Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 2511 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 2511 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MONTEGIORGIO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 11/04/2023 della CORTE APPELLO di ANCONA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Lette le conclusioni del Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, per la parte civile curatela fallimentare, che ha chiesto il rigetto del ricorso, la conferma delle statuizioni civili e la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata è stata emessa 1’11 aprile 2023 dalla Corte di appello di Ancona, che ha riformato parzialmente la decisione del Tribunale di Fermo che aveva condannato NOME COGNOME per una serie di reati fallimentari commessi in relazione alla società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita dal Tribunale di Fermo il 9 aprile 2010.
La riforma in appello è consistita nella declaratoria di prescrizione in ordine alla bancarotta semplice, con conseguente ridimensionamento del trattamento sanzionatorio.
Avverso la sentenza anzidetta, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia.
L’unico motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla bancarotta fraudolenta distrattiva. L’affermazione di penale responsabilità dell’imputato si basa esclusivamente sull’accertamento del consulente tecnico del pubblico ministero, che aveva semplicemente rilevato l’erronea iscrizione a bilancio di poste asseritamente fittizie, ma senza nessun elemento probatorio di supporto. L’intera istruttoria non avrebbe evidenziato il coinvolgimento dell’imputato. Inoltre la sentenza impugnata sarebbe illogica laddove la Corte di appello non avrebbe recepito la censura del ricorrente circa la mancanza del coefficiente soggettivo del reato, costituito – si legge nel ricorso – dalla volontà di arrecare danno alle ragioni creditorie per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Venendo all’operazione con la Bijoux accessori, il ricorrente lamenta omessa motivazione sulle doglianze illustrate nell’atto di appello. La parte sostiene, infatti, che non vi sarebbe stata né distrazione, né occultamento e che le operazioni fittizie – come denunziato nell’appello – erano prive di movimentazione finanziaria e, pertanto non potevano avere arrecato alcun vantaggio. La sentenza impugnata sarebbe in contraddizione con quella del Tribunale di Fermo che aveva assolto COGNOME dai reati di cui agli artt. 2 e 8 D.Igs. 74 del 2000 per assenza di effettive movimentazioni finanziarie. La Corte di appello si sarebbe ampiamente contradetta laddove ha statuito che l’apparente pagamento delle fatture con la Bijoux accessori sarebbe stato finalizzato a giustificare una diminuzione di una parte del patrimonio la cui destinazione, non essendo nota, è da intendere quale distrazione. Corte di RAGIONE_SOCIALEzione – copia non ufficiale
Il ricorso accenna, poi, al diniego delle circostanze attenuanti generiche in termini di prevalenza rispetto alle aggravanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
In punto di responsabilità, innanzitutto il ricorso si compone di considerazioni teoriche e poi propugna una propria tesi – quella, cioè, dell’assenza di un’effettiva fuoriuscita di ricchezze dalla società fallita – senza tuttavia tenere conto che la sentenza di primo grado (non specificamente
confutata sul punto nell’atto di appello) e la sentenza di appello restituiscono il quadro di un’attività realmente depauperativa, rispetto alla quale le falsità contabili costituivano solo una modalità di mascheramento, tesa a giustificare operazioni predatorie ai danni della società, operazioni realmente attuate.
Ne risulta un assetto censorio non in linea con quanto richiesto dalla disciplina del giudizio di cassazione e dalla giurisprudenza di questa Corte; a questo proposito, il Collegio accede all’esegesi – fatta propria anche dalle Sezioni Unite – secondo cui, nel giudizio presso la Corte di cassazione, non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali; l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha, infatti, un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, se non, in quest’ultimo caso, nelle ipotesi di errore del giudice nella lettura degli atti interni del giudizio denunciabile, sempre nel rispetto della catena devolutiva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), ultima parte, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 14722 del 30/01/2020, COGNOME, Rv. 279005, in motivazione; Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260). Non vi è spazio, dunque, per l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; pronunzia che trova precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, COGNOME, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507). In questa ottica si collocano anche le pronunzie secondo le quali, pur a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. Corte di RAGIONE_SOCIALEzione – copia non ufficiale
273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME e altri, Rv. 238215).
Quanto alla mancata considerazione – agitata nel ricorso – dell’esito del processo a carico del ricorrente per le violazioni tributarie, il ricorso è generico, nella misura in cui non illustra adeguatamente – con la specificità richiesta per l’impugnativa di legittimità – quale sia l’inconciliabilità tra le due pronunzie (forse anche per un errore redazionale, in quanto la censura vede un periodo monco, cfr. pag. 4 del ricorso).
Quanto alla critica circa il giudizio di mera equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante dei più fatti di bancarotta, il ricorso è inammissibile giacché la Corte di cassazione non può censurare le scelte dei giudici di appello sul punto, che implicano una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito e sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione (in questo caso legata all’entità delle distrazioni), tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245930; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, COGNOME, Rv. 270450).
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della RAGIONE_SOCIALE delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
All’esito odierno del giudizio non consegue, invece, la condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, giacché il difensore di quest’ultima non ha svolto alcuna utile attività difensiva, limitandosi a concludere per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso e la conferma delle statuizioni civili. A questo riguardo, il Collegio intende dare seguito agli insegnamenti di Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886 (non massimata sul punto), secondo cui, con riferimento al giudizio di legittimità celebrato con rito camerale non partecipato, anche laddove previsto dalla normativa introdotta per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid19, la parte civile, pur in difetto di richiesta di trattazione orale, ha diritto
ottenere la liquidazione delle spese processuali purché abbia effettivamente esplicato, anche solo attraverso memorie scritte, un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria, fornendo un utile contributo alla decisione.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE delle ammende. Nulla sulle spese in favore della parte civile.
Così deciso l’1/12/2023.