Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 27579 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 27579 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a BARI il 17/09/1956
avverso la sentenza del 08/10/2024 della Corte d’appello di Lecce- Sez. distaccata di Taranto
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
Udita la relazione svolta dai Consigliere NOME COGNOME;
Letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Lecce, Sez.distaccata di Taranto, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto che aveva condannato COGNOME NOME alla pena di due anni di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta, relativa alla distrazione di beni per un valore di euro 5.848,50, assolvendo l’originario coimputato COGNOME Vincenzo per non avere commesso il fatto.
Il Tribunale aveva dichiarato l’imputato colpevole, nella qualità di amministratore e legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE dal 7 marzo 2014 al 22 aprile 2015 (data del fallimento), ritenendo provata la
distrazione di beni aziendali (compresa una cella frigorifera, del valore di euro 5.848,50) non rinvenuta dal curatore al momento della redazione dell’inventario dei beni della società fallita.
L’imputato, per il tramite del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
2.1. Con primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 216, comma 1 n, 1, Legge fall. per essere stata la distrazione configurata in relazione a beni dal valore irrisorio, pur essendo stato, inoltre, il mancato rinvenimento degli stessi smentito da una fattura, emessa dalla stessa curatela, in data 5 febbraio 2016, avente ad oggetto “la vendita a corpo del complesso dei beni del fallimento”. I beni e le attrezzature, essendo stati venduti dalla curatela, non potevano che essere presenti al momento dell’inventario.
2.2. Con secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 530, comma 2, cod.proc.pen., deducendo la mancanza di prova idonea e sufficiente per un giudizio di condanna rilevando che, nella fattura di vendita di beni inventariati, risultavano inclusi i medesimi beni che il curatore, nella sua relazione, affermava non essere stati rinvenuti.
2.3. Con terzo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 42 e 43 cod. pen. deducendo la mancanza di prova del dolo, evidenziando che l’imputato, essendosi occupato di vendita all’ingrosso di pesce, non aveva una cognizione precisa sui macchinari presenti in azienda né della loro sostituzione.
2.4. La difesa ha, altresì, depositato motivi aggiunti.
2.4.1.Con primo motivo ha denunciato violazione di legge penale, in particolare dell’art. 2, comma 4, cod.pen., sostenendo che la previsione dell’art. 131 bis co.pen., vigente al momento della presunta commissione del reato (22.04.2015), sia più favorevole di quella vigente che limita l’applicabilità della esimente ai reati puniti con pena minima fino a due anni.
2.4.2. GLYPH Con secondo motivo ha denunciato violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 131 bis cod.pen. ed agli artt. 3 e 24 Cost. evidenziando una disparità di trattamento tra chi è imputato di reati con pena minima fino a due anni e chi, come l’imputato, è stato condannato alla pena di due anni di reclusione per un fatto di particolare irrisorietà tenuto conto del modesto valore dei beni distratti.
3.11 Sostituto Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1.1 primi due motivi sono inammissibili.
La difesa deduce, dopo un richiamo al valore definito irrisorio dei beni distratti ( quantificato in una somma di poco superiore a cinquemila euro), che la prova della insussistenza di un fatto distrattivo dovrebbe essere ricavata dalla circostanza che, in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento, il curatore avrebbe proceduto ad una “vendita a corpo del complesso dei beni aziendali”, ipotizzando che anche i beni dichiarati non rinvenuti dal curatore, ed oggetto dell’odierna contestazione, siano stati inclusi nella suddetta operazione di vendita. A tale proposito, tuttavia, appare agevole considerare che la deduzione difensiva si fonda su un presupposto rimasto indimostrato, cioè che l’operazione di vendita abbia avuto ad oggetto i medesimi beni che il curatore aveva indicato come non rinvenuti e che abbia riconnpreso l’integralità dei beni aziendali, compresi quelli che avrebbero dovuto essere presenti in azienda al momento della redazione dell’inventario, dopo la dichiarazione di fallimento della società.
La doglianza, oltre che assertiva, non si confronta con la motivazione resa dalle sentenze di merito, secondo cui al momento della redazione dell’inventario, non sono stati rinvenuti beni, indicati come presenti nel libro dei beni ammortizzabili, alla data del 31.12.2014, in quanto oggetto di precedente annotazione contabile effettuata dal medesimo ricorrente.
Inoltre, l’argomentazione proposta non ha costituito motivo di appello e, secondo l’insegnamento di questa Corte, la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt.606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., dispone che non possano essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, a meno che siano rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio o si tratti di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello ( ipotesi non configurabile nel caso in esame). Tale regola trova il suo fondamento nella necessità di evitare che possa sempre essere dedotto un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non sottoposto al controllo della Corte di Appello, in quanto non devoluto con l’impugnazione (Sez. 2, n. 6131 del 29/01/2016, COGNOME, Rv.26620201; Sez.4, n.10611 del 4/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv.25663101). Dalla lettura delle suindicate disposizioni, in combinato disposto con l’art.609, comma 1, cod. proc. pen., che limita la cognizione della Corte di Cassazione ai motivi di ricorso
consentiti, deve evincersi, pertanto, l’inammissibilità delle censure che non siano state, pur potendolo essere, sottoposte al giudice di appello, la cui pronuncia sarà inevitabilmente carente con riguardo ad esse (Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, COGNOME, Rv. 26963201; Sez.5, n.28514 del 23/04/2013, COGNOME, Rv. 25557701; Sez.2, n.40240 del 22/11/2006, COGNOME, Rv.23550401; Sez.1, n.2176 del 20/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv.19641401).
2.È, altresì, manifestamente infondato il terzo motivo. Il ragionamento seguito dalla Corte territoriale, nel respingere doglianza difensiva analoga a quella veicolata attraverso il ricorso, deve ritenersi esente da vizi e conforme all’insegnamento di questa Corte secondo cui, nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova dell’elemento soggettivo può ben essere desunta dai c.d. “indici di fraudolenza” delle condotte, poste in essere nella fase precedente al fallimento, allorquando la condizione patrimoniale e finanziaria della società era già in crisi (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763). Inoltre, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, secondo quanto ribadito dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte, è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805).
Nella fattispecie, le doglianze difensive sono generiche e non si confrontano con le ragioni della decisione impugnata che ha evidenziato il fatto che l’imputato abbia annoverato i beni in contestazione fra i beni ammortizzabili, alla data del 31.12.2014 qualche mese prima della dichiarazione di fallimento, omettendo successivamente di fornire qualsiasi indicazione al curatore fallimentare in merito al mancato rinvenimento dei medesimi beni, traendo ragionevolmente da tali circostanze la conclusione che il suddetto abbia agito con la consapevolezza della dispersione delle garanzie per i creditori. Le ulteriori deduzioni difensive legate alla circostanza che l’imputato non avrebbe avuto cognizione dei beni presenti in azienda, in quanto impegnato nell’attività di vendita del pesce, è meramente assertiva oltre che non logicamente sostenibile se si considera, peraltro, che fra i beni non rinvenuti era inclusa una cella frigorifera, bene direttamente inerente e collegato proprio all’attività indicata come concretamente svolta.
3.Sono manifestamente infondate anche le doglianze proposte con i motivi aggiunti, che lamentano l’omesso proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. Tali doglianze devono ritenersi, innanzitutto, inedite in quanto collegate alla nuova
formulazione della norma, come modificata dall’art. 1 D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, in un momento antecedente alla proposizione dell’appello e alla stessa definizione del giudizio di primo grado, ovvero fondate su un profilo di successione di norme che avrebbe ben potuto essere dedotto attraverso i motivi di appello.
Ma in ogni caso la prospettazione difensiva- nella parte in cui ritiene che la fattispecie possa essere ricondotta nell’alveo applicativo della nuova norma che, nell’individuare l’ambito oggettivo di applicabilità dell’istituto, fa riferimento a rea per i quali è prevista «la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni»non sarebbe dirimente essendo la fattispecie in esame punita con pena della reclusione «da tre a dieci anni». Sia che si faccia riferimento alla precedente formulazione della norma, che individuava i reati puniti con pena detentiva superiore nel massimo a cinque anni, ovvero alla nuova formulazione, che limita l’applicazione dell’istituto ai soli reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, deve, pertanto, essere confermata la non applicabilità della causa di non punibilità invocata.
Le censure ulteriori, legate ad un ipotizzato profilo di incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sono generiche e palesemente infondate in quanto la determinazione dei limiti di pena entro cui può operare la causa di non punibilità è espressione della discrezionalità legislativa. Invero, per costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, le cause di non punibilità costituiscono deroghe a norme penali generali, sicché la loro estensione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti (rispettivamente a sostegno della norma generale e di supporto alla norma derogatoria), e tale giudizio appartiene primariamente al legislatore (Corte Cost. n. 156 del 2020, n. 140 del 2009 e n. 8 del 1996), essendo sindacabile soltanto per irragionevolezza manifesta (Corte Cost. n. 30 del 2021, n. 156 del 2020 e n. 207 del 2017).
Proprio muovendo dalla superiore premessa, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 207 del 2017, ha rilevato l’esigenza di salvaguardare la discrezionalità legislativa espressasi nella posizione del limite massimo dei cinque anni, «che non può considerarsi, né irragionevole, né arbitrario» rientrando «nella logica del sistema penale che, nell’adottare soluzioni diversificate, vengano presi in considerazione determinati limiti edittali, indicativi dell’astratta gravità dei reati».
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 04/06/2025
Il Consigliere estensore
ANDREINA OC GLYPH
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Il Presidente
NOME