Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4575 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 4575 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 23/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME NOME a AREZZO il DATA_NASCITA COGNOME NOME NOME a AREZZO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 04/11/2022 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME AVV_NOTAIO che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso
lette le conclusioni dei difensore dei ricorrenti che hà chiesto l’accoglimento dei ricorsi. “210
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 4 novembre 2022, la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza del Tribunale di Arezzo che aveva ritenuto NOME COGNOME e NOME COGNOME colpevoli del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per avere, quali amministratori prima e liquidatori poi della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita il 29 maggio 2015, distratto o occultato rimanenze di magazzino costituite da gr. 12.710 di oro e da gr. 8.850 di argento (del valore complessivo di euro 545.827,94), consegnate alla fallita dalla spa NOME e mai restituite alla medesima nonostante le intraprese iniziative legali.
1.1. In risposta ai dedotti motivi di appello, la Corte territoriale osservava quanto segue.
Dalle dichiarazioni del curatore era emerso che spa Chinnet aveva consegNOME alla fallita metalli preziosi per una quantità eccedente il solito rapporto di fornitura; il magazzino poi era stato svalutato, da 750.000 euro a 71.000 euro, senza una plausibile ragione (neppure individuabile nella contabilità aziendale).
Nel contempo, i ricavi indicati a bilancio non erano stati superiori a quelli dell’anno precedente, mentre, invece, la vendita del metallo ricevuto in maggiore quantità avrebbe dovuto comportarne di ben maggiori.
In conclusione, non si era rinvenuto né il metallo né il suo controvalore.
Hanno proposto ricorso entrambi gli imputati, con unico atto ed a mezzo del medesimo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.
2.1. Con il primo deducono la violazione di legge, ed in particolare degli artt. 178, 521 e 522 cod. proc. pen., per il difetto di correlazione fra l’accusa e la condanna.
Il metallo che NOME aveva consegNOME alla fallita era un bene fungibile, come il denaro contante – NOME e la fallita se ne scambiavano delle quantità per le rispettive necessità commerciali e produttive – tanto è vero che NOME non si era insinuata al passivo chiedendo la restituzione della merce ma solo il pagamento del corrispettivo credito.
La Corte territoriale aveva condiviso tale impostazione e, tuttavia, aveva condanNOME gli imputati per la distrazione non più del bene ma del suo controvalore. Imputando, così, ai ricorrenti un fatto diverso da quello contestato, così violandone il diritto della difesa, da tale diversa condotta.
2.2. Con il secondo motivo lamentano il difetto di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità dei ricorrenti.
La Corte l’aveva dedotta dal fatto che costoro, pur disponendo del metallo indicato in imputazione, non avevano conseguito alcun ulteriore ricavo, rispetto al precedente esercizio, né il metallo stesso era stato rinvenuto in giacenza in magazzino.
Si era così omesso di considerare che le ipotizzabili vendite sottocosto non sono rilevabili in un documento riassuntivo come il bilancio, in cui, infatti, non si indica la movimentazione della merce. Né tali vendite possono essere individuate esaminando lo stato passivo del fallimento.
La società, comunque, aveva evidenziato, nel bilancio 2011, ricavi ben superiori alla svalutazione del magazzino ed era stata acquisita prova del fatto che, negli ultimi anni, i margini economici della fallita si erano sempre più ridotti.
Tanto che la società era entrata in crisi solo l’anno successivo, nel 2012.
Al più le vendite sottocosto possono integrare una infedeltà patrimoniale, ai sensi dell’art. 2634 cod. civ., ma non un’ipotesi di bancarotta.
2.3. Con il terzo motivo denunciano il vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., riconoscibile anche d’ufficio, una questione del tutto trascurata da entrambi i giudici del merito.
Se ne chiede l’applicazione alla Corte di cassazione.
Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto NOME COGNOME, ha inviato nota scritta con la quale conclude per l’inammissibilità del ricorso.
Il difensore dei ricorrenti ha inviato memorie con le quali ha insistito per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi promossi nell’interesse degli imputati sono inammissibili.
Il primo motivo, sul lamentato difetto di correlazione fra l’originaria accusa e la condotta ritenuta in sentenza, è manifestamente infondato.
Quanto alla possibile violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. si è, infatti, autorevolmente affermato (peraltro proprio in tema di reati fallimentari: Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 e la più recente Sez. 5, n. 37461 del 22/09/2021, COGNOME, Rv. 281930) che, in tema di correlazione tra
imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (nel caso oggetto dell’esame delle Sezioni unite si era contestata un’ipotesi di bancarotta post-fallimentare che era stata invece ritenuta una bancarotta pre-fallimentare).
E’, allora, del tutto evidente come una condotta di bancarotta patrimoniale relativa alla distrazione del controvalore di una ben determinata quantità di metallo prezioso, come ritenuto in sentenza, non possa certo costituire quella trasformazione radicale dell’accusa originaria, in cui si era ascritto ai due odierni ricorrenti la distrazione del suddetto metallo prezioso, trattandosi di due valori speculari (il bene da una parte, il suo corrispettivo economico dall’altra), tanto che la difesa di entrambi aveva potuto sostenere la propria tesi assolutoria (sia in ordine alla distrazione del bene, sia in riferimento al suo valore) con argomenti pienamente sovrapponibili.
Un, principio che, in tema di reati fallimentari, aveva avuto analoghe applicazioni:
si pensi al caso in cui, in relazione alla medesima somma di denaro, l’originaria accusa di bancarotta patrimoniale muti in quella di bancarotta preferenziale (Sez. 5, Sentenza n. 27141 del 27/03/2018, COGNOME, Rv. 273480);
o, quando, in tema di bancarotta documentale, avente pertanto ad oggetto, sempre, i libri e le scritture contabili della società, si passi dall’ipotesi dall’ipo “fraudolenta”, punita dall’art. 216, comma 1 n. 2, a quella “semplice”, prevista dall’art. 217, comma 2, legge fall. (Sez. 5, n. 33878 del 03/05/2017, Vadacca, Rv. 271607).
Il secondo motivo è inammissibile perché interamente versato in fatto, eludendo così i limiti del giudizio di legittimità.
Sulla configurabilità della contestata distrazione, poi, la Corte territoriale aveva speso ragioni di non manifesta illogicità.
Si era infatti considerato che il corrispettivo del metallo prezioso consegNOME dalla NOME (oltre al solito scambio di oro e argento che avveniva fra le due
società, per le rispettive ragioni commerciali e produttive) non era stato in alcun modo individuato, non comprendendosene affatto la concreta destinazione.
Non era emerso tra i ricavi dell’anno (che erano stati pressochè identici a quelli del precedente esercizio, che non si era potuto giovare di tale straordinaria entrata) e non lo si era neppure rinvenuto nel magazzino (che, anzi, aveva subito una incredibile, e comunque ingiustificata, decurtazione di circa il 90 %).
Quanto alla asserita vendita sottocosto non se ne era offerto alcun concreto indizio. E, comunque, anche se vi fosse stata, avrebbe certo dovuto consentire un apprezzabile (anche se non uguale al notevole valore della merce, peraltro non suscettibile di particolare deprezzamento di mercato, trattandosi di oro ed argento) aumento almeno dei ricavi.
Si ricorda infatti come si sia costantemente affermato che, in materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita è desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della loro destinazione, e tuttavia il giudice non può ignorare l’affermazione dell’imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all’avente diritto, in assenza di una chiara smentit emergente dagli elementi probatori acquisiti, quando le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l’individuazione della effettiva destinazione (ex plurimis Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204).
Nella presente fattispecie, invece, l’asserzione degli imputati circa la dispersione dei beni a seguito di vendite sottocosto non aveva trovato conferma alcuna.
Il motivo afferente la mancata applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. è manifestamente infondato perché non tiene conto del fatto che, anche nella formulazione derivante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2022, tale forma di proscioglimento può riguardare i soli reati “per i quali è prevista una pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”, mentre il contestato art. 216, comma 1 n. 1, legge fall. prevede una pena minima di anni tre di reclusione.
All’inammissibilità dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e, versando i medesimi in colpa, della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, in Roma il 23 novembre 2023.