Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 15139 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 15139 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a ARCEVIA il 01/12/1956
avverso la sentenza del 14/06/2024 della CORTE di APPELLO di ANCONA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza n. 472 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ancona in data 16 novembre 2022, emessa a seguito di giudizio abbreviato, NOME COGNOME fu condannato alla pena di 2 anni e 4 mesi di reclusione in quanto responsabile, con l’attenuante prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen. ritenuta equivalente all’aggravante della c.d. continuazione fallimentare contestata in fatto, del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione previsto dagli artt. 110 cod. pen., 216, comma 1, n. 1, in relazione all’art. 223, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, per avere, nelle qualità di amministratore unico fino al 15 ottobre 2011, di presidente del consiglio di amministrazione e di consigliere delegato fino al 11 agosto 2015 e, infine, di liquidatore della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita il 14 aprile 2016, in concorso con NOME COGNOME quale amministratore delegato dal 14 ottobre 2013 al 18 agosto 2015 e consigliere di amministrazione della stessa società per tutta la durata della vita sociale, depauperato il patrimonio societario attraverso la vendita alla RAGIONE_SOCIALE, eseguita con atto del 26 maggio 2015, di un lotto non edificato per complessivi 101.206.200 euro, il cui pagamento non era stato realmente eseguito, posto che, quanto a 60.500 euro, vi era stata la compensazione con un credito di pari importo, vantato dalla RAGIONE_SOCIALE verso la fallenda per i lavori di sbancamento di cui alle fatture n. 4/2015 di 21.500 euro, n. 24/2015 di 23.500 euro e n. 25/2015 di 15.500 euro, in realtà mai verificato per l’assenza di un contratto, di contabilità di cantiere e di documentazione a supporto delle fatture e quanto a 40.760 euro mediante la compensazione con il credito già vantato dalla RAGIONE_SOCIALE di Marca ntognini RAGIONE_SOCIALE verso la fallenda, credito che la RAGIONE_SOCIALE aveva precedentemente acquistato mediante scrittura al 1° aprile 2015 ma in conflitto di interessi con l’acquirente ed essendo la stipula dell’atto avvenuta in una situazione di decozione della venditrice, la quale aveva perso il capitale sociale e si trovava in una situazione che ne avrebbe imposto lo scioglimento, o per avere, comunque, consentito la soddisfazione preferenziale di alcuni creditori, tra cui la RAGIONE_SOCIALE, società collegata alla fallita (capo A); del delitto previsto dagli artt. 110 cod. pen., 217 comma 1, n. 4, r.d. n. 267 del 1942, perché nella qualità indicata, in concorso con COGNOME, avevano aggravato il dissesto della società omettendo di chiedere il fallimento o la messa in liquidazione della stessa dal 2011 poiché, da quell’anno, la società aveva perso il proprio capitale sociale e si trovava nella condizione prevista dall’art. 2482-ter cod. civ. che ne avrebbe imposto lo scioglimento e che tale situazione si era progressivamente aggravata negli esercizi successivi (capo C); del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione previsto dall’art. 216, comma 1, n. 1, r.d. n. 267 del 1942, perché nella qualità già indicata, aveva Corte di Cassazione – copia non ufficiale
depauperato il patrimonio societario attraverso la vendita, con atto del 7 aprile 2016 stipulato pochi giorni prima della sentenza dichiarativa del fallimento, di 3 unità immobiliari a 370.000 euro + IVA (10%) alla RAGIONE_SOCIALE società riconducibile agli stessi COGNOME e COGNOME, essendo stati pagati 248.417,39 euro mediante accollo non liberatorio del mutuo gravante sugli immobili concesso dalla Banca Popolare di Ancona e non essendo stati corrisposti i restanti 158.562,51 euro che avrebbero dovuto essere versati entro il 7 aprile 2017 (capo D); del delitto di bancarotta fraudolenta documentale previsto dall’art. 216, comma 1, n. 2, r.d. n. 267 del 1942, in relazione all’art. 223, r.d. n. 267 del 1942, perché nella qualità già indicata, aveva sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto e di recuperare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scritture contabili con particola riguardo alla mancanza del libro giornale per tutti gli esercizi ad eccezione del 2012, restando incompleta e tale da non consentire la ricostruzione della vita economica della società la documentazione consegnata dal liquidatore dopo il deposito della relazione del curatore fallimentare, pur essa contenendo documenti rilevanti, quali i libri sociali e il libro degli inventari per l’intera vita della (capo E); fatti verificatisi ad Ancona il 14 aprile 2016, data del fallimento. Con lo stesso provvedimento all’imputato era stata applicata la pena accessoria prevista dall’art. 219, ult. comma, legge fall., per la durata di 2 anni.
Con sentenza in data 14 giugno 2024, la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di COGNOME in relazione ai delitti ascrittigli ai capi A), riqualificato come bancarotta preferenziale ai sensi dell’art. 216, comma 3, legge fall., e C), essendo ormai estinti per prescrizione, e ha confermato le precedenti statuizioni di condanna con riferimento ai capi D) ed E), per l’effetto rideterminando la pena finale, riconosciuta la continuazione fallimentare tra i due reati e la continuazione ex art. 81, secondo comma, cod. pen., tra essi e i fatti di cui alla sentenza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ancona in data 1° marzo 2023, irrevocabile il 30 giugno 2023, in 2 anni e 8 mesi di reclusione e 2 anni e 6 mesi delle pene accessorie di cui all’art. 216, ult. comma, legge fall. Con lo stesso provvedimento la Corte di appello sostituì la predetta pena detentiva con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi degli artt. 53 e 56 -bis, legge n. 689 del 1981.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo quattro distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
uL-
3.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 216, comma 1, n. 1, in relazione all’art. 223, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, 49, comma 2, cod. pen., 192, 533 cod. proc. pen., con riferimento all’accertamento dell’elemento oggettivo del delitto contestato al capo D) e, in particolare, alla inidoneità della condotta a produrre l’evento, nonché la mancanza o manifesta illogicità della motivazione relativamente ai suddetti profili.
Dopo avere premesso che il delitto previsto dall’art. 216, comma 1, n. 1, prima parte, legge fall. configura un reato di pericolo concreto e che gli atti depauperativi devono essere idonei, ex ante, a mettere realmente a rischio la garanzia dei creditori della massa fallimentare alla stregua di specifici «indici di fraudolenza» dai quali desumere la concreta pericolosità del fatto distrattivo, la difesa opina che, nel caso di specie, la Corte di appello abbia omesso tale verifica, limitandosi a rilevare la mancata «corresponsione di denaro» e a ritenere non provata l’estinzione del debito nei confronti del creditore, dedotta dalla difesa in ragione della mancata insinuazione al passivo fallimentare da parte del medesimo; e senza confrontarsi con le numerose e articolate risultanze istruttorie rilevanti a tali fini In particolare, essa non avrebbe dato conto che il curatore aveva accertato, mediante c.t.u., la congruità rispetto ai valori di mercato del corrispettivo della cessione (370.000,00 euro), come indicato nella relazione ex art. 33 legge fall., senza considerare che l’atto dispositivo aveva determinato, non la messa in pericolo del patrimonio societario, ma una mera trasformazione della sua natura e composizione, da diritto reale sull’immobile a diritto di credito attraverso l’accollo del mutuo fondiario, che aveva attribuito alla cedente il diritto a fare valere l’obbligazione di facere assunta dalla cessionaria; e che vantando il creditore fondiario una garanzia reale sull’immobile, nessun pregiudizio avrebbero potuto subire né il creditore medesimo né la massa degli altri creditori. E avrebbe dovuto considerare il mancato pagamento da parte della cessionaria alla stregua di un post factum del tutto irrilevante, non potendosi far dipendere il reato contestato da un’omissione di terzi (la cessionaria) in epoca successiva al fatto, riconducendo il mancato pagamento del saldo a una deliberata condotta del curatore, che anziché agire per il recupero del credito alla sua scadenza (7 aprile 2017), aveva preferito far dichiarare l’inefficacia dell’atto dispositivo e far rientrare l’in compendio immobiliare nell’attivo societario. Dunque, se avessero compiuto il necessario giudizio controfattuale, i Giudici di merito avrebbero riconosciuto che per il creditore fondiario non sarebbe cambiato nulla; e che per tutti gli altri creditori sociali vi sarebbe stata, in sede di riparto fallimentare, una provvista superiore al credito che l’atto dispositivo aveva fatto sorgere nei confronti della cessionaria (158.582,61 euro) solo se, in sede di vendita competitiva, si fosse realizzato un corrispettivo superiore al valore di mercato accertato dal C.T.U. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Sotto altro profilo, la Corte di appello avrebbe dovuto confrontarsi con il rilievo della difesa in ordine alla inidoneità (giuridica) dell’atto dispositivo a produrre i distacco dei beni immobili dal patrimonio societario. Infatti, dall’atto di compravendita e dalla documentazione allegata alla relazione ex art. 33, legge fall., si evincerebbe che il fallimento della RAGIONE_SOCIALE era stato dichiarato il 7 aprile 2016, in continuità con la procedura di concordato preventivo, sicché, come affermato nella sua relazione, la vendita dei beni facenti parte dell’attivo avrebbe dovuto essere autorizzata dal giudice delegato ex art. 167 legge fall., di modo che mancando tale autorizzazione, la vendita, compiuta in violazione del divieto di cui all’art. 173 legge fall., sarebbe stata inefficace. Sul punto la Corte di appello si sarebbe limitata a richiamare la giurisprudenza di legittimità con la quale si è affermata l’irrilevanza dell’azione revocatoria fallimentare da parte del curatore, la quale, peraltro, nel caso di specie, avrebbe avuto natura mediante dichiarativa, essendo sufficiente la presa atto – con sentenza dichiarativa dell’inefficacia assoluta dell’atto dispositivo rispetto ai creditori sociali.
3.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 216, comma 1, n. 1, in relazione all’art. 223, r.d. 16 marzo 1942 n. 267, 192 e 533 cod. proc. pen., con riferimento all’accertamento del dolo specifico del reato di cui al capo D), nonché il vizio di motivazione relativamente al suo accertamento, fondato sulla «chiara intenzione fraudolenta» dell’imputato e sulla mancanza di «qualsiasi credibilità» della tesi alternativa secondo cui la vendita mirava a soddisfare i creditori sociali, destinando ai medesimi il saldo che la cessionaria si era obbligata a pagare. In realtà, il reato sarebbe a dolo generico, essendo richiesta la volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni societarie, sicché sarebbe stato necessario contestualizzare l’atto dispositivo e confrontarsi con gli indici di fraudolenza elaborati dalla giurisprudenza di legittimità; ciò che la sentenza non avrebbe fatto.
Il Giudice avrebbe dovuto inquadrare l’atto, e darne conto nella motivazione, come l’epilogo di una serie di precedenti fatti che avrebbero potuto essere accertati dalla relazione ex art. 33 legge fall. e dalla relazione integrativa, ovvero: l’intervenuta cessione dell’attività caratteristica, la messa in liquidazione della società, la transazione con i promissari acquirenti dell’immobile e la risoluzione consensuale dei contratti preliminari, l’avvenuta cessione a terzi un mese prima dell’atto dispositivo di uno dei quattro apparentamenti rimasti nella disponibilità della società, la presentazione della domanda di concordato preventivo, la rinuncia alla domanda. L’esame di tali eventi avrebbe consentito al Giudice di verificare che, al 7 aprile 2016, l’imputato aveva l’unico obiettivo di reperire un compratore per monetizzare il residuo attivo del patrimonio societario, da utilizzare per pagare i creditori, essendo le due poste più o meno equivalenti, considerato che, come
risulterebbe dalla relazione integrativa del curatore, i debiti principali concernevano le posizioni INAIL ed INPS, nel loro complesso pari a 170.000,00 circa; e che l’accollo del residuo debito fondiario e l’impegno a versare il saldo di 158.582,61 euro da parte della cessionaria, erano una delle strade da percorrere per giungere a quell’obiettivo e non il mezzo per ostacolare i creditori, anche perché il ricavato dalla vendita in sede concorsuale sarebbe stato, ragionevolmente, inferiore al prezzo di mercato concordato con la cessionaria, conseguibile con tempi notevolmente più lunghi.
Sotto altro profilo, la Corte territoriale avrebbe omesso di argomentare su quale fosse l’effettivo vantaggio che la cessionaria poteva trarre da tale operazione, posto che quest’ultima di fatto acquistava un bene del valore di 370.000,00 euro gravato da un mutuo fondiario di 248.417,39 euro e si obbligava entro un anno dal rogito a versare il saldo di 158.582,61 euro, sicché nessun incremento patrimoniale o concreto vantaggio la cessionaria poteva ragionevolmente conseguire da tale negozio, posto che, nel suo patrimonio, entrava un immobile che la cedente non era riuscita a piazzare sul mercato, in una fase di forte diminuzione della domanda, come riportato nella relazione ex art. 33, legge fall.
3.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 216, comma 1, n. 2, in relazione all’art. 223, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, 192 e 533 cod. proc. pen., con riferimento alla mancata dimostrazione degli elementi del reato di bancarotta documentale fraudolenta contestato al capo E), nonché la mancanza o manifesta illogicità della motivazione relativamente alla prova della sussistenza di essi e la mancata derubricazione nel reato di cui all’art. 217, comma 2, legge fall.
Dopo avere premesso che la prima contestazione formulata con l’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. del 14 giugno 2016 concerneva la violazione dell’art. 217, comma 2, legge fall. per «non aver tenuto i libri contabili e le altre scritture contabili previsti dalla legge» o comunque «per averli tenuti in maniera irregolare o incompleta tale da non consentire di ricostruire in modo completo la vita della società» e che solo all’esito dell’interrogatorio dell’imputato l’imputazione originaria era stata modificata, contestando la violazione di cui all’art. 216, comma 1, n. 2, legge fall. in ragione della mancanza del libro giornale, ritenuta funzionale a «procurare a sé e ad altri un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori», il ricorrente lamenta che la Corte di appello non avrebbe dimostrato che lo scopo dell’omissione sia stato quello di recare pregiudizio ai creditori, avuto riguardo agli indici elaborati dalla giurisprudenza, come, ad esempio, la coincidenza tra l’omissione e l’affermarsi di una condizione di insolvenza; l’accertamento di condotte distrattive specifiche; la totale irreperibilità del legale rappresentante
dell’azienda o la mancata cooperazione dello stesso con gli organi della procedura fallimentare. Infatti, la Corte territoriale avrebbe dovuto spiegare sotto quale profilo, in concreto, l’omessa tenuta (o l’omessa consegna al curatore) del libro giornale per gli anni 2013, 2014 e 2015 avrebbe procurato un vantaggio all’imputato e/o a terzi, onde dimostrare che l’omissione o la distruzione del libro giornale fossero funzionali alla dissimulazione degli atti distrattivi contestati. In realtà, l’imputato non avrebbe potuto conseguire alcun vantaggio dalla mancanza, nella contabilità della società, del libro giornale, atteso che le due operazioni contestate all’imputato (quella del 2015 e quella del 2016 oggetto del presente ricorso per cassazione) erano confluite in due atti pubblici, documentante con fatture regolarmente registrate, e – con particolare riferimento alla seconda – poste in essere dopo aver interessato il Tribunale fallimentare con una domanda di concordato preventivo.
In ogni caso, l’accoglimento dei primi due motivi farebbe venir meno la premessa accolta dalla Corte di appello, ovvero la funzionalità della condotta di cui al capo E) rispetto alla condotta di cui al capo D).
3.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il mancato esame del motivo di appello aggiunto con memoria depositata in data 28 maggio 2024 e, dunque, l’assenza o illogicità della motivazione in ordine al giudizio di bilanciamento tra la attenuante specifica prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen. e l’aggravante della c.d. continuazione fallimentare, anche a seguito della estinzione per prescrizione dei reati contestati ai capi A) e C). La Corte di appello avrebbe confermato il giudizio di equivalenza tra le predette circostanze senza pronunciarsi sul motivo aggiunto con cui si era chiesto il riconoscimento della prevalenza dell’attenuante a cagione della prescrizione del reato di cui al capo C), né avrebbe spiegato perché, a seguito della declaratoria di prescrizione anche del reato di cui al capo A), non fosse necessario un nuovo giudizio di bilanciamento, che in primo grado aveva riguardato i 4 reati contestati ai capi A), C), D) ed E), laddove all’esito del giudizio di secondo grado erano stati accertati solo i fatti di cui ai capi D) ed E). La mancanza di motivazione sul punto integrerebbe violazione degli artt. 62, n. 6, 133 cod. pen., 192 e 533 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Con il primo motivo, il ricorso deduce il vizio di violazione di legge nell’accertamento dell’elemento oggettivo con riguardo al delitto contestato al
capo D) e rispetto alla ritenuta insussistenza, nella specie, del cd. reato impossibile.
2.1. Deve, in primo luogo, rilevarsi, quanto alla sussistenza dell’elemento oggettivo, che l’interesse tutelato dal delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale contemplato dall’art. 216, comma 1, n. 1, legge fall., è quello dei creditori alla conservazione della garanzia costituita dal patrimonio della società debitrice e che la fattispecie in parola ha natura di reato di pericolo (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, COGNOME, Rv. 269562 e Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683), dovendo le condotte distrattive essere idonee, alla stregua di un giudizio che va collocato ex ante, a mettere realmente a rischio la garanzia dei creditori (così Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, COGNOME, in motivazione), dovendo esse concretizzare «una sottrazione, un permanente segno “meno” nel patrimonio» della società (Sez. 5, n. 16388 del 23/03/2011, COGNOME, in motivazione). Ne consegue che integra un atto distrattivo qualunque condotta dell’amministratore che determini un effettivo depauperamento del patrimonio dell’impresa o che sia anche soltanto potenzialmente idonea a porre in pericolo, seppur concreto, le ragioni dei creditori.
Nel caso di specie, la natura distrattiva delle cessioni di immobili poste in essere dalla fallita è stato desunto, in maniera del tutto logica, dal fatto che le operazioni in questione siano state effettuate senza alcun corrispettivo in denaro, ma solo mediante l’accollo, da parte dell’acquirente, del mutuo concesso dalle banche creditrici ipotecarie; accollo che, come specificato dalle sentenze, era però cumulativo e, dunque, era avvenuto senza liberazione della fallita, che aveva ceduto i propri beni, tuttavia mantenendo, senza avere neppure più i beni con cui farne fronte, l’intero relativo debito nei confronti degli istituti di credito, c danneggiando gli altri creditori, costretti a soddisfarsi sui beni sociali residui, su cui i creditori ipotecari potevano parimenti tentare, sia pure senza essere assistiti da alcuna garanzia privilegiata, il soddisfacimento delle proprie pretese.
A ciò si aggiunga che, come posto in luce dalle sentenze di merito, il residuo prezzo che l’acquirente, la RAGIONE_SOCIALE si era obbligata a versare, in realtà non era stato pagato; e che COGNOME era componente della compagine di tale società: circostanze, queste, che correttamente sono state qualificate come «indici di fraudolenza» dai quali desumere, accanto all’elemento soggettivo del dolo, la concreta pericolosità delle operazioni di cessione degli immobili (cfr. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763).
2.2. Quanto alla dedotta configurabilità, nella specie, di un’ipotesi di reato impossibile, conseguente alla revocabilità dell’atto di vendita e alla conseguente inidoneità della condotta a determinare la lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, deve osservarsi che, in realtà, detta revocabilità non esclude
la rilevanza della condotta de qua ai fini della integrazione del delitto di bancarotta per distrazione.
Infatti, la sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria determina una inefficacia relativa nei confronti del soggetto procedente, che, nel caso della revocatoria fallimentare, va identificato nel fallimento, rappresentato dal curatore; soggetto che, conseguentemente, può sottoporre ad esecuzione i beni oggetto della cessione revocata. La consolidata giurisprudenza di legittimità, invero, ha reiteratamente affermato che l’azione revocatoria esperita, ai sensi degli artt. 66 e 67 legge fall., in favore del disponente fallito, non determina alcun effetto restitutorio né traslativo, ma comporta la semplice inefficacia relativa dell’atto rispetto alla massa dei creditori, senza caducare, a ogni altro effetto, l’atto di alienazione (v. Cass. civ., Sez. U, n. 9660 del 23/04/2009, Rv. 607891 – 01 e, nella giurisprudenza successiva, Sez. 3, n. 24950 del 06/11/2020, Rv. 659770 02). Pertanto, l’azione revocatoria non determina il rientro del bene nel patrimonio del fallito e la relativa decisione ha natura costitutiva dell’effetto e non di mero accertamento, atteso che essa modifica ex post una situazione giuridica preesistente, privando di effetti atti che avevano già conseguito piena efficacia e determinando la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale e alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto dispositivo (Cass. civ., Sez. U, n. 30416 del 23/11/2018, Rv. 651808 – 02). Ne discende che la revocabilità dell’atto traslativo non esclude che esso abbia, comunque, determinato l’uscita del bene dalla massa fallimentare, determinando una concreta idoneità dell’operazione a porre in pericolo l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.
2.3. Consegue alle considerazioni che precedono la complessiva infondatezza del primo motivo di ricorso.
Venendo, indi, al secondo motivo, relativo alla configurabilità dell’elemento soggettivo, va ribadito che ai fini della configurabilità della bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione il dolo richiesto è quello generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805 – 01).
Nel caso di specie, l’atto era stato compiuto, senza l’autorizzazione del giudice delegato richiesta dall’art. 176 legge fall., mentre era in corso una procedura di concordato preventivo e, anzi lo stesso giorno in cui era stato dichiarato il fallimento, sicché la valutazione compiuta dalle due sentenze di merito in ordine alla natura fraudolenta dell’operazione si rivela immune da profili di manifesta
illogicità e non è censurabile a favore delle letture alternative del compendio probatorio suggerite dalla difesa.
Pertanto, anche il secondo motivo deve essere disatteso, stavolta in quanto inammissibile.
Quanto, poi, al terzo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione con riguardo al delitto contestato al capo E) e la mancata derubricazione del fatto nell’ipotesi di bancarotta semplice di cui al comma 2 dell’art. 217, legge fall., va ricordato che l’occultamento delle scritture contabili, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, richiede, diversamente da quello di bancarotta semplice, il dolo specifico dell’intento di recare pregiudizio ai creditori (così Sez. 5, n. 25432 del 11 aprile 2012, De Mitri, Rv. 252992 – 01). Tale scopo, secondo la giurisprudenza, può essere desunto dalla complessiva ricostruzione della vicenda, dalle circostanze del fatto che ne caratterizzano la valenza fraudolenta, colorando di specificità l’elemento soggettivo (così Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Rv. 284304 – 01).
Nel caso di specie, i Giudici di merito (v. pag. 10 della sentenza impugnata), muovendo dall’evidenza della regolare tenuta del libro giornale in anni precedenti (nel 2012) e dal fatto che alcune delle scritture contabili erano state tardivamente consegnate all’atto dell’interrogatorio di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., sono pervenuti alla conclusione, con motivazione tutt’altro che illogica, che le scritture non consegnate, a prescindere dal fatto che non fossero mai state tenute o fossero state successivamente sottratte o distrutte, non fossero state messe deliberatamente a disposizione della curatela e che tale circostanza fosse dimostrative della sussistenza del richiesto dolo specifico.
Pertanto, anche il terzo motivo deve essere ritenuto infondato.
Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente ha dedotto la assenza o comunque la illogicità della motivazione in ordine al giudizio di bilanciamento tra l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen. e l’aggravante della cd. continuazione fallimentare.
Sul punto, va osservato che il giudizio di bilanciamento tra le circostanze aggravanti e le circostanze attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito, che è insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., senza che occorra un’analitica esposizione dei criteri di valutazione all’uopo adoperati (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Rv. 279838 02; Sez. 4, n. 10379 del 26/03/1990, Rv. 184914 – 01; Sez. 1, n. 3163 28/11/1988, dep. 1989, COGNOME Rv. 180654 – 01).
Nel caso di specie la motivazione offerta dalla sentenza di secondo grado, che ha fatto riferimento, nell’ambito del giudizio di esclusione delle attenuanti
generiche, sia alla gravità della condotta ascritta all’imputato, sia al negativo quadro di personalità di quest’ultimo, ha implicitamente evidenziato gli elementi
posti a fondamento del rinnovato giudizio di bilanciamento, confermato dalla Corte di appello con valutazione di merito tutt’altro che illogica, come tale non
sindacabile in sede di legittimità.
Ne consegue, dunque, l’infondatezza anche della presente censura.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in data 25 febbraio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente