Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 1210 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 1210 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a TORINO il 16/02/1949
avverso la sentenza del 07/12/2022 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 7 dicembre 2022, la Corte di appello di Torino, giudicando in sede di rinvio, ha parzialmente riformato quella emessa il 13 dicembre 2012 dal Tribunale della stessa città e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti di cui all’art. 219, commi primo e secondo, n. 1, legge fallimentare, ha rideterminato la pena, nei confronti di NOME COGNOME nella misura di tre anni e sei mesi di reclusione riducendo, inoltre, la durata delle pene accessorie di cui all’art. 216 legge fallimentare in misura corrispondente alla pena principale.
1.1. La vicenda processuale è stata riassunta nella sentenza impugnata nei termini di seguito illustrati.
Con sentenza del 13 dicembre 2012, il Tribunale di Torino riteneva NOME COGNOME, amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, fallita, responsabile del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale, aggravato ai sensi dell’art. 219, commi primo e secondo, n. 1, legge fallimentare e lo condannava alla pena di quattro anni di reclusione.
Con successiva sentenza del 16 maggio 2019, la Corte di appello di Torino riformava la predetta decisione e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, rideterminava la pena in tre anni e sei mesi di reclusione.
In data 20 aprile 2021, la Quinta Sezione di questa Corte annullava la sentenza della Corte torinese, limitatamente all’aggravante di cui all’art. 219, comma primo, legge fallimentare rinviando, per nuovo giudizio sul punto, ad altra Sezione della Corte di appello.
In particolare, veniva rilevato l’errore nel quale erano incorsi i giudici merito nel riconoscere la sussistenza dell’aggravante del danno di rilevante gravità che era stata ravvisata esclusivamente sulla scorta dell’importo delle distrazioni e senza l’accertamento dell’effettiva incidenza degli illeciti nel diminuzione della massa attiva disponibile al riparto.
In sostanza, non era stata accertata, contrariamente a quanto stabilito dalla costante giurisprudenza di legittimità, l’effettiva diminuzione patrimoniale causata ai creditori dalla condotta di bancarotta.
Al giudice di rinvio era stata, pertanto, demandata la verifica dell’incidenza della condotta nella diminuzione della massa attiva.
1.2. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Torino, in sede di rinvio, ha ritenuto sussistente l’aggravante rilevando, in primo luogo, l’elevata entità del valore dei beni sottratti all’esecuzione concorsuale.
A tale scopo, ha determinato l’ammontare complessivo dei crediti ammessi
al passivo (484.258,36 euro).
Ha, inoltre, quantificato l’entità delle distrazioni nella misura di 304,394,10 euro (merci non pagate ai fornitori, rivendute «in nero» e non trovate dal curatore, per 104.581,30 euro; servizi non pagati alla stessa società per 199.812,80 euro).
Tenuto conto che l’attivo del fallimento è stato quantificato in 1.800 euro, l’ammontare della diminuzione patrimoniale riferibile a COGNOME è stato determinato in 302.594,10 euro (199.812,80 + 104.581,30 – 1.800).
In ragione del passivo fallimentare, operato il confronto con la predetta diminuzione patrimoniale, la Corte di appello ha rilevato l’incidenza sul danno provocato ai creditori in termini di «auto-evidenza» per COGNOME.
In assenza delle sue condotte distrattive, sarebbero stati interamente pagati i creditori privilegiati (il cui credito ammontava a 10.226,84 euro) e, almeno in larga parte, quelli chirografari (474.031,52).
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME per mezzo del proprio difensore, Avv. NOME COGNOME articolando un motivo con il quale ha eccepito la nullità della sentenza per carenza di motivazione e violazione dell’art. 219, comma primo, legge fallimentare.
Il vizio della motivazionale è stato evidenziato, in primo luogo, con riferimento all’imputazione della somma di 199.812,80 euro a carico di COGNOME, pur a fronte di una condotta materialmente riferibile ai coimputati COGNOME e COGNOME ossia coloro che avevano omesso il pagamento delle forniture operate dalla società fallita.
Pertanto, la condotta materialmente ascrivibile al ricorrente sarebbe solo quella produttiva della riduzione della massa attiva per l’importo di 104.581,30 eumche , GLYPH non può essere ritenuto ingente. i
Nell’effettuazione della valutazione GLYPH demandata GLYPH dalla sentenza GLYPH di annullamento, la Corte di appello avrebbe dovuto tenere conto solo del danno riferibile alle condotte dallo stesso poste in essere personalmente e quale amministratore di fatto.
Da ciò sarebbe derivata la carenza motivazionale anche in punto di criteri di determinazione del danno alla massa attiva apoditticamente ritenuto in termini di «auto-evidenza».
Nel motivo di ricorso è stata censurata anche l’omessa motivazione sul giudizio di bilanciamento tra attenuanti generiche e la ritenuta aggravante.
Il difensore ha presentato tempestiva istanza di trattazione orale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
La prima parte del motivo di ricorso riguarda la motivazione con la quale la Corte di appello, in sede di rinvio, ha attribuito a COGNOME, oltre alla somma di 104.000 euro (pari al valore della merce acquistata, non pagata e rivenduta in nero, non rinvenuta dal curatore), anche quella di 199.000 euro.
Si tratta del valore delle campagne pubblicitarie acquistate da RAGIONE_SOCIALE e rifatturate a RAGIONE_SOCIALE, da questa non pagate e, successivamente, non pagate dalla prima società ai fornitori.
Nel formulare la censura, il ricorrente ha trascurato di considerare che l’imputazione è stata formulata (e ritenuta dimostrata con decisione ormai coperta da giudicato) in riferimento alla condotta di COGNOME quale amministratore di fatto.
L’imputato, secondo la ricostruzione contenuta sin dalla sentenza di primo grado (pagg. 9 e seguenti) è colui che ha ideato e organizzato il sistema che ruotava intorno alla società fallita r nell’ambito della quale ricopriva un «ruolo centrale» in luogo del prestanome NOME COGNOME.
Sul punto la sentenza di primo grado si è soffermata ampiamente /con un paragrafo apposito dedicato proprio all’imputat9 e, soprattutto a pag. 11, ha spiegato: «può dunque affermarsi con sicurezza che tale imputato ha gestito Madog dalla sua nascita (come società truffaldina) fino al suo fallimento, avendo egli svolto, sulla base di quanto emerso in dibattimento, un’attività ancor più intensa e pregnante di quella attribuita al defunto COGNOME».
Da ciò consegue che è manifestamente infondato il riferimento a una mancanza di motivazione, vertendosi in tema di profilo sul quale i giudici di merito hanno già argomentato con sentenza che, sul punto, non è stata attinta dall’annullamento della Quinta Sezione.
Sulla base di tale accertamento definitivo è avvenuta l’imputazione delle perdite derivanti dalle campagne pubblicitarie.
In ordine all’ulteriore aspetto costituito dalle modalità di calcolo del danno di rilevante entità, deve segnalarsi come la sentenza di annullamento della Quinta Sezione (Sez. 5, n. 32724 del 20/04/2021) abbia affermato la fondatezza del motivo di ricorso avente ad oggetto il vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta aggravante di cui all’art. 219, comma primo, legge fallimentare in quanto «il giudice territoriale non ha fatto buon governo dei principi pacifici elaborati da questa Corte in argomento, secondo cui “ai fini dell’applicazione
delle circostanze di cui all’art. 219 della legge fallimentare, la valutazione de danno va effettuata con riferimento non all’entità del passivo o alla differenza tra attivo e passivo, bensì alla diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta; ne consegue che il giudizio relativo all particolare tenuità – o gravità – del fatto non va riferito al singolo rapporto c passa tra fallito e creditore ammesso al concorso, né a singole operazioni commerciali o speculative dell’imprenditore decotto, ma va posto in relazione alla diminuzione, (non percentuale, ma globale), che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti”. (Sez. 1, n. 12087 del 10/10/2000, COGNOME, R 217403; Sez. 5, n. 48203 del 10/7/2017, COGNOME, Rv. 271274)».
Ha, quindi, precisato che «se (…) in considerazione della particolare condizione patrimoniale della fallita, da un fatto di bancarotta patrimoniale di rilevante gravità, non sia derivato un danno patrimoniale per i creditori, anch’esso di entità altrettanto grave, non può ritenersi integrata l’anzidetta circostanza aggravante» e demandato al giudice di rinvio di accertare «l’incidenza della condotta ascritta agli imputati nella diminuzione della massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati g illeciti per cui è causa».
Nel contestare il metodo utilizzato dalla Corte di appello di Torino per motivare la ricorrenza dell’aggravante, il ricorrente ha censurato il passaggio della motivazione nel quale è stato fatto riferimento all’«auto-evidenza» dell’incidenza delle condotte ascrivibili a COGNOME sul danno provocato alla massa dei creditori.
Si tratta di censura, anch’essa, inammissibile stante l’omesso confronto con la verifica effettiva compiuta dalla Corte di appello dell’incidenza dell’importo delle distrazioni (pari a 304.394,10 euro) a fronte dell’attivo di soli 1.800 euro sulla massa a disposizione dei creditori.
L’analisi è stata compiuta tenendo conto dei dati oggettivi documentalmente risultanti e sui quali non è stata sollevata e accolta, nel corso del giudizio, alcuna censura specifica.
Il limitato aspetto oggetto della critica del ricorrente attiene ad un profi valutativo che non riguarda il nucleo del giudizio che, come detto, è stato compiuto sulla base di parametri coerenti con la sentenza di annullamento.
Inammissibile, sul punto, anche l’ulteriore censura relativa al bilanciamento delle circostanze.
La sentenza ha compiuto, per ogni aspetto non attinto dalla decisione di annullamento, un rinvio alla sentenza della Corte di appello di Torino del 16 maggio 2019.
A fronte di tale rinvio, il rilievo della «mancanza di ogni motivazione» si rivela generico in quanto una motivazione, in punto di pena, è stata resa.
Peraltro, il ricorrente non ha indicato in quale punto dell’atto di appello ha formulato la censura riferita al bilanciamento delle circostanze e, quindi, quale sia il profilo non oggetto di valutazione.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e in mancanza di elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» al versamento della somma, equitativamente fissata in euro tremila, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 22/09/2023
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Il Consigli e est nsore
Il Presidente