentati la pericolosità della loro azione e le sue probabili conseguenze negative per la società e i suoi creditori. La Corte ha sottolineato che fornire i mezzi per un fittizio aumento di capitale, volto a ottenere finanziamenti altrimenti irraggiungibili, integra pienamente la volontarietà dell’apporto causale all’illecito.

Il Nesso di Causalità e l’Operazione Fraudolenta

La Corte ha anche respinto le argomentazioni sulla presunta assenza del nesso causale. Ha chiarito che, senza quell’aumento di capitale fittizio, la società, priva di reali risorse, sarebbe stata destinata allo scioglimento. L’operazione fraudolenta ha invece consentito alla società di continuare a operare, accumulando ulteriori debiti e aggravando la propria posizione di insolvenza, fino al dissesto finale. Pertanto, la consegna dei titoli falsi è stata una condicio sine qua non del fallimento, un anello essenziale della catena causale che ha portato al danno per i creditori.

Le Conclusioni

La sentenza consolida l’orientamento giurisprudenziale sul reato di bancarotta impropria, specificando che la responsabilità penale si estende anche a chi, pur non essendo un amministratore, fornisce un contributo consapevole e determinante a operazioni dolose che minano la salute finanziaria di un’impresa. La Corte afferma con forza che la rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia patrimoniale per i creditori è sufficiente a integrare il dolo, senza che sia necessario dimostrare una volontà specificamente diretta a causare il fallimento.

Qual è l’elemento psicologico richiesto per condannare un soggetto esterno (extraneus) per concorso in bancarotta impropria?
Secondo la sentenza, non è necessaria l’intenzione specifica di causare il fallimento. È sufficiente la consapevolezza che la propria condotta contribuisce a un depauperamento del patrimonio sociale, mettendo a rischio gli interessi dei creditori. La volontarietà dell’apporto alla condotta illecita dell’amministratore, con la rappresentazione delle sue possibili conseguenze dannose, integra il dolo richiesto.

Come si stabilisce il nesso di causalità tra un’operazione di fittizio aumento di capitale e il successivo fallimento?
Il nesso di causalità sussiste quando si dimostra che l’operazione illecita è stata una condizione necessaria (condicio sine qua non) del dissesto. Nel caso esaminato, la Corte ha stabilito che senza l’aumento di capitale fittizio, la società sarebbe stata posta in liquidazione. L’operazione ha invece permesso la prosecuzione dell’attività, l’accumulo di ulteriori debiti e, infine, il fallimento. La condotta è quindi direttamente legata all’evento.

Il lungo tempo trascorso tra l’azione illecita e il fallimento può interrompere il nesso causale?
No. La Corte ha implicitamente affermato che il lasso temporale di oltre due anni non è, di per sé, sufficiente a interrompere il nesso di causalità. Ciò che rileva è che l’operazione fraudolenta abbia innescato o permesso la continuazione di una situazione di squilibrio economico che ha inevitabilmente portato al dissesto, anche se questo si è manifestato tempo dopo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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