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Bancarotta fraudolenta: l’evasione fiscale sistematica

L’amministratore di una società che omette sistematicamente il versamento di tasse e contributi, causando il dissesto dell’impresa, commette il reato di bancarotta fraudolenta. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4825/2024, ha confermato che tale condotta costituisce un’operazione dolosa, essendo sufficiente la consapevolezza di aggravare la situazione debitoria e accettare il rischio del fallimento, senza la necessità di un’intenzione specifica di causarlo. La crisi di settore non è stata ritenuta una giustificazione valida, dato il carattere pluriennale e sistematico delle omissioni. L’appello è stato dichiarato inammissibile.

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Pubblicato il 29 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Bancarotta fraudolenta: quando l’evasione fiscale porta al fallimento

L’omissione sistematica del pagamento di imposte e contributi previdenziali può configurare il grave reato di bancarotta fraudolenta. Questa pratica, talvolta utilizzata dalle aziende per “autofinanziarsi” in momenti di difficoltà, è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la sentenza n. 4825 del 2024. La Suprema Corte ha chiarito che tale condotta, se protratta nel tempo e causa del dissesto, integra a pieno titolo un’operazione dolosa, anche in assenza di una volontà diretta a far fallire la società. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante decisione.

I fatti del caso

Un amministratore di società veniva condannato in primo e secondo grado per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. L’accusa principale era quella di aver cagionato il fallimento della società attraverso l’omesso versamento sistematico di debiti erariali e contributivi per un importo di oltre due milioni di euro. L’imputato, nel suo ricorso per cassazione, sosteneva che il dissesto non fosse dovuto alla sua gestione, ma a una crisi generale del settore e alla mancata approvazione di un piano di risanamento da parte delle banche. A suo dire, il mancato pagamento dei debiti fiscali era una conseguenza della crisi di liquidità, non la sua causa. Chiedeva, pertanto, che la sua condotta venisse al più riqualificata come bancarotta semplice.

La bancarotta fraudolenta e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile e confermando la condanna. I giudici hanno stabilito che i motivi presentati dall’imputato erano manifestamente infondati. La decisione si basa su due pilastri argomentativi fondamentali: la natura della condotta e l’elemento psicologico del reato.

Le motivazioni

La Corte ha innanzitutto sottolineato come le sentenze di primo e secondo grado fossero allineate (la cosiddetta “doppia conforme”), formando un unico corpo decisionale. Nel merito, è emerso dalla relazione del curatore fallimentare che la società aveva iniziato a omettere il versamento di imposte e contributi già dal 2005, e che tale comportamento era diventato sistematico a partire dal 2008. Questo avveniva ben prima della crisi di liquidità del 2011, indicata dall’imputato come causa del dissesto.

I giudici hanno qualificato questa prassi come una consapevole scelta gestionale di “autofinanziarsi” a danno dell’Erario e degli enti previdenziali. Tale condotta, secondo la Corte, non solo era prevedibile, ma rendeva altamente probabile che l’accumulo esponenziale del debito, aggravato da sanzioni e interessi, avrebbe portato a un significativo aggravamento del dissesto o al fallimento stesso.

Un punto cruciale della sentenza riguarda l’elemento psicologico del reato. Per la bancarotta fraudolenta derivante da operazioni dolose (art. 223, comma 2, n. 2 della legge fallimentare), non è necessario il dolo specifico, cioè l’intenzione specifica di causare il fallimento. È sufficiente il dolo generico: l’amministratore deve essere consapevole di compiere un’operazione che mette a rischio la salute finanziaria dell’impresa e deve accettarne le possibili conseguenze negative, tra cui il fallimento. In questo caso, l’amministratore, scegliendo deliberatamente e per anni di non pagare i debiti fiscali, ha accettato il rischio che questa gestione avrebbe condotto l’azienda al collasso.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale per gli amministratori d’azienda: il sistematico inadempimento degli obblighi fiscali e contributivi non è una mera irregolarità, ma una scelta gestionale illecita che può avere conseguenze penali gravissime. Utilizzare i fondi destinati all’Erario per finanziare l’attività d’impresa è un’operazione dolosa che espone al rischio di una condanna per bancarotta fraudolenta. La decisione della Cassazione serve da monito: la crisi economica non può essere utilizzata come scudo per giustificare condotte che, di fatto, scaricano il rischio d’impresa sulla collettività, aggravando in modo irrimediabile la posizione debitoria della società e pregiudicando i diritti di tutti gli altri creditori.

Quando il mancato pagamento di tasse e contributi diventa bancarotta fraudolenta?
Secondo la sentenza, il mancato pagamento si qualifica come bancarotta fraudolenta quando è sistematico, frutto di una consapevole scelta gestionale, e costituisce la causa o concausa del dissesto societario. Non si tratta di un’omissione occasionale, ma di una prassi che aggrava l’esposizione debitoria dell’azienda in modo prevedibile.

È necessario voler far fallire l’azienda per essere condannati per bancarotta fraudolenta da operazioni dolose?
No, non è necessario. La Corte ha specificato che per questo tipo di reato è sufficiente il dolo generico. Ciò significa che l’amministratore deve essere consapevole di porre in essere operazioni rischiose (come l’evasione sistematica) e accettare il rischio che da queste possa derivare il fallimento, anche se non lo desidera specificamente.

La crisi di settore può giustificare il mancato pagamento dei debiti fiscali?
No, la crisi di settore non è stata ritenuta una giustificazione valida. Nel caso specifico, è stato provato che l’omissione dei versamenti era una pratica sistematica iniziata anni prima della crisi di liquidità addotta come scusante, dimostrando che si trattava di una scelta gestionale deliberata e non di una conseguenza inevitabile di fattori esterni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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