Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 20083 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 20083 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a SAN GIORGIO MORGETO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 06/03/2023 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore GENERALE NOME COGNOME, la quale ha chiesto pronunciarsi l’inammissibilità del ricorso.
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Ritenuto in fatto
Con sentenza del 6 marzo 2023, la Corte d’appello di Torino ha assolto NOME COGNOME dal delitto di bancarotta fraudolenta documentale, confermando la condanna per il reato di bancarotta distrattiva, commesso in qualità di amministratore di fatto (fino al mese di aprile 2012), della società RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita il 12 febbraio 2015, mediante distrazione della somma complessiva di euro 114.609.
Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. at cod. proc. pen.
2.1. Con i primi due motivi, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’elemento soggettivo dell’ascritto reato. Osserva la difesa che, al momento della commissione delle ipotizzate condotte distrattive, alcuna residua obbligazione gravava sulla fallita società o, almeno, tale era la fondata convinzione dell’imputato.
In particolare, il ricorrente, prima di dismettere il ruolo di amministratore di fatto della fallita RAGIONE_SOCIALE, aveva provveduto, nel marzo 2012, alla stipula di un contratto di compravendita del proprio cantiere a una diversa società, operazione che era stata preceduta da una trattativa con i creditori della fallita, nel corso della quale si era raggiunto un accordo con gli stessi anche in relazione all’estinzione dell’esecuzione immobiliare e alla cancellazione dell’ipoteca che gravava sui beni sociali. Estinte, dunque, le obbligazioni contrat:te dalla RAGIONE_SOCIALE, a eccezione di marginali debiti nei confronti di privati, il ricorrente non poteva sospettare le manovre successive del creditore principale COGNOMECOGNOME istante del fallimento, il quale, pur avendo rinunciato all’azione esecutiva nei confronti dei beni della RAGIONE_SOCIALE (come risulta dal rogito notarile del marzo 2012), disattese in seguito gli impegni assunti, avanzando pretese infondate.
La Corte territoriale avrebbe pertanto errato nel ritenere che l’imputato non fosse in buona fede nel considerare accomodata la situazione creditoria, in particolare quella del COGNOME. In particolare, i Giudici d’appello avrebbero immotivatamente trascurato i dubbi, espressi dal curatore fallimentare, circa l’attendibilità delle dichiarazioni del COGNOME, omettendo, soprattutto, di affrontare la questione della sussistenza o meno del residuo credito a favore del COGNOME, limitandosi a prendere atto del sommario accertamento svolto in sede fallimentare.
2.2. Col terzo motivo, si lamenta vizio di motivazione in relazione all’elemento oggettivo del reato, per avere la Corte d’appello individuato nel
ricorrente l’autore di tutte le operazioni bancarie (bonifici e prelievi) effettuate sul conto corrente della fallita società, per il solo motivo della delega a suo favore disposta dall’amministratrice di diritto della fallita RAGIONE_SOCIALE. Più in particolare, con riferimento 1) al bonifico a favore di NOME COGNOME, il rilievo della Corte relativo all’assenza di traccia documentale dello stesso non terrebbe conto dell’incompletezza della contabilità sociale 2) al bonifico a favore del fratello dell’imputato, la Corte non avrebbe fornito prova dell’asseril:a simulazione 3) all’assegno circolare a favore del NOME, la Corte non avrebbe provato che l’emissione dello stesso fosse stata richiesta dal ricorrente 4) agli assegni emessi dalla fallita società a favore di rifornitori di gasolio, la Corte non avrebbe considerato che le forniture risalivano all’epoca in cui la fallita società era ancora attiva.
2.3. Col quarto motivo, si duole di vizio di motivazione in riferimento all’episodio distrattivo dei mezzi della società, per avere la Corte d’appello ignorato che il ricorrente, all’epoca del trasferimento dei mezzi della società ad altri, non era più legale rappresentante della società; le dichiarazioni dell’acquirente dei mezzi -utili a far luce sul ruolo del fratello dell’imputato e del suo legale, AVV_NOTAIO, nel trasferimento dei beni- sono state illogicamente trascurate dalla Corte.
2.4. Col quinto motivo, si lamenta violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, per avere la Corte valorizzato unicamente la presenza di precedenti penali a carico del ricorrente e il comportamento processuale, erroneamente ritenuto non collaborativo, malgrado l’ammissione, da parte del ricorrente, di parte delle proprie responsabilità.
Sono state trasmesse, ai sensi dell’art. 23, comma 8, dl. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, AVV_NOTAIO, la quale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso. È pervenuta memoria difensiva in replica alle conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale.
Considerato in diritto
I primi due motivi sono manifestamente infondati, non confrontandosi, la difesa, con l’iter motivazionale, in cui la Corte ha messo in luce l’irrilevanza, ai fini della sussistenza del dolo generico e del suo oggetto, del successivo fallimento e, per contro, la rilevanza decisiva e negativa delle ascritte condotte
distrattive per gli interessi dei creditori (cfr. Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266804 – 01: ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività; successivamente, a proposito della necessità di verifica della ricerca di “indici di fraudolenza” ai fini dell’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico, v. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763 – 01, sulla quale si ritornerà infra).
La notazione difensiva circa l’opportunità, per non dire necessità, che la Corte d’appello affrontasse ex novo la questione della sussistenza o meno del residuo credito a favore del COGNOME, è generica, oltre che versata in fatto, ed elude, come già accennato, sia il confronto con la motivazione sia quello con la giurisprudenza di questa Corte. Rispetto al primo profilo, la Corte territoriale ha adeguatamente chiarito che le ragioni dell’istante del fallimento, COGNOME, erano state sufficientemente vagliate in sede fallimentare (tant’è che, a fallimento dichiarato, l’istante è stato ammesso allo stato passivo per euro 112.000 circa). Inoltre, a tal proposito, la genericità del motivo di ricorso emerge anche nel punto in cui la difesa, non articolando più precisamente il proprio assunto, afferma essere “nozione di comune esperienza che il creditore che abbia pignorato l’unico bene immobile di proprietà di una RAGIONE_SOCIALE non accetta mai il pagamento di un semplice acconto” (p. 15 ricorso). Al riguardo, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto inidoneo l’argomento difensivo secondo cui il COGNOME, avendo rinunciato al pignoramento nella procedura esecutiva, avrebbe ottenuto, perciò stesso, integrale soddisfazione del proprio credito. Sul punto, la ragionevole conclusione della Corte d’appello è che egli avesse rinunciato al pignoramento, pur non avendo prima ottenuto piena soddisfazione del suo credito. E, del resto, a parte tale congetturale ricostruzione, il ricorrente non documenta affatto l’estinzione delle obbligazioni all’epoca esistenti nei confronti del COGNOME, che rappresenta la premessa fattuale del suo convincimento del completo adempimento. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Peraltro, per quel che concerne il mancato confronto con la giurisprudenza di legittimità, va ricordato che questa Corte ha chiarito come il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti R.D. 16 marzo 1942, n.267, non possa sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato d’insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, determinandosi, diversamente, una impropria forma di
impugnazione di una sentenza civile in sede penale (Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018, COGNOME, Rv. 273188 – 01, sulla scia di Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, COGNOME, Rv. 239398 – 01).
Nel tentativo di disarticolare la motivazione della Corte in punto di elemento soggettivo del reato, la difesa ricorre ad argomenti inconferenti: affermare, infatti, che “l’unico vaglio avvenuto in sede fallimentare delle ragioni creditorie del COGNOME è dipeso dal fatto che quest’ultimo era titolare di un decreto ingiuntivo definitivo in quanto non opposto” visto che il ricorrente era stato estromesso dalla gestione della società (p. 16 ricorso), significa incorrere in due errori.
Da un lato, infatti, si sottopone a questo Collegio una questione che esula dal suo sindacato (cfr. la già citata Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018, Rv. 273188 – 019.
D’altro lato, si reiterano censure già motivatamente disattese dai Giudici di merito, i quali hanno chiarito come nessuno abbia “estromesso” l’imputato dalla gestione della società, avendo egli stesso abbandonato, nella primavera del 2012, la fallita società alle proprie sorti, non prima di averne prosciugato le risorse finanziarie disponibili, destinandole a impieghi estranei all’attività sociale (tema che verrà affrontato infra, sub 2). Le condotte distrattive -ha ricordato la Corte d’appello a tal proposito- risalgono a epoca immediatamente successiva alla vendita (del 22 marzo 2012) di uno dei due cespiti (la villetta incompiuta, con annesso terreno) per la cui realizzazione la fallita RAGIONE_SOCIALE era stata costituita. Ora, di tali condotte la Corte territoriale ha dimostrato – sulla base delle emergenze probatorie, e con attenta individuazione di dati logici e cronologici – la riconducibilità all’agire dell’imputato, quale amministratore di fatto della fallita, e ciò in termini (come si illustrerà più diffusamente sub 2) non efficacemente contrastati dalla difesa.
Il punto, allora, è che rispetto all’illiceità -ai fini che qui rilevano- di siffa condotte, la Corte territoriale ha razionalmente chiarito l’irrilevanza della consapevolezza, in capo al ricorrente, dell’eventualità del successivo fallimento, con ciò operando buon governo dei criteri elaborati da questa Corte in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione. A tal proposito, va ricordato che la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità, poiché si pone come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente (Sez. 5, n. 2899 del 02/10/2018, dep. 2019, Signoretti, Rv. 274610 – 01: in motivazione la Corte ha precisato che la natura di reato di pericolo concreto della bancarotta fraudolenta prefallinnentare per distrazione non è in contrasto con la qualifica della dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità).
In ogni caso, e quale che sia la natura giuridica della sentenza dichiarativa del fallimento, la conclusione non muta, dal momento che, attraverso un’attenta verifica della natura illecita dei vari atti di disposizione, i giudici di merito hanno ritenuto sussistente il dolo generico in capo all’imputato. Come ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte nella già citata Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgarannella, Rv. 270763 – 01 (in motivazione), ai fini della dimostrazione della sussistenza del dolo generico, non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805): su un piano generale, infatti, «per integrare l’elemento psicologico del delitto in questione non occorre che l’impresa sia in stato di dissesto e che di tale stato sia consapevole l’agente (Sez. 5, n. 29896 del 01/07/2002, COGNOME, Rv. 222388; conf. Sez. 5, n. 16579 del 24/03/2010, COGNOME, Rv. 246879). Fuori dall’ipotesi di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, dunque, l’elemento psicologico della bancarotta fraudolenta patrimoniale va ravvisato nel «dolo generico, cioè nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa e di compiere atti che possano cagionare o cagionino danno ai creditori», consapevolezza che «deve essere desunta da tutti gli elementi che caratterizzano la condotta dell’imputato con una analisi puntuale degli stessi» (Sez. 5, n. 12897 del 06/10/1999, Tassan Din, Rv. 214863).
Al riguardo, in disparte le fattispecie di bancarotta fraudolenta mediante esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, per le quali è richiesta la sussistenza del dolo specifico rappresentato dallo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 45431 del 26/10/2004, Di Trapani, Rv. 230353), l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte è stato ribadito dalle Sezioni Unite (cfr. la già citata sentenza COGNOME), attraverso il principio di diritto in forza del quale l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, vale a dire, la rappresentazione da parte dell’agente della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice.
Il terzo motivo è manifestamente infondato, in quanto versato in fatto e reiterativo di censure correttamente disattese dalla Corte d’appello. Quest’ultima ha infatti illustrato come tutte le condotte distrattive siano
riconducibili ad epoche nelle quali il ricorrente era amministratore di fatto della società. La sentenza indica, al riguardo, il mese di maggio 2012, facendo riferimento alla correlazione temporale con due delle operazioni di disposizione dei proventi della vendita della villetta realizzata dalla società e all’interesse del ricorrente a gestire le transazioni successive al bonifico del 2 aprile 2012, tra cui quella a favore del proprio fratello.
Ora, rispetto a tali operazioni i giudici di merito hanno ragionevolmente escluso che esse siano giustificate da esigenze sociali, alla luce dei destinatari e delle modalità delle operazioni.
Ciò che vale per tutte le vicende menzionate nel motivo di ricorso sopra riassunto e oggetto di assertive prospettazioni, reiterative e prive di confronto con l’apparato argonnentativo della sentenza impugnata.
Il quarto motivo, specificamente riguardante la distrazione dei mezzi della società è, del pari, reiterativo e aspecifico, per l’assorbente ragione che continua a non confrontarsi, se non in termini illogici, con il dato – incontestato dell’incontro tra il ricorrente e l’acquirente dei beni, al fine “verosimile” (così si esprime il teste COGNOME, senza riuscire ad indicare altre ragionevoli causali) di “accordarci sul passaggio di proprietà dei mezzi”. In realtà, proprio il fatto – valorizzato dal ricorso – che l’imputato non sia Mai stato il legale rappresentante della società rivela che il suo intervento si spiegava dal punto di vista sostanziale, con ciò dimostrando il pieno contributo alla realizzazione della distrazione.
Il quinto motivo è inammissibile, dal momento che la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata, nella sentenza impugnata, con motivazione esente da manifesta illogicità (i precedenti e l’assenza di positivi elementi di valutazione), che si sottrae, pertanto, al sindacato di questa Corte (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio, espressione della consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli att ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244).
Ciò posto, quanto alla valutazione di merito operata dalla sentenza impugnata, va solo aggiunto che la Corte d’appello non ha inteso valorizzare in
senso negativo la strategia difensiva dell’imputato, ma solo rilevare che non era dato ravvisare elementi positivi di valutazione, anche sul piano della condotta processuale.
Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 6115 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 12/01/2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente