Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4825 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 4825 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 11/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a COLLE DI VAL D’ELSA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 18/04/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso, per inammissibilità del primo motivo e non fondatezza degli altri;
udito per il ricorrente, anche in sostituzione dell’AVV_NOTAIO per delega orale, l’AVV_NOTAIO, la quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna di primo grado del ricorrente resa dal GUP del Tribunale di Milano, in sede di giudizio abbreviato, per i delitti di cui agli ar 110 cod. pen., 223, comma 1 e 2, n. 2, 216, comma 1, n. 1), I.fall.
Avverso la richiamata sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato COGNOME, affidandosi, mediante i difensori di fiducia, AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO, a quattro motivi, di seguito ripercorsi entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente assume erronea applicazione dell’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall. nonché contraddittorietà della motivazione e travisamento probatorio rispetto alla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato poiché la Corte territoriale non avrebbe considerato che, come si sarebbe potuto evincere dalla stessa Relazione ex art. 33 I.fall., il dissesto era stato cagioNOME non già dal mancato pagamento di debiti erariali e contributivi bensì dalla crisi del settore che aveva comportato un significativo decremento del fatturato e la conseguente impossibilità anche di assolvere ai predetti oneri.
2.2. Mediante il secondo motivo l’imputato lamenta erronea applicazione dell’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall. nonché contraddittorietà della motivazione e travisamento probatorio rispetto alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato atteso che, a differenza di quanto affermato nelle decisioni di condanna, egli aveva in realtà cercato di evitare l’insolvenza al punto che aveva presentato, quando era iniziata la crisi dell’impresa, un piano di risanamento e solo la mancata approvazione dello stesso da parte degli istituti di credito aveva poi determiNOME, nell’anno 2011, un’inevitabile ed irreversibile crisi di liquidità.
2.3. Con il terzo motivo il COGNOME denuncia erronea applicazione dell’art. 223, comma 1, n. 1, e 217, comma 1, n. 4 e 224, comma 1, n. 2, nonché inosservanza dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen. e contraddittorietà della motivazione e travisamento probatorio in punto di qualificazione giuridica della condotta che avrebbe dovuto essere al più qualificata come bancarotta patrimoniale semplice, poiché non vi era stata una pianificazione del dissesto mediante l’omesso pagamento dei debiti erariali e contributi ma era stato il mancato adempimento delle relative obbligazioni, piuttosto, a causare il dissesto.
2.4. Il ricorrente deduce, con il quarto motivo, erronea applicazione dell’art. 185 cod. pen. nonché mancanza o contraddittorietà della motivazione circa la ritenuta sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno, ponendo a
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fondamento di tale doglianza la già ripercorsa ricostruzione alternativa circa le cause del dissesto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.All’esame dei motivi di ricorso occorre premettere che la sentenza di appello, nella sua struttura argonnentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzat nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze, integrando una c.d. doppia conforme, possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595 – 01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv. 252615 – 01).
2.11 primo motivo è manifestamente infondato poiché la Corte territoriale ha invero fatto corretta applicazione del consolidato principio per il quale le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2,1. fall. possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (ex ceteris, Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME e altri, Rv. 273337 – 01; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270046 – 01).
Risulta difatti dalla Relazione del Curatore fallimentare, non solo nella versione suggestivamente richiamata dalla difesa del ricorrente, ma completa dell’integrazione in data 11 novembre 2014, ed è emerso dagli ulteriori elementi istruttori acquisiti, che la società, costituita nel 2002, gia’ dall’anno 2005 aveva omesso il versamento delle imposte e dei contributi previdenziali, con una condotta che era divenuta sistematica già nel 2008 e, dunque, ben prima che nel 2011, con la mancata accettazione del piano di risanamento da parte degli Istituti di credito, venisse meno la liquidità perché essa potesse affrontare e superare la crisi nella quale versava.
E’ dunque priva di vizi di manifesta ragionevolezza – e di qui incensurabile in questa sede di legittimità – la motivazione della decisione impugnata laddove sottolinea che, in realtà, la società fallita, nella quale il COGNOME ha sempre rivestito il ruolo di amministratore, aveva la consuetudine di “autofinanziarsi” mediante la sistematica evasione delle imposte e dei contributi previdenziali, in tal modo, tuttavia, aggravando la propria situazione di dissesto perché i relativi crediti sarebbero stati ad un certo punto riscossi con aggravio di interessi e sanzioni.
Il secondo motivo è, parimenti, manifestamente infondato.
Infatti, come è stato evidenziato da tempo nella giurisprudenza di legittimità – con un principio che il collegio intende riaffermare – l’art 223, primo comma, legge fallimentare prevede due autonome fattispecie criminose che, se dal punto di vista oggettivo non presentano sostanziali differenze, da quello soggettivo vanno tenute distinte perché, nell’ipotesi di causazione dolosa del fallimento, questo è voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose, esso è solo l’effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio della stessa. In sostanza, la prima fattispecie è a dolo specifico, e la seconda è a dolo generico (Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, COGNOME, Rv. 214856 – 01; Sez. 1, n. 7136 del 25/04/1990, De Sena, Rv. 184359 – 01).
Considerato che nel caso in esame viene in rilievo questa seconda ipotesi, vi è che la pronuncia impugnata ha fatto corretta applicazione del richiamato principio evidenziando che il sistematico inadempimento, sino ad un importo di oltre due milioni di euro, di debiti erariali e contributi, per quasi tutta la “v della società, e dunque il finanziamento della relativa attività trattenendo risorse non proprie aveva reso non solo prevedibile ma altamente probabile per l’amministratore che l’esponenziale debito verso il fisco, con l’aggiunta di gravosi interessi e sanzioni, avrebbe causato o comunque condotto a un significativo aggravamento del dissesto della società.
Le ragioni evidenziate nei §§ 2 e 3 rendono manifestamente infondate le doglianze del ricorrente sia quanto alla pretesa di riqualificare quale bancarotta patrimoniale semplice l’ipotesi di reato, sia rispetto alle statuizioni civilistiche.
Alla dichiarazione di inammissibilità di tutti i motivi proposti segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione non consente di ritenere il ricorrente medesimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma 1’11 gennaio 2024 Il Consigliere Estensore II Presídente