Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 17807 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 17807 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a MILANO il 03/09/1989
avverso la sentenza del 08/07/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
Il Proc. Gen. conclude, riportandosi alla requisitoria già in atti, per l’accoglimento d motivo di ricorso attinente l’entità della confisca; rigetto nel resto.
udito il difensore
L’avvocato COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
L’avvocato COGNOME NOME si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l’accoglimento dello stesso.
IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari preso il tribunale di Milano, in data 17.11.2023, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato COGNOME Ivan alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, di bancarotta fraudolenta documentale e di bancarotta fraudolenta impropria per aggravamento del dissesto in rubrica ascrittigli ai capi Al); A2); A3) e A4) dell’imputazione, in qualità di amministratore unico della società RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita dal tribunale di Milano in data 16.11.2017.
Come si evince dalla lettura congiunta di entrambe le sentenze di merito, all’imputato vengono addebitate una pluralità di condotte distrattive, a partire dalla cessione dei beni di cui alla scrittura privata stipulata tra la società fallita e la società “RAGIONE_SOCIALE” (il capannone ubicato a Cormano, alla INDIRIZZO e i tredici automezzi specificamente indicati nel capo Al) dell’imputazione), senza la previsione di alcun corrispettivo in favore della cedente.
Al riguardo la corte territoriale ha anche rilevato come alcuni dei beni ceduti erano detenuti dalla società fallita in forza di otto contratti di leasing stipulati con “RAGIONE_SOCIALE“, in relazione ai quali la “RAGIONE_SOCIALE” avrebbe dovuto provvedere al pagamento del debito in favore della società di leasing, oltre che a pagare lo stipendio a sedici dipendenti della “RAGIONE_SOCIALE“, obbligazioni mai adempiute.
A ciò deve aggiungersi, da un lato, la cessione in favore della “RAGIONE_SOCIALE” dei cinque automezzi specificamente indicati nel capo A2) dell’imputazione, già condotti in leasing dalla società fallita e poi dalla stessa riscattati, senza che la cessionaria abbia provveduto al pagamento del relativo prezzo, comprensivo dell’incidenza dell’I.V.A, fissato in euro 189.100,00; dall’altro, la cessione, sempre in favore della “RAGIONE_SOCIALE” dell’automezzo specificamente indicato nel
capo A3) dell’imputazione, già condotto in leasing, ma che la società fallita non aveva riscattato, né restituito alla società concedente, la “RAGIONE_SOCIALE” (poi insinuatasi nel passivo fallimentare), cedendolo alla RAGIONE_SOCIALE per un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato del bene.
In relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale specifica, di cui al capo A4), è stata ascritta al prevenuto la totale mancata tenuta delle scritture contabili, a far data dall’anno 2013, circostanza che, come rilevato dai giudici di merito, in considerazione anche della completa mancanza di fatture, non consentiva in alcun modo di ricostruire la consistenza del patrimonio e del movimento degli affari della società fallita dal momento in cui il COGNOME era divenuto amministratore di diritto della “RAGIONE_SOCIALE.
Infine il giudice di primo grado, con decisione confermata in appello, aveva disposto la confisca, ai sensi dell’art. 240, c.p., dei beni immobili e mobili dell’imputato, fino alla concorrenza di 800.104,68 euro, importo ritenuto pari al profitto conseguito dal Granata attraverso le distrazioni in precedenza indicate.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione il suddetto imputato, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione “per erronea applicazione della legge penale e carenza assoluta della motivazione in ordine all’elemento intenzionale delle distrazioni patrimoniali”, in relazione al quale egli denuncia “travisamento dei fatti”. Il ricorrente, in particolare, censura la mancata dimostrazione da parte dei giudici di merito dell’elemento psicologico del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, che imponeva la verifica di ogni aspetto della condotta materiale del COGNOME, valutata nella direzione finalistica, cioè danneggiare o favorire i creditori sociali, senza tacere, da un lato, che il solo COGNOME NOME, amministratore di fatto della società fallita e socio, al pari del Granata, della “RAGIONE_SOCIALE“, ha tratto profitto dalla vicenda distrattiva; dall’altro, che, fino a quando il Granata è stato socio della “RAGIONE_SOCIALE“, la cessione dei beni della
fallita alla “RAGIONE_SOCIALE” ha consentito di pagare, almeno in parte, i creditori di “RAGIONE_SOCIALE“, provvedendo, inoltre, egli a pagare con risorse personali i debiti della società fallita ed avendo, la corte territoriale, erroneamente affermato che il RAGIONE_SOCIALE cedette al Mancuso la sua quota della “RAGIONE_SOCIALE” per l’importo di 4.500.000,00 euro invece che di 450.000,00 euro.
La qualifica di amministratore di diritto, in conclusione, ad avviso del ricorrente non può comportare un automatico giudizio di colpevolezza, quando, come nel caso in esame, la concreta gestione da parte dell’amministratore di fatto sia tale da ridurre l’amministrazione legale della società fallita ad un mero atto formale e nominale; 2) violazione di legge e vizio di motivazione per assoluto difetto di motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale; 3) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla disposta confisca ex art. 240, c.p., in relazione alla quale il ricorrente rileva la completa assenza di motivazione in ordine ai criteri utilizzati per individuare nell’importo di euro 800.104,60 l’utile perseguito dal COGNOME, che, in realtà, già nella valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari, corrisponde alla somma delle singole voci di danno individuata nella relazione del curatore fallimentare, che non sono assimilabili al profitto conseguito.
3. Con requisitoria scritta il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, nella persona del dott. NOME COGNOME chiede che il ricorso venga accolto, limitatamente al terzo motivo di ricorso, e rigettato nel resto.
Con memoria del 30.1.2025, i difensori di fiducia dell’imputato, avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME nel replicare alla requisitoria del pubblico ministero, insistono per l’accoglimento del ricorso, ribadendo le proprie doglianze.
Il ricorso va parzialmente accolto, stante la fondatezza del secondo e del terzo motivo di ricorso, mentre non possono condividersi le censure articolate con il primo motivo di ricorso
4.1. A ben vedere il primo motivo di ricorso si pone ai confini dell’inammissibilità, confini che vengono oltrepassati almeno nella parte in cui, come si evince dallo stesso titolo utilizzato dal ricorrente per illustrarne il contenuto, con esso si denuncia il “travisamento dei fatti”, espressione che viene più volte ripresa nel corpo dell’atto di impugnazione (cfr. pp. 5 e 12 del ricorso).
Come da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, invero, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
Risulta, sotto altro versante, priva di fondamento l’eccezione difensiva volta a far valere l’omessa motivazione in punto di sussistenza dell’elemento psicologico del reato per cui si procede.
Al riguardo si osserva che l’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione è integrato dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Rv. 260407, Sez. 5, n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739; Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Rv. 266805).
Come affermato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità il dolo generico è sufficiente a configurare l’elemento psicologico del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, anche nella sua forma eventuale (cfr. Sez. 1, n. 4472 del 27/02/1997, Rv. 207480), caratterizzata dalla consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall’accettazione di tale rischio (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, Rv.
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281385), restando del tutto estraneo, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, alla definizione dell’elemento soggettivo del reato lo scopo perseguito dall’autore dei singoli atti di sottrazione, di occultamento o di dissimulazione, senza che possa assumere rilievo, in particolare, al fine di attenuare o giustificare le indicate operazioni, l’eventuale intento di salvaguardare l’avviamento economico e la capacità occupazionale, trasferendo beni e risorse verso altre società, ritenute maggiormente operative, in quanto la salvaguardia delle risorse sociali va infatti attuata all’interno del soggetto proprietario, nell’interesse dei creditori e dei terzi che hanno fatto affidamento sul patrimonio e sulla capacità operativa della singola società (cfr. Sez. 5, n. 13169 del 26/01/2001, Rv. 218390). In questa prospettiva si è opportunamente precisato che, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (cfr. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Rv. 270763)
Resta, pertanto, al di fuori del perimetro entro cui deve svolgersi l’accertamento demandato al giudice di merito, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, l’indagine sul profilo finalistico della condotta rientrante nel paradigma normativo dell’art. 216, co. 1, n. 1), I.fall., essendo necessario dimostrare non che l’imputato abbia agito al precipuo scopo di danneggiare i creditori, ma che egli abbia agito con la consapevolezza e la volontà di porre in essere una condotta in concreto pericolosa per le ragioni del ceto creditorio.
Orbene, sotto il profilo oggettivo, non è revocabile in dubbio che le condotte poste in essere dal Granata, come in precedenza sinteticamente descritte, abbiano integrato una concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, trattandosi di operazioni tutte, come evidenziato con logico argomentare dai giudici di merito, dirette a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106).
Ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, infatti, il distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in danno dei creditori), in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato di cui si discute, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 44891 del 09/10/2008, Rv. 241830; Sez. 5, n. 48872 del 14/07/2022, Rv. 283893).
Integrano, pertanto, il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione tutte le operazioni economiche che, esulando dagli scopi dell’impresa, determinano, senza alcun utile per il patrimonio sociale, un effettivo depauperamento di questo in danno dei creditori (cfr. Sez. 5, n. 15679 del 05/11/2013, Rv. 262655).
Proprio la natura di reato di pericolo del delitto di cui si discute rende del tutto irrilevante ai fini della sua configurabilità, sotto il profilo dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato, l’assenza di un danno per i creditori (cfr. Sez. 5, n. 13382 del 03/11/2020, Rv. 281031).
In applicazione di tali principi si è, pertanto, affermato che integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il contratto di affitto d’azienda stipulato in previsione del fallimento allo scopo di trasferire la
disponibilità di tutti o dei principali beni aziendali ad altro soggetto giuridico (cfr. Sez. 5, n. 16748 del 13/02/2018, Rv. 272841).
Allo stesso modo costante appare l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in caso di bene pervenuto all’impresa a seguito di contratto di “leasing”, qualsiasi manomissione del medesimo che ne impedisca l’acquisizione alla massa o che comporti per quest’ultima un onere economico derivante dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione integra il reato poiché determina la distrazione dei diritti esercitabili dal fallimento con contestuale pregiudizio per i creditori a causa dell’inadempimento delle obbligazioni assunte verso il concedente (cfr. Sez. 5, n. 21933 del 17/04/2018, Rv. 272992; Sez. 5, n. 15403 del 13/02/2020, Rv. 279212).
Tornando al dolo, nel caso in esame, correttamente la corte territoriale, con motivazione affatto carente, contraddittoria o manifestamente illogica, lo ha desunto dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa (cfr. Sez. 5, n. 30726 del 09/09/2020, Rv. 279908; Sez. 6, 6.4.2011, n. 16465, Rv. 250007), evidenziando la piena consapevolezza da parte dell’imputato di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte, avendo egli svolto il ruolo di amministratore di diritto della società fallita in accordo con l’amministratore di fatto COGNOME NOMECOGNOME come emerge con assoluta chiarezza dal dato che essi erano soci entrambi al 50% della “RAGIONE_SOCIALE“, la società beneficiaria delle cessioni, queste ultime intervenute, non a caso, in un momento in cui, come evidenziato dal giudice di secondo grado, la società fallita, ereditata dal ricorrente dopo la morte di COGNOME COGNOME, non riusciva più a pagare dipendenti, erario e fornitori, garantendosi, in tal modo, la prosecuzione dell’attività d’impresa attraverso la costituzione e la partecipazione al capitale della nuova società, l’assunzione della carica di amministratore della “RAGIONE_SOCIALE” e le richiamate cessioni dei beni strumentali di quest’ultima alla neocostituita “RAGIONE_SOCIALE“, che hanno determinato una spoliazione del patrimonio della fallita,
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perché non sorrette da una congrua contropartita (cfr. pp. 10-13 della sentenza di appello).
Appare, pertanto, evidente come la corte territoriale abbia fatto buon governo del costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 7332 del 07/01/2015, Rv. 262767), essendo stata dimostrata nel caso in esame non una generica consapevolezza, ma una condivisione da parte di entrambi gli amministratori, di diritto e di fatto, del disegno criminoso volto alla spoliazione del patrimonio della società fallita.
4.2 Fondato, invece, appare il secondo motivo di ricorso.
Dalla lettura delle sentenze di primo e di secondo grado, consentito in questa sede vertendosi in un caso di cd. doppia conforme, si evince che i giudici di merito hanno accertato il mancato rinvenimento della documentazione contabile della società fallita, che non risulta essere stata tenuta a partire dal 2013, conformemente del resto a quanto contestato al Granata nel capo A4) dell’imputazione, in cui, nonostante si faccia riferimento alla tenuta delle scritture contabili in modo tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, si addebita al prevenuto di non avere tenuto la contabilità nel periodo in cui egli ha ricoperto la carica di amministratore.
La particolare posizione assunta dal COGNOME all’interno della società fallita rappresenta indubbiamente il presupposto necessario per fondare la sua responsabilità per il reato di cui si discute.
Come è noto, infatti, in tema di reati fallimentari, l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture
contabili anche se sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754; Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, Rv. 274166).
Presupposto, sì necessario, ma, tuttavia, non sufficiente.
In una serie di recenti e condivisibili arresti, infatti, si è precisato, che, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa in seno all’art. 216, comma primo, lett. b), I. fall. rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 18634 del 01/02/2017, Rv. 269904; Sez. 5, n. 26379 del 05/03/2019, Rv. 276650; Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Rv. 279838).
Per integrare tale forma di bancarotta (cd. bancarotta fraudolenta documentale specifica), non si richiede, dunque, un effettivo pregiudizio delle ragioni del ceto creditorio, ma solo che la condotta del soggetto attivo del reato sia sostenuta dalla finalità di arrecare pregiudizio ai creditori (ovvero di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto).
Al riguardo deve osservarsi che gli elementi dai quali desumere la sussistenza del dolo specifico nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale specifica e del dolo generico nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale generica non possono coincidere con la scomparsa dei libri contabili o con la tenuta degli stessi in guisa tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento
degli affari, che rappresentano semplicemente gli eventi fenomenici, dal cui verificarsi dipende l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato. Dovendo, piuttosto, consistere in circostanze di fatto ulteriori, in grado di illuminare la ratio dei menzionati eventi alla luce della finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto ovvero di recare pregiudizio ai creditori, nel caso della bancarotta fraudolenta documentale specifica; della consapevolezza che l’irregolare tenuta della documentazione contabile è in grado di arrecare pregiudizio alle ragioni del ceto creditorio, nel caso della bancarotta fraudolenta documentale generica. Appare, pertanto, evidente che tra le suddette circostanze assume un rilievo fondamentale la condotta del fallito nel suo concreto rapporto con le vicende attinenti alla vita economica dell’impresa (cfr., in questo senso, Sez. 5, n. 2228 del 04/11/2022, Rv. 283983; Sez. 5, n. 33575 del 08/04/2022, Rv. 283659; Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Rv. 279838).
Tale profilo risulta del tutto negletto dalla corte territoriale, che, pur investita specificamente del tema della mancata dimostrazione della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale da parte del giudice di primo grado (incontestata la qualifica di amministratore di diritto del Granata), ha commesso un evidente errore di diritto nell’affermare che ad integrare l’elemento soggettivo del reato in questione è sufficiente il dolo generico (cfr. p. 12 della sentenza di appello), pur dando atto, contraddittoriamente, che nel periodo in cui il COGNOME è stato amministratore di diritto della società fallita le scritture contabili non erano state tenute, a differenza di quanto accertato per il periodo precedente al subentro nel ruolo di amministratore di diritto dell’imputato dopo la morte del COGNOME COGNOME, in cui le scritture contabili erano state regolarmente tenute, consentendo la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari (cfr. p. 11 della sentenza di primo grado e p. 12 della sentenza di secondo grado, dove per un refuso, si fa riferimento alla morte di COGNOME NOME e non di COGNOME NOME).
In questo modo, a fronte di una condotta emersa nei suoi elementi fattuali in termini di bancarotta fraudolenta documentale cd. specifica, la motivazione sulla sussistenza del dolo specifico risulta del tutto carente, perché indebitamente sostituita da una motivazione sul dolo generico.
4.3. Anche il terzo motivo deve ritenersi fondato.
Come si è detto il giudice di primo grado aveva disposto la confisca diretta, ai sensi dell’art. 240, co. 1, c.p., dei beni immobili e mobili dell’imputato, fino alla concorrenza di 800.104,68 euro, importo ritenuto pari al profitto conseguito dal Granata attraverso le distrazioni in precedenza indicate, calcolato sommando il profitto che, secondo il giudice di primo grado, l’imputato aveva ottenuto in relazione alle singole condotte distrattive, individuato, partitamente, nell’importo del debito non onorato dalla società fallita nei confronti della società di leasing (pari a 569.889,64 euro), in ordine ai fatti di cui al capo Al); nell’ammontare del corrispettivo non versato dalla società cessionaria alla società fallita (pari a 189.100,00 euro) in relazione ai fatti di cui al capo A2); nell’importo (pari a 41.115,04 euro) per il quale la società di leasing era stata ammessa al passivo del fallimento, con riferimento ai fatti di cui al capo A3).
La corte territoriale, nel rigettare il rilievo difensivo sul punto, ha osservato che attraverso l’attività di spoliazione del patrimonio della fallita, l’imputato, sottraendone i beni alle ragioni del ceto creditorio, ha potuto operare attraverso la società cessionaria, di cui era socio insieme con l’amministratore di fatto, capitalizzando poi l’operazione quando, dopo avere deciso di abbandonare la “RAGIONE_SOCIALE“, aveva ceduto la sua quota di partecipazione al capitale sociale al Mancuso per un prezzo di 4.500.000,00 euro, cifra di cui il ricorrente, peraltro, contesta l’esattezza, deducendo un errore di calcolo da parte del giudice di appello (la somma esatta sarebbe 450.000,00 euro).
Si tratta, ad avviso del Collegio, di una motivazione lacunosa, se valutata attraverso i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sulla nozione di profitto, puntualmente ricostruiti da una recentissima
sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, che appare opportuno riportare per esteso, per quanto di interesse.
Rileva, in particolare, il Supremo Collegio:
“- il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere sempre accompagnato dal requisito della “pertinenzialità”, inteso nel senso che deve derivare dal reato che lo presuppone (principio di “causalità” del reato rispetto al profitto) (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 264436; Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, COGNOME, in motivazione; Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 239924; Sez. U, n. 41936 del 25/10/ 2005, COGNOME, Rv. 232164; Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, COGNOME, in motivazione; Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, COGNOME, in motivazione; Sez. U, n. 9194 del 3/07/1996, COGNOME, Rv. 205707); in tutte le sentenze indicate, si è sempre fatto riferimento al dato essenziale per cui il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato.
il collegamento reato-profitto deve esistere anche rispetto ai c.d. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l’immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, COGNOME; Sez. U, n. 20208 del 25/10/2007, dep. 2008, COGNOME);
in virtù del “principio di causalità” e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, la trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicché non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, eventuale, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. U, n. 30016 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 286656; Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, RAGIONE_SOCIALE, cit.; sul tema, cfr., Sez. 6, n. 1754, del 14/09/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 271967; Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, dep. 2014, Banca Italease s.p.a, Rv. 258577).
Si è in più occasioni evidenziato come tale nozione di profitto riveli però difficoltà in ragione dei molteplici e dei sempre diversi canali attraverso i quali può circolare la ricchezza acquisita illecitamente.
Ciò spiega la tendenza a interpretare in senso estensivo la nozione in esame; una nozione capace di accogliere al suo interno «non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa… la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene dì investimento cosi acquisito» (Sez. U, n. 2014 del 30/01/2014, COGNOME, Rv 258846; nello stesso senso, Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, COGNOME, Rv. 261116)”.
“Nonostante la tendenza ad interpretare in senso estensivo la nozione di profitto”, rilevano le Sezioni Unite, “in nessun caso si dubita della necessità che il profitto “derivi” dal reato e che, dunque, debba sussistere ed essere provato il nesso di pertinenza del bene rispetto al reato a cui la confisca accede”, anche nel caso in cui il profitto sia “inteso in senso estensivo”. In altri termini “l’estensione della nozione di profitto, e, quindi, la possibilità di disporre la confisca diretta del “provento” del reato, non consente di percorrere semplificazioni probatorie, perché non esime il giudice dalla prova del nesso di derivazione del vantaggio – ancorché indiretto – conseguito dal reato. Anche nei casi in cui cioè non si “colpisce” il bene direttamente derivato dal reato, la confisca, in tanto è qualificabile come diretta, in quanto si dimostri che beni oggetto dell’ablazione siano stati effettivamente conseguiti attraverso l’impiego del prezzo o del profitto del reato; nel caso di confisca diretta del bene che costituisce il reimpiego di quello derivante dal reato, è necessaria, come rilevato in dottrina, la prova degli «elementi che riconducano con certezza il bene alla attività criminosa posta in essere», mediante l’individuazione di tutti i passaggi e le trasformazioni del profitto originario (cfr., sul tema, Sez. U, n.
20208 del 25/10/2007, dep. 2008, COGNOME, cit.; Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004,
COGNOME, Rv. 228166 cit.). Ciò evita il rischio di un’estensione indiscriminata dell’ablazione diretta ad ogni bene nella disponibilità del reo: il concetto di <<provenienza indiretta» concerne il bene da confiscare e non il vantaggio patrimoniale e, che, invece, deve essere sempre causalmente ricollegabile al reato".
L'intervenuta estensione della tradizionale nozione di profitto per farvi ricomprendere anche i beni che non sono immediatamente derivanti dal reato, consente di attribuire alla confisca un nuovo "volto caratterizzato dalla esigenza di riportare la sfera economico-patrimoniale del reo nella stessa situazione che avrebbe avuto se il reato non fosse stato commesso; dunque, una finalità di ripristino volta a rendere l'illecito penale improduttivo» e ad eliminare "in ogni caso" dalla sfera patrimoniale del reo il vantaggio che questi abbia conseguito dal reato e che l'ordinamento ritiene non possa essere trattenuto in ragione della sua causa illecita" (cfr. Sez. U. del 26.9.2024, n. 13783).
Orbene, nel caso in esame, quale sia stato tale vantaggio, collegato sulla base di un necessario rapporto di derivazione causale alle condotte illecite addebitate in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, gli unici considerati dai giudici di merito tali da determinare un profitto, non viene specificamente indicato dal giudice di secondo grado, al quale, invece, spettava (e spetta) il compito di accertare l'esistenza di una correlazione del profitto conseguito dal Granata nella propria sfera patrimoniale con le condotte distrattive per le quali egli è stato condannato, poste in essere in favore di un soggetto diverso, la "RAGIONE_SOCIALE", e di una stretta affinità con l'oggetto di queste ultime, dovendosi escludere qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita della confisca ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso di causalità, dall'illecito, come, in tutta evidenza, appare il riferimento, operato dal giudice di appello, alla circostanza che
l'imputato, attraverso le condotte distrattive, "ha potuto operare al riparo dal rischio di espropriazione".
Sotto questo profilo appare del tutto tautologica, inoltre, l'affermazione, secondo cui il patrimonio dell'imputato avrebbe ottenuto un incremento
patrimoniale causalmente derivante dai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale in precedenza indicati, in difetto di qualsiasi indagine al
riguardo, che, invece, avrebbe dovuto essere svolta avendo come punti di riferimento il patrimonio personale dell'imputato, non coincidente con
quello della "RAGIONE_SOCIALE", posto che, come è noto, nelle società di capitali il patrimonio del singolo socio è distinto da quello della
società, e il prodotto, diretto o indiretto, dell'attività illecita, che non può
essere meccanicamente identificato esclusivamente con il danno arrecato alla consistenza patrimoniale della società fallita, attraverso i
singoli atti distrattivi.
5. Sulla base delle svolte considerazioni la sentenza impugnata va, dunque, annullata, limitatamente all'affermazione di responsabilità del Granata per il reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo A4) e alla disposta confisca, con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Bologna, affinché, attraverso un nuovo giudizio, provveda a colmare le evidenziate aporie e lacune motivazionali, uniformandosi ai principi di diritto in precedenza indicati, nonché, ove sia necessario, provvedendo alla rideterrninazione dell'entità del trattamento sanzionatorio.
La non completa soccombenza del ricorrente comporta che quest'ultimo non sia condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla bancarotta fraudolenta documentale ed alla disposta confisca, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Milano. Rigetta, nel resto, il ricorso. Così deciso in Roma il 6.2.2025.