Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13623 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13623 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a San NOME Bianco il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 09/02/2023 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; lette le richieste del difensore della parte civile RAGIONE_SOCIALE, AVV_NOTAIO NOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso e ha fatto pervenire conclusioni scritte e nota spese; lette le richieste del difensore, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Milano del 17 dicembre 2020 che, per quanto di interesse in questa sede, aveva affermato la penale responsabilità di NOME COGNOME per i reati di bancarotta fraudolenta
documentale (capo A) e patrimoniale (capo B) unificati a fini sanzionatori in un unico delitto di bancarotta fraudolenta aggravata ex art. 219, secondo comma, n. 1, r.d. n. 267 del 1942 e lo aveva condannato alle pene, anche accessorie, ritenute di giustizia, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile RAGIONE_SOCIALE, incorporante la RAGIONE_SOCIALE
In particolare, la Corte territoriale ha prosciolto NOME COGNOME dall’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale per non aver commesso il fatto e, applicando le circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante, ha ridotto la sola pena principale, confermando nel resto la sentenza impugnata.
All’esito del giudizio di appello NOME COGNOME risulta condannato per avere, quale amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE dalla sua costituzione sino al 2 luglio 2013 e poi quale amministratore di fatto della stessa sino al suo fallimento dichiarato in data 30 aprile 2015, posto in essere varie condotte distrattive e precisamente per avere effettuato prelievi ingiustificati di somme dai conti correnti bancari intestati alla predetta società (sottocapi 1 e 2), per essersi arbitrariamente attribuito compensi personali senza che in proposito fosse intervenuta alcuna delibera di alcun organo della società (sottocapo 3) e per avere trasferito mediante bonifico su un conto a lui intestato somme esistenti su un conto corrente bancario intestato alla società (sottocapo 4).
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME, a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed affidando le sue censure a due motivi di impugnazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la carenza di motivazione in ordine ad alcuni motivi di gravame relativi all’affermazione della sua penale responsabilità.
Le scritture contabili erano state sequestrate presso l’abitazione del coimputato NOME COGNOMECOGNOME amministratore di diritto della società fallita, e po trasmesse al Pubblico ministero, ma non erano mai confluite nel fascicolo delle indagini preliminari e poi nel fascicolo per il dibattimento e nemmeno erano state poste a disposizione del curatore fallimentare, che non aveva potuto stabilire quali fossero i compensi attribuiti dalla fallita all’amministratore o qua pagamenti fossero stati effettuati con le somme di denaro prelevate in contanti o il momento in cui era insorto il dissesto, rilevante ai fini della conoscibilità de indici di crisi finanziaria da parte dell’amministratore.
In conseguenza della dispersione delle scritture, era divenuto impossibile ricostruire il movimento degli affari e quindi anche verificare se i compensi fossero stati legittimamente percepiti dal ricorrente e se i prelievi in contante
fossero giustificati da successive spese effettuate nell’interesse della società.
Tale rilievo non era stato tenuto in alcun conto dalla Corte territoriale.
Con l’atto di appello era stato dedotto che l’imputato, amministratore e socio unico della fallita, si era attribuito i compensi in un momento in cui la società non versava in stato di dissesto e neppure erano ravvisabili chiari segnali di allarme di una sua crisi nel periodo in cui erano stati commessi i fatti oggetto di contestazione.
La Corte di appello ha replicato che il COGNOME aveva ceduto una società in dissesto e privata della sua liquidità, ma trattasi di affermazione sfornita d prova, non potendo valere a tal fine gli argomenti contenuti nell’atto di appello, in cui si evidenziava che l’unico creditore insoddisfatto era la RAGIONE_SOCIALE nei confronti della quale il COGNOME si era impegnato ad un rimborso rateale del debito successivamente all’alienazione dell’azienda. Nell’atto di appello non si affermava che il debito di euro 47.850,00 non fosse onorabile dalla RAGIONE_SOCIALE, ma solo che il COGNOME, denunciato per truffa, si era impegnato a versare quanto dovuto dalla società.
Lo stato di dissesto della società al tempo dei prelevamenti effettuati dal COGNOME neppure poteva evincersi dagli estratti conto bancari, poiché al momento della cessione della società a terzi questa era operativa e aveva in corso numerosi rapporti contrattuali che avrebbero generato flussi di cassa anche dopo la cessione.
Le giustificazioni dei prelievi bancari e le delibere che stabilivano l’entità de compensi spettanti al COGNOME quale amministratore della società poi fallita erano tra le scritture contabili, consegnate al COGNOME al momento della cessione delle quote e poi sequestrate dalla polizia giudiziaria.
La sentenza di appello tace sul punto, poiché il COGNOME è stato assolto dall’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale, e riconosce che la mancanza delle scritture ha reso impossibile verificare se fossero stati rispettati gli oneri formali per l’attribuzione dei compensi all’amministratore e se i prelevamenti in contanti integrassero il pagamento di tali compensi e tuttavia, del tutto illogicamente, sulla base della mancanza delle scritture la Corte di appello giunge ad affermare la penale responsabilità dell’imputato.
Le scritture erano state regolarmente tenute ed erano state sequestrate presso l’abitazione del COGNOME, ma non erano state poi consegnate al curatore fallimentare.
Quanto ai sottocapi 1) e 2) del più ampio capo di imputazione distinto dalla lettera B), essi ben potevano trovare giustificazione nel pagamento di debiti societari nei confronti di fornitori ed altri creditori sociali ed in conseguenza del dispersione delle scritture contabili non era possibile smentire siffatta
conclusione.
In relazione alle condotte contestate ai sottocapi 3) e 4) del più ampio capo di imputazione distinto dalla lettera B), i bonifici erano stati effettu dall’imputato al fine di corrispondere a se stesso gli emolumenti a lui spettanti quale amministratore. Lo stesso curatore fallimentare aveva affermato durante la sua deposizione al COGNOME non erano mai stati corrisposti dalla società emolumenti per la sua attività diversi da quelli che contestati ai sottocapi sopra indicati e che non vi era una disposizione periodica di ernolumenti nei suoi confronti. Né poteva rilevare che i bonifici fossero sedici e non corrispondessero ad un bonifico per ciascun mese dell’anno.
In ogni caso, con l’atto di appello si era dedotto che la corresponsione di tali emolumenti poteva assumere natura distrattiva solo se i compensi fossero stati erogati in misura esorbitante rispetto alla situazione in cui versava la società, mentre non era emerso alcun elemento che potesse far ritenere che già nel 2013 la società versasse in stato di dissesto o che le somme, pari ad euro 2400,00 mensili, fossero sproporzionate rispetto all’attività svolta dal COGNOME quale amministratore.
Il reato andava, quindi, semmai riqualificato come bancarotta preferenziale.
In ogni caso il COGNOME era amministratore e socio unico della società ed aveva il potere di deliberare lui stesso il proprio compenso.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole, in relazione alle statuizioni civili, del travisamento operato dalla Corte territoriale che ha ritenuto erroneamente che la parte civile costituita fosse la curatela della società dichiarata fallita, mentre in realtà la RAGIONE_SOCIALE, incorporata dalla RAGIONE_SOCIALE, era un mero creditore della fallita, cosicché tutto il ragionament posto a base della conferma delle statuizioni civili risulta viziato manifestamente illogico.
Inoltre, la Corte territoriale neppure avrebbe dato risposta al rilievo, formulato con l’atto di appello, che l’azione risarcitoria era già stata promossa in sede civile e decisa con provvedimento irrevocabile.
Nell’atto di costituzione della parte civile si affermava che per il credito era stato già emesso un decreto ingiuntivo nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, cosicché la costituzione di parte civile doveva ritenersi non consentita, rappresentando essa una non consentita duplicazione della pretesa risarcitoria.
Peraltro, la medesima società aveva chiesto il risarcimento dei danni materiali e morali anche costituendosi parte civile nel procedimento a carico del ricorrente per il reato di truffa, poi riqualificato come insolvenza fraudolenta.
Aggiunge il ricorrente che, ai sensi dell’art. 240 r.d. n. 267 del 1942, i singolo creditore è legittimato a costituirsi parte civile nel procedimento penale
per il reato di bancarotta fraudolenta quale danneggiato dal reato solo se fa valere una richiesta di risarcimento a titolo personale, ossia facendo valere un profilo di danno diverso da quello derivato dall’inadempimento delle obbligazioni della società, profilo che nel caso di specie neppure viene indicato nell’atto di costituzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
In materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita è desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della loro destinazione, tuttavia il giudice non può ignorare l’affermazione dell’imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all’avente diritto assenza di una chiara smentita emergente dagli elementi probatori acquisiti, quando le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l’individuazione della effettiva destinazione (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, COGNOME, Rv. 279204).
L’odierno ricorrente ha asserito di avere utilizzato le somme prelevate per contanti (sottocapi 1 e 2) per estinguere passività dell’impresa e che i bonifici (sottocapi 3 e 4) erano stati utilizzati per il pagamento del compenso a lui spettante quale amministratore, ma non ha fornito prova alcuna delle sue affermazioni.
Il Tribunale e la Corte di appello hanno, quindi, entrambi concluso che le condotte per le quali è stata pronunciata condanna integrino altrettante distrazioni patrimoniali ai danni della società.
Quanto al pagamento di debiti nei confronti dei fornitori o di altri creditori sociali, la giustificazione fornita appare estremamente generica, non avendo l’imputato fornito indicazioni su chi siano tali soggetti, quali siano stati gli impor corrisposti a ciascuno di essi, cosicché la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio sopra esposto.
Analoghe considerazioni valgono per le somme di cui agli ha disposto tramite bonifico, non avendo il ricorrente prodotto copia della delibera che stabiliva detto compenso.
Il ricorrente ha sostenuto che la propria impossibilità di dimostrare che le somme prelevate in contanti sono state utilizzate per il pagamento dei debiti della società e che le somme di cui si è disposto tramite bonifico erano il proprio compenso per l’attività di amministratore dipende dallo smarrimento delle
scritture contabili, a lui non imputabile, tanto che proprio la Corte di appello aveva ritenuto di proscioglierlo dalla imputazione di bancarotta fraudolenta documentale.
In contrario deve osservarsi che entrambi i giudici del merito hanno ritenuto provato che i prelevamenti ed i bonifici integrassero altrettante distrazioni di risorse economiche della società fallita non solo in virtù dell’omessa dimostrazione della destinazione delle somme e per l’assenza della delibera sociale che stabilisse il compenso dell’amministratore, ma anche sulla base di una serie di elementi di natura logica che fanno apparire non credibile la tesi sostenuta dall’imputato.
Essi hanno evidenziato che i debiti ammessi al passivo fallimentare risalgono tutti all’epoca di attività dell’impresa e che i prelevamenti effe1:tuati dall’imputat sono avvenuti fino a pochi prima della cessione della società ad altro soggetto e peraltro per contanti, in modo che non risultassero tracciati.
Quanto ai bonifici, uno di essi, dell’importo di euro 40.000,00, è avvenuto nel 2013 ed è immediatamente precedente la cessione della società, ormai ridotta ad una scatola vuota, ad un soggetto che non aveva provveduto alla sua effettiva gestione. Vi sono altri 16 bonifici effettuati nel 2011; i giudici del meri hanno segnalato che il numero dei bonifici eccede quello dei mesi dell’anno in cui sono avvenuti e che i pagamenti, se effettivamente trovassero giustificazione nel compenso spettante all’imputato per la sua attività di amministratore, sarebbero avvenuti anche negli anni precedenti, ma di tali pregressi pagamenti non vi è traccia.
I giudici del merito hanno, quindi, escluso che le somme prelevate siano state utilizzate per soddisfare le pretese dei fornitori o di alth creditori social che anche i bonifici possano trovare causa nel diritto dell’imputato a ricevere un compenso per la attività di amministratore della società.
Essi hanno pure implicitamente negato, per l’entità degli mporti dei bonifici e per la loro concentrazione in un ristretto periodo di tempo, che il prelevamento da parte dell’imputato di denaro dalle casse della società fosse correlato ad una prestazione effettiva da parte del COGNOME ed all’impegno da lui profuso (vedi pag. 4 della motivazione della sentenza di primo grado ove si afferma che i pagamenti sono stati effettuati a fronte di una «attività indefinita»).
La motivazione fornita dai giudici del merito appare adeguata e priva di contraddizioni o manifeste illogicità.
Nel resto le censure del ricorrente attengono al merito, in quanto volte ad ottenere una rivalutazione del materiale probatorio non consentita in questa sede di legittimità.
È, invece, fondato il secondo motivo di impugnazione.
Con l’atto di appello il ricorrente ha chiesto che la costituzione di parte civile fosse dichiarata inammissibile, in quanto la RAGIONE_SOCIALE, incorporante la RAGIONE_SOCIALE, aveva già chiesto ed ottenuto in sede civile la condanna del COGNOME al risarcimento del danno patrimoniale, al quale era limitata la pretesa fatta valere con l’atto di costituzione di parte civile; inoltre ha sostenuto che per la stessa vicenda egli era già stato condannato in sede penale al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della medesima società.
La Corte di appello ha rigettato il motivo di gravame affermando che il fallimento non aveva ancora ottenuto alcun risarcimento dall’imputato, mostrando di confondere la società costituitasi parte civile con la fallita RAGIONE_SOCIALE, cosicché la motivazione risulta del tutto illogica e la decisione appare determinata da una confusione tra i due soggetti.
Deve altresì essere rilevato che la pena inflitta all’esito del giudizio di appello, pari ad anni due di reclusione, non consente l’applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici, che la Corte di merito ha invece confermato, limitandosi a ridurre la pena principale.
La pena accessoria risulta illegale e deve, quindi, essere eliminata di ufficio ai sensi dell’art. 609 cod. proc. pen.
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che deve essere eliminata. La medesima sentenza deve essere annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello relativamente alle statuizioni civili. Nel resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che elimina, e con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello relativamente alle statuizioni civili. Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso il 15/12/2023.