Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 27491 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 27491 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/06/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nata a Roma il 29/05/1963 NOME nato a Perugia il 20/02/1931 avverso la sentenza del 12/12/2024 della Corte d’appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio del provvedimento gravato.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 11 ottobre 2023, il Tribunale di Roma dichiarava COGNOME NOME e NOME COGNOME responsabili del reato di bancarotta fraudolenta documentale, ai sensi degli artt. 110, 216 e 223 r.d. 267/1942, ai danni della RAGIONE_SOCIALE, fallita il 6 aprile 2016. Gli imputati venivano condannati a tre anni di reclusione ciascuno. Dalle deposizioni dei curatori fallimentari succedutisi e dalle relative relazioni emergeva la totale mancanza dei documenti contabili della società, di cui la COGNOME era stata amministratrice fino al 28 novembre 2013, data in cui era subentrato il COGNOME, suocero della stessa, mantenendo l’incarico fino al fallimento.
Su gravame degli imputati, la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 12 dicembre 2024, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, riconoscendo al Comin le circostanze attenuanti generiche, riducendo la pena inflittagli a due
anni di reclusione, coi benefici di legge. Confermava nel resto la sentenza di primo grado.
Gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi.
2.1. Col primo deducono vizio di motivazione correlato all’ errore dei giudici di merito, consistito nell’essersi essi avvalsi del contenuto delle relazioni dei curatori succedutisi nel 2014 (dottor COGNOME) e nel 2016 (dottor COGNOME relative ad una sentenza di fallimento poi annullata dalla Corte di Appello di Roma come rilevato in udienza preliminare, laddove era stato disposto il rinvio degli atti al Pubblico Ministero . Solo con la nuova dichiarazione di fallimento nel 2016 l’organo inquirente aveva potuto procedere a nuove indagini.
L’utilizzo delle relazioni del 2014 e 2016 avrebbe portato a una decisione errata, specie circa la presunta veste di amministratore in capo al Comin, che, in realtà, aveva assunto solo la qualifica di liquidatore. Nella relazione COGNOME, peraltro, non v’era alcun elemento a supporto della veste di amministratore del Comin.
La conclusione che le scritture contabili siano state tenute regolarmente fino al 2010 e poi fatte sparire sarebbe basata sul deposito dei bilanci fino a quell’anno. Ma, come dedotto dal consulente della difesa, i bilanci ben avrebbero anche potuto essere falsi: sicché la loro esistenza non presupponeva quella delle scritture contabili.
2.2. Col secondo motivo si lamenta la carenza assoluta di motivazione in ordine al mancato accoglimento della richiesta di derubricazione del reato contestato in quello, meno afflittivo, di bancarotta semplice documentale per omessa tenuta delle scritture contabili di cui all’art. 217 r.d. 267/1942 .
La Corte avrebbe ritenuto che i libri contabili -presuntivamente esistenti, sol perché erano stati depositati i bilanci dal 2003 al 2010 -non fossero stati consegnati al Comin, senza, però, spiegare quale motivo avesse avuto la Santolamazza per non farlo. La Corte avrebbe, inoltre, ignorato il motivo d ‘ appello con cui si sosteneva la radicale mancata istituzione, ab initio , delle scritture contabili. A fronte di una “sicura, omessa tenuta dei libri contabili ovvero della loro mancata istituzione”, la Corte non avrebbe offerto elementi di prova che dimostrassero l’elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta.
Secondo il principio di favor rei , i ricorrenti avrebbero dovuto, dunque, essere ritenuti colpevoli del meno grave delitto previsto dall’art. 217 r.d. 267/1942.
2.3. Col terzo motivo si lamenta la carenza assoluta della motivazione in ordine alla negata concessione delle circostanze attenuanti generiche alla sola COGNOME.
La decisione sarebbe “oltremodo afflittiva” e basata sull’esistenza di precedenti “plurimi e specifici”, in realtà costituiti da contravvenzioni, depenalizzate e/o prescritte, non ostative alla concessione delle circostanze attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, per alcuni profili, inammissibile.
I primi due motivi sono da disattendere.
Le doglianze sull’indebito utilizzo di relazioni afferenti la pregressa declaratoria di fallimento sono del tutto nuove, pur emergendo (dalla sentenza di primo grado e dallo stesso ricorso) che alle dette relazioni si sia rifatto già il Tribunale.
È noto che, ex artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono essere dedotte in Cassazione questioni non sollevate coi motivi di appello, tranne non siano rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e non necessitino di accertamenti di fatto o si tratti di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello (perché, ad esempio, prospettate per la prima volta proprio nel provvedimento impugnato in Cassazione): se così non fosse, sarebbe invero inevitabile l’annu llamento del provvedimento a causa di un altrettanto inevitabile, da parte del giudice a quo , difetto di motivazione su una questione sottratta -in ipotesi, anche in modo strumentale -alla sua cognizione, non essendogli stata devoluta (così, tra le tante, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, Rv. 284768-02 ; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Rv. 270316-01; Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Rv. 256631-01).
Ciò, poi, senza considerare – quanto all’erronea veste di ‘amministratore’ anziché ‘liquidatore’ che dalle dette relazioni (indebitamente utilizzate, secondo la difesa) si sarebbe ricavata – che, da un lato, il Comin è indicato esattamente nella veste di ‘liquidatore’ sin dal capo d’imputazione e dalla sentenza di primo grado (nulla in contrario emergendo da quella d’appello) e, dall’altro lato, contrariamente agli oneri di specifica allegazione sottesi al ritenuto travisamento di prova (su cui si vedano: Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Pg, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01), nulla di specifico si assume in ricorso al fine di consentire a questa Corte la verifica del dedotto travisamento e della sua decisività sull’esito del giudizio.
Quanto alla assunta radicale inesistenza delle scritture contabili, che
comporterebbe -secondo la difesa -la riqualifica in bancarotta semplice della condotta, parte ricorrente, anzitutto, non si confronta con entrambe le motivazioni dei giudici di merito che, in quanto conformi, si saldano in un unicum argomentativo (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01): avendo, peraltro, espressamente, la sentenza d’appello, richiamato sul punto quella di primo grado .
Orbene, secondo il Tribunale, «è evidente che tale omissione non potesse che essere finalizzata a danneggiare i creditori poiché, non consentendo la ricostruzione del patrimonio (attivo e passivo), non ha permesso di soddisfare le loro ragioni». L’omessa c onsegna della contabilità avrebbe avuto, sempre a dire del primo giudice, lo scopo di «evitare che qualcuno potesse giungere alla ricostruzione del patrimonio e del volume degli affari e soprattutto potesse verificare la destinazione dell’attivo presente nell’ultimo bilancio depositato (pari a oltre 335.000 euro, comprensivi di crediti per ben 197.828 euro)» (pagine 2-3 sentenza di primo grado).
La sentenza d’appello, dal canto suo, richiama , a supporto della conclusione del Tribunale, ulteriori indici di fraudolenza, quali l’irreperibilità del Comin, il rapporto di affinità tra la COGNOME e il Comin, l’avanzata età di quest’ultimo (quasi 83 anni, allorché aveva assunto il ruolo di liquidatore), in uno con il non spiegato suo subentro nella detta veste e l’ingente esposizione debitoria della fallita: dati da cui desume (così come aveva già concluso il Tribunale) l’intento della COGNOME di ‘scaricare’ le (evidentemente ben chiare) responsabilità su altra persona.
Sicché le sentenze spiegano in maniera chiara, e qui neppure censurata, per quale ragione l’omessa consegna delle scritture indipendentemente dalla loro originaria o sopravvenuta inesistenza -integrasse il delitto contestato e non quello di bancarotta documentale semplice.
Inoltre, la tesi della falsità dei bilanci -addotta dalla difesa per contrastare il ragionamento secondo cui la loro esistenza dovesse far presumere l’esistenza, a monte, della contabilità -è meramente assertiva, non risultando sostenuta da alcun elemento: e non si vede per quale ragione dovrebbe essere considerata fondata sulla base della mera deduzione difensiva.
Infine, secondo la Corte d’appello, anche a dar credito a detta tesi difensiva ( della falsificazione dell’ultimo bilancio redatto ), «ne deriverebbe la prova che anche mediante il suo contenuto oltreché con la sottrazione o occultamento delle altre scritture, gli imputati avevano inteso arrecare pregiudizio ai creditori non ponendoli nelle condizioni di individuare l’esatta consistenz a del patrimonio e delle finanze della RAGIONE_SOCIALE» (p.7 sentenza d’appello).
Trattasi di argomenti razionali e conformi alla giurisprudenza di questa Corte in tema di prova del dolo specifico del delitto di bancarotta fraudolenta documentale.
Come logico, e in altre occasioni già affermato da questa Corte, «la redazione dei bilanci presuppone l’esistenza dei libri e delle scritture contabili, fondandosi sui dati estraibili dalle medesime» (Sez. 7, Ordinanza n. 28334 del 3/7/2024, non massimata; in senso analogo, sempre in motivazione, si veda Sez. 5, Sentenza n. 17037 del 5/2/2013).
Inoltre , è pacifico che l’occultamento, l’omessa tenuta o la distruzione delle scritture contabili -condotte equivalenti di cui all’art. 216, comma 1, numero 2, prima parte, r.d. 267/1942 -siano integrati dalla fisica mancata consegna delle stesse agli organi fallimentari e integrino tutte una fattispecie alternativa (in seno alla medesima disposizione) rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture che impedisca la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari dell’impresa: reato, quest’ultimo, a dolo generico che presuppone un accertamento condotto sulle scritture contabili rinvenute (Sez. 5, n. 26379 del 5/3/2019, Rv. 276650-01; Sez. 5, n. 26613 del 22/02/2019, Rv. 276910-01; Sez. 5, n. 18634 del 1/2/2017, Rv. 269904-01), laddove, invece, l’occultamento, l’omessa tenuta o la distruzione richiedono il fine di recare pregiudizio ai creditori o di procurare a sé o altri un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Rv. 284304-01, in motivazione; Sez. 5, n. 2900 del 02/10/2018, dep. 2019, Rv. 274630-01).
È altresì pacifico che entrambe le fattispecie si distinguano, poi, dalla bancarotta documentale semplice di cui all’art. 217, comma 2, r.d. 267/1942, che non richiede che si impedisca la ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito ed il relativo dolo generico (Sez. 5, n. 27703 del 28/05/2024, Rv. 286641-01; Sez. 5, n. 11390 del 09/12/2020, dep. 2021, Rv. 280729-01; Sez. 5, n. 2900 del 02/10/2018, dep. 2019, Rv. 274630-01), né il detto dolo specifico correlato alla mancanza, quand’anche p arziale (Sez. 5, n. 15743 del 18/01/2023, Rv. 284677-02, in motivazione) della contabilità, ovvero la volontà di recare pregiudizio ad altri o perseguire un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Rv. 232816 -01; Sez. 5, n.18868 del 24/01/2023, non massimata): essendo sufficiente, per la bancarotta documentale semplice, che l’agente ometta, anche per negligenza, di tenere le scritture contabili per il periodo ivi indicato.
Quanto alla prova del menzionato dolo specifico di cui all’art. 216, comma 1, n. 2, prima parte, r.d. 267/1942, la stessa, come di regola accade per l’accertamento dell’elemento soggettivo , non può che «trarsi da circostanze ed elementi esteriori, anche facendo ricorso a massime di esperienza»: cosicché
anche il mero «sottrarsi ad ogni contatto con il curatore, per evitare la consegna delle scritture contabili o ammetterne la mancata istituzione, e la condotta di occultamento, sottrazione e distruzione delle scritture, a fronte di passività elevate, come anche la condotta tesa a sottrarre alla massa fallimentare un immobile integrano la prova del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice» (Sez. 5, n. 47762 del 16/12/2022, non massimata); ed ancora, pure il «consapevole protrarsi del comportamento omissivo per numerosi anni», nell’ambito di una ingentissima esposizione debitoria, sono stati ritenuti idonei all’uopo (Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Rv. 284304 01, in motivazione).
Coerentemente con la detta giurisprudenza, i giudici di merito hanno ritenuto non solo che ‘dalla consultazione delle banche dati pubbliche è emerso che la fallita ha adempiuto all’obbligo di deposito del bilancio di esercizio commerciale fino al 31/12/2010’ (p. 2 sentenza di primo grado) , ma, soprattutto, che le attività risultanti dall’ultimo bilancio (ed eventualmente la stessa addotta falsità di questo), unitamente alla totale mancanza di scritture, al non spiegato trasferimento della legale rappresentanza dalla COGNOME al Comin, di 83 anni, al l’ingente esposizione debitoria e, infine, alla totale mancata collaborazione del Comin confortassero la conclusione che gli imputati avessero agito al fine di recare pregiudizio ai creditori.
Trattasi, si ripete, di motivazione congrua, in linea con quanto richiesto dalla giurisprudenza per affermare la sussistenza del delitto contestato e del dolo specifico anzidetto, essendo palese si sia trattato di condotte volte ad impedire agli organi fallimentari ogni possibilità di effettiva tutela del ceto creditorio e, dunque, di arrecare pregiudizio allo stesso.
3. Inammissibile, infine, è l’ultima doglianza.
Sfugge al sindacato di legittimità, se sorretta da motivazione non manifestamente illogica o arbitraria, bensì aderente ai criteri legali, in primis quelli di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., la valutazione sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549-02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269-01; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986-01).
In particolare, poi, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è congruamente motivato sulla base di singole ragioni ostative ritenute preponderanti dal giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità, se non contraddittorie o incongrue, neppure quando non vi sia lo specifico apprezzamento di ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419-01; così pure Sez. 3, n. 1913 del
20/12/2018, dep. 2019, Rv. 275509-03, in motivazione).
La decisione censurata ha evidenziato, al riguardo, «i precedenti, plurimi e anche specifici, di COGNOME NOME», senza alcun profilo di manifesta illogicità o altro vizio motivazionale: sicché l’impugnazione mira a un rinnovato giudizio di adeguatezza, precluso in sede di legittimità.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. , alla declaratoria di rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così è deciso, 05/06/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME