Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10750 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10750 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME Rocco nato a Bareggio (MI) il 26/01/1983 avverso la sentenza del 03/05/2024 della Corte d’appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento degli ultimi due motivi di ricorso e il rigetto nel resto; udito il difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Milano ha dichiarato COGNOME Rocco colpevole dei reati di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 d.lgs. 74/2000), di bancarotta fraudolenta distrattiva (artt. 223, comma 1, e 216, comma 1, n. 1, r.d. 267/1942), documentale (artt. 223, comma 1, e 216, comma 1, n. 2, r.d. 267/1942) ed impropria per aver cagionato il fallimento mediante operazioni dolose (art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942), tutti commessi ai danni della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE
Concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate e ritenuto il vincolo della continuazione, il Tribunale ha condannato il Mongiardo a quattro anni di reclusione, previa riduzione della pena finale per il rito. In particolare, partendo dalla pena base di tre anni e sei mesi di reclusione per il delitto di cui al capo D (la bancarotta fraudolenta distrattiva ai danni de RAGIONE_SOCIALE), previo aumento di sei mesi di reclusione per ognuno dei residui delitti contestati, il Tribunale è pervenuto alla pena finale di sei anni di reclusione, ridotta, come detto, per il rito a quella quattro anni di reclusione.
Il primo giudice ha applicato, altresì, le sanzioni accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, dell’interdizione dagli uffici direttivi delle per giuridiche e delle imprese e dell’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione per la durata di due anni.
L’imputato è stato, inoltre, condannato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile costituita, Fallimento RAGIONE_SOCIALE, liquidarsi in euro 32.000,00.
Il Tribunale ha disposto, infine, la confisca diretta, ex art. 240, comma 1, cod. pen., della somma di euro 1.041.210,84, in ordine alla condotta di cui al capo C (bancarotta distrattiva ai danni della RAGIONE_SOCIALE, e della somma di euro 388.308,82, in ordine al fatto di cui al Capo F (bancarotta distrattiva in pregiudizio della RAGIONE_SOCIALE, nonché, ai sensi degli artt. 2 bis cod. pen. e 12-bis d.lgs. 74/2000, la confisca per equivalente di beni mobili e immobili e di ogni altro bene di cui NOME COGNOME avesse la disponibilità per un valore corrispondente ad euro 4.513.032,33, in relazione al capo A (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte).
La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, fatta eccezione per la pena finale, ridotta a tre anni di reclusione.
In particolare, partendo da quella base di tre anni di reclusione, per il delitt di bancarotta fraudolenta distrattiva ai danni della RAGIONE_SOCIALE, la sentenza d’appello ha disposto l’aumento di sei mesi di reclusione per i residui delitti di bancarotta ai danni di detta società, di ulteriori sei me reclusione per i restanti reati di bancarotta (ai danni della RAGIONE_SOCIALE) infine, di altri sei mesi di reclusione per il delitto sub capo A (di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte): sicché la pena finale è risultata quella indicata, di tre anni di reclusione, una volta ridotta per il rito.
La medesima Corte ha dato, peraltro, atto che per i capi B, C e D, relativamente alle condotte inerenti il fallimento della RAGIONE_SOCIALE
Sinistri sRAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE COGNOME aveva GLYPH reso piena confessione, GLYPH impugnando esclusivamente il trattamento sanzionatorio e la confisca.
Ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, in base ai motivi di seguito sintetizzati.
3.1. Col primo complesso motivo, articolato nei numeri 1, 2 e 3, lamenta vizi di motivazione e l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale, precisamente degli artt. 192 cod. proc. pen., 110 cod. pen., 223, comma 1, 216, comma 1, n. 1 e 2, e 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942, relativamente ai capi E, F, e G, inerenti ai delitti di bancarotta commessi ai danni della RAGIONE_SOCIALE
L’imputato si duole che, in relazione al suo assunto ruolo di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’Appello si sia limitata a recepire conclusioni del giudice di primo grado, senza affrontare in modo critico e analitico i motivi d’appello sollevati dalla difesa, emettendo una sentenza carente di motivazione individualizzante circa la sua responsabilità per le dette contestazioni.
In particolare, la Corte d’Appello avrebbe adottato un approccio generalista e, partendo dall’apodittico assunto dell’indistinguibilità delle posizioni dell’imputa rispetto alle società a lui asseritamente riconducibili, e dal dato fattuale del sostanziale ammissione di responsabilità per gli analoghi delitti commessi ai danni della RAGIONE_SOCIALE (per la quale il COGNOME aveva confermato il suo ruolo di amministratore di fatto), aveva omesso un’analisi autonoma e specifica delle singole condotte contestate in relazione alla RAGIONE_SOCIALE
Si assume, in particolare, che sarebbero stati trascurati i seguenti, ed asseritamente decisivi, elementi a favore dell’imputato:
la delega ad operare sul conto corrente della RAGIONE_SOCIALE, citata dalla sentenza d’appello per dimostrare il ruolo di amministratore di fatto del ricorrente, riguardava esclusivamente il periodo 18 agosto 2014 – 21 luglio 2015, senza ulteriori elementi probatori a supporto della continuità di tale ruolo negli anni successivi;
le intercettazioni telefoniche riportate nelle due sentenze di merito sarebbero state interpretate in modo decontestualizzato ed errato;
in particolare, la telefonata di cui al progressivo 181 in data 11/2/2020, intercorsa tra COGNOME NOME e COGNOME NOME, dipendente Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., in cui quest’ultimo aveva esortato l’imputato a chiudere il conto per delle irregolarità, era stata mal interpretata dal giudice d’appello, che aveva confuso la detta RAGIONE_SOCIALE con la RAGIONE_SOCIALE, come dimostravano l’epoca
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della telefonata (2020), il fatto che la detta delega fosse cessata nel 2015 e l’assenza di prova di ulteriori successive ingerenze nella gestione del conto della RAGIONE_SOCIALE, da parte del ricorrente;
la conversazione tra COGNOME NOME e COGNOME NOME (progressivo 1571 del 22/04/2020), dopo la convocazione del primo, da parte del curatore fallimentare, faceva, in realtà, emergere che la responsabilità delle operazioni irregolari sui conti della RAGIONE_SOCIALE fosse attribuibile al stesso COGNOME, amministratore di diritto, e a COGNOME NOME, avendo la COGNOME rimarcato come le distrazioni in danno di RAGIONE_SOCIALE fossero avvenute a vantaggio degli stessi COGNOME e COGNOME e desumendosi da essa come il primo fosse perfettamente consapevole dell’esposizione della società RAGIONE_SOCIALE nei confronti del fisco;
era irrilevante che COGNOME NOME, amministratore unico e titolare delle quote della RAGIONE_SOCIALE, non appena ricevuta la convocazione per essere interrogato in relazione al fallimento di detta società, avesse contattato COGNOME NOME e COGNOME NOME, nonostante costoro non rivestissero alcuna carica nella società fallita, ciò spiegandosi con la conoscenza tra il COGNOME e il COGNOME;
in altra intercettazione del 20/4/2020, tra il COGNOME e la sua compagna, tale NOMECOGNOME si desumeva che il Mongiardo si fosse, in effetti, “dileguato”, e quindi “disinteressato alla vicenda proprio perché non era una società da lui amministrata” (pagina 11 ricorso);
dal sequestro del 18/2/2021, operato dalla Guardia di Finanza, allegato al ricorso, emergeva l’assenza di collegamenti dell’imputato con la RAGIONE_SOCIALE
In definitiva, si assume esservi stata, in relazione alle imputazioni di cui a capi E, F e G, una “errata valutazione delle risultanze processuali”, per esservi stata condanna senza che fosse dipanato ogni ragionevole dubbio in relazione al ruolo di amministratore di fatto assunto dall’imputato: non essendo a ciò sufficiente l’analogia delle vicende delle due società fallite.
3.2. Con ulteriore doglianza, articolata ai numeri 4, 5 e 6, parte ricorrente contesta l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. e 11 d.lgs. n. 74/2000, nonché vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato previsto da tale ultima disposizione, di cui al capo A. In particolare, si contesta che le società subentrate nell’attività svol originariamente dalla ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, con il contributo di soggetti fittiziamente intestatari, fossero state il mezzo fraudolento per sottrarre i be aziendali della medesima “TURBO 50” alle pretese erariali.
La Corte d’appello non avrebbe adeguatamente considerato il requisito dell’idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Viene criticata l’assenza di una valutazione complessiva del patrimonio dell’imputato rispetto alle pretese dell’Erario, non coincidendo la detta “idoneità” con un’alienazione simulata o un atto fraudolento, a prescindere dalla valutazione del residuo patrimonio rimasto al contribuente da rapportarsi alle pretese dell’Erario, atteso che tale residuo ben avrebbe potuto ugualmente garantire quest’ultimo, pur in presenza di atti di alienazione.
Si assume che la detta idoneità si determinerebbe solo allorché l’atto posto in essere comporti una riduzione significativa della garanzia in rapporto al credito vantato dall’Erario.
Nella specie, si assume che le operazioni contestate non avrebbero avuto la capacità di compromettere la procedura di riscossione fiscale, dato che i beni aziendali trasferiti non erano di rilevante valore e che il patrimonio aziendale residuo della “Turbo 50” era comunque sufficiente a soddisfare i crediti erariali.
Peraltro, l’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE” non aveva mai cessato del tutto l’attività, tanto che nel 2018 (come da tabella a pagina 78 della sentenza di primo grado) aveva dichiarato “un volume d’affari pari ad C 73.500” e, dunque, era, così come l’imputato stesso (trattandosi di impresa individuale), aggredibile dall’Erario.
Si assume, poi, che la costituzione della RAGIONE_SOCIALE fosse indipendente dalle problematiche fiscali della RAGIONE_SOCIALE e di COGNOME NOME: tanto che, come da tabella riportata a pagina 77 della sentenza di primo grado, la prima cartella esattoriale era stata ricevuta dalla “RAGIONE_SOCIALE” in data 23/2/2010, mentre la RAGIONE_SOCIALE era stata costituita solo il 6/7/2011, subentrando operativamente alla ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE” circa tre anni dopo la notifica di detta prima cartella.
La creazione della RAGIONE_SOCIALE sarebbe stata funzionale, per parte ricorrente, a salvaguardare la continuità aziendale e non a sottrarre beni al fisco. L’intendimento era quello di regolarizzare i debiti esisten verso i fornitori e gli istituti di credito, senza pregiudicare le pretese erariali soddisfare in un secondo momento. Insomma, si intendeva “garantire la prosecuzione dell’attività intestandola a soggetti non protestati e come tali presentabili al sistema bancario e creditizio” (pagina 19 ricorso).
La difesa sottolinea, dunque, che non fosse stata provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la diretta intenzione del COGNOME di eludere le pretese dell’Erario, ovvero il dolo non meramente eventuale, nel senso che egli si fosse rappresentato e avesse voluto l’evasione dell’imposta oltre il limite penalmente
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rilevante.
3.3. Con una terza serie di doglianze, articolata ai numeri 7 e 8, parte ricorrente censura la sentenza d’appello per vizi di motivazione e violazione della legge penale relativamente agli articoli 15 cod. pen., 11 d.lgs. 74/2000, e 223, comma 2, n. 2), r.d. 267/1942.
Si evidenzia come la Corte territoriale abbia violato il principio di specialità disattendendo la richiesta di declaratoria di assorbimento del reato contestato al capo A (di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000) in quelli di cui all’art. 223, comma 2, 2), r.d. 267/1942, di bancarotta impropria, per avere il Mongiardo cagionato il fallimento mediante operazioni dolose (art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942) della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, di cui capi D e G: ciò in quanto le operazioni causative del dissesto delle fallite erano integrate proprio ed esclusivamente dal sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie e contributive, che non potevano, dunque, essere ulteriormente punite ai sensi dell’art. 11 d.lgs. 74/2000.
Insomma, l’applicazione di entrambe le norme penali configurerebbe, per parte ricorrente una duplicazione sanzionatoria, incompatibile con il principio di specialità.
La sentenza d’appello sarebbe priva di adeguate argomentazioni circa il rigetto della richiesta di assorbimento dei reati. La Corte d’appello, infatti, avrebb richiamato principi generali, senza confrontarsi puntualmente con le osservazioni avanzate dalla difesa e, in particolare, con l’applicazione del principio del concorso apparente di norme, disciplinato dall’art. 15 cod. pen.
Al riguardo, si assume che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il criterio di specialità deve essere applicato in senso logico-formale, ossia verificando la continenza tra le fattispecie attraverso un confronto strutturale degli elementi costitutivi delle norme. La difesa sostiene che i reati contestati sarebbero sovrapponibili per oggetto, condotta ed evento, e che anche il bene giuridico tutelato coinciderebbe, essendo il patrimonio aziendale e la pretesa erariale i principali interessi protetti. Viene richiamata, a sostegno, Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Rv. 248864-01, che indica il criterio di specialità come unico parametro per risolvere il concorso apparente di norme, evidenziando che deve esistere una relazione di continenza tra le fattispecie perché possa concludersi che debba applicarsi una sola disposizione normativa, indipendentemente dall’interesse tutelato dalle norme incriminatrici, irrilevante.
Si assume, ancora, che sarebbe stato violato anche il principio del “ne bis in idem”, anche sostanziale, sancito dall’art. 649 cod. proc. pen. e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: secondo cui non sarebbe
possibile “l’addebito plurimo di un medesimo fatto quante volte l’applicazione di una sola delle norme cui il fatto in teoria corrisponde ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sul terreno oggettivo e soggettivo” (pagina 23 ricorso).
3.4. Con una quarta serie di censure, articolata ai numeri 9 e 10, parte ricorrente deduce che la sentenza d’appello avrebbe fatto erronea applicazione degli articoli 157 e 158 cod. pen., incorrendo, altresì, in vizi di motivazione laddove non aveva ritenuto maturato il termine estintivo di prescrizione del menzionato delitto fiscale di cui al capo A.
Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ex art. 11 d.lgs. 74/2000, sarebbe, infatti, di natura istantanea e si consumerebbe nel momento e nel luogo in cui viene effettuata la simulata alienazione di beni o sono posti in essere altri atti fraudolenti.
La Corte d’appello – si assume – aveva correttamente richiamato la giurisprudenza secondo cui la consumazione del reato può protrarsi in caso di atti fraudolenti successivi ai primi, ma non aveva analizzato compiutamente se, in concreto, vi fosse effettivamente stata la detta protratta reiterazione di at fraudolenti. Si osserva che il giudice d’appello non avrebbe considerato le risultanze processuali, da cui si desumeva che l’unico atto rilevante fosse stata la costituzione della “RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE” e che questa, pertanto, avrebbe determinato il momento di consumazione del reato e l’inizio del termine di maturazione della prescrizione.
Non vi sarebbe, dunque, una motivazione adeguata a giustificare l’estensione temporale della commissione del reato oltre la data di costituzione della detta “RAGIONE_SOCIALE“, che, con l’acquisizione della quasi totalità dei dipendenti della ditta individuale, della sua attiv commerciale e dell’immobile in cui si svolgeva, rappresentava la prosecuzione dell’impresa individuale, e cioè la condotta fraudolenta finalizzata a vanificare, i tutto o in parte, la riscossione coattiva erariale nei confronti della “RAGIONE_SOCIALE“: come desumibile dalla correlazione temporale tra il decremento dell’operatività della ditta individuale e l’aumento di operatività della menzionata società (con la “sostanziale corrispondenza tra fatturato dell’impresa individuale nel 2012 e fatturato della società nel 2013”).
E si sostiene, ancora, che la costituzione di altre società non avesse “concorso” a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione nei confronti della detta ditta individuale, sia per essere avvenuta in epoca successiva, sia per la non coincidenza delle maestranze, «dell’operatività delle medesime e del relativo fatturato», rispetto a quelli della “TURBO 50”.
Insomma, al riguardo la sentenza di secondo grado avrebbe richiamato
principi generali senza esaminare le risultanze probatorie che indicavano l’assenza di ulteriori atti fraudolenti successivi alla costituzione della “RAGIONE_SOCIALE“: sicché la consumazione del delitto in detta data aveva determinato la maturazione del relativo termine di prescrizione.
3.5. Con una quinta serie di doglianze, articolate ai numeri 11, 12 e 13, parte ricorrente chiede l’annullamento della decisione per vizi di motivazione nella determinazione del trattamento sanzionatorio, che sarebbe per più profili stato stabilito in modo errato o privo di idonea motivazione, sia in relazione al mancato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti, sia in relazione all’entità degli aumenti di pena in continuazione, sia, infine, i relazione alla determinazione delle pene accessorie, la quale ultima sarebbe stata effettuata anche in violazione di norme di legge (ovvero gli artt. 37 cod. pen. e 216, ultimo comma, r.d. 267/1942).
Il ricorrente lamenta l’insufficienza della motivazione della Corte territoriale, la quale, nonostante l’ammissione di responsabilità, per i delitti di cui ai capi B, C e D, da parte del Mongiardo, e, in generale, la sua collaborazione con la giustizia, e nonostante, ancora, l’accordo transattivo da lui raggiunto con una delle parti civili (il Fallimento della RAGIONE_SOCIALE), con parzi ristoro del danno provocato, si sarebbe limitata a riconoscere l’equivalenza tra le attenuanti e le aggravanti senza un’adeguata analisi delle dette peculiarità del caso concreto: omettendo, dunque, di irrogare una pena proporzionata al disvalore del fatto e idonea a rieducare il condannato. Si assume, ancora, che gli elementi positivi emersi a favore del ricorrente avrebbero dovuto condurre alla prevalenza delle attenuanti, riflettendo un ravvedimento concreto dell’imputato, superando questo la valenza negativa dei precedenti penali.
Si torna a sottolineare come il ricorrente, pur ammettendo alcune delle responsabilità attribuitegli, avesse sempre negato il proprio coinvolgimento nelle distrazioni patrimoniali, in particolare quelle a danno della RAGIONE_SOCIALE
La difesa richiama nuovamente, al riguardo, una serie di elementi probatori che dimostrerebbero come le attività delle società in questione fossero gestite da altri soggetti, senza il diretto controllo dell’imputato.
Anche le sanzioni accessorie sarebbero, a dire di parte ricorrente, sproporzionate e oggetto di inadeguata motivazione.
La difesa sostiene, anche con specifico riferimento all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, che le pene accessorie avrebbero dovuto essere irrogate in misura non superiore a quella della pena principale: in caso contrario determinandosi un’ingiustificata compressione delle possibilità lavorative del condannato, a pena principale espiata.
3.6. Con una sesta ed ultima serie di censure, articolata ai numeri 14 e 15, il ricorrente denuncia l’erronea applicazione della legge penale con riguardo alle confische, disposte, ex artt. 240 cod. pen. (in forma diretta) e 12-bis d.lgs. 74/2000 (per equivalente), con decisione lesiva del principio di proporzionalità e viziata nella motivazione.
Nel ricorso si assume, anzitutto, che il giudice di prime cure avesse disposto la confisca diretta, ex art. 240, comma 1, cod. pen., della somma di euro 1.041.210,84, in ordine alla condotta di cui al capo C (bancarotta distrattiva ai danni della RAGIONE_SOCIALE, e della somma di euro 388.308,82, in ordine al fatto di cui al Capo F (bancarotta distrattiva in pregiudizio della RAGIONE_SOCIALE e, successivamente, avesse provveduto alla confisca per equivalente, ex art. 12-bis d.lgs. 74/2000, in relazione al capo A (sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte) per beni dal valore corrispondente all’importo sottratto alle pretese dell’Erario, pari ad euro 4.513.032,00: confiscando, insomma, tutti i beni già oggetto dei provvedimenti di sequestro ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen.
In particolare, si specifica che fossero stati confiscati: gli importi giacenti conti correnti nella sostanziale disponibilità dell’imputato, per quanto eccedente il profitto dei reati di bancarotta fraudolenta distrattiva; gli immobili intesta COGNOME NOME, padre del ricorrente, e alla “Immobiliare San Marco”; i beni mobili registrati dell’imputato, di suo padre, dei suoi prestanome e delle società del gruppo.
Parte ricorrente contesta che la Corte territoriale abbia del tutto omesso di rispondere alle censure inerenti alla richiesta di revoca della confisca ex art. 240 cod. pen., non chiarendo le ragioni per le quali i beni confiscati avrebbero dovuto considerarsi diretta derivazione del reato o strumentali alla sua commissione.
Ed ancora, si assume che nessuna risposta fosse stata data all’ulteriore censura secondo cui la confisca “per equivalente” fosse stata disposta per il reato tributario non ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., bensì ex art. 12-bis d.l 74/2000, introdotto dall’art. 10 d.lgs. 158/2015, che ha contestualmente abrogato l’art. 1, comma 143, I. 244/2007, il quale disponeva l’applicazione dell’art. 322ter cod. pen. ai delitti tributari.
Ad ogni modo, la stessa parte ricorrente ammette che la nuova disposizione riproponesse “sostanzialmente il contenuto e i corollari sottesi all’art. 322-ter cod pen.”.
Secondo la difesa, poi, in base all’informazione provvisoria n. 12/2024, le Sezioni Unite di questa Corte avrebbero chiarito che, in tema di confisca “per equivalente”, in caso di concorso di persone nel reato, esclusa ogni forma di
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solidarietà passiva, la confisca avrebbe dovuto esser disposta nei confronti del singolo concorrente limitatamente a quanto dal medesimo concretamente conseguito e, solo in caso di mancata individuazione della quota di arricchimento del singolo concorrente, si dovrebbe fare applicazione del criterio della ripartizione in parti uguali: sicché non avrebbe potuto essere disposta la confisca per “equivalente” a fronte di un prezzo o profitto mai realmente incamerato dall’autore del reato, come nel caso in esame.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso, da rigettare, salvo in relazione alla confisca per equivalente, per la quale va disposto l’annullamento con rinvio per un nuovo giudizio.
1.1. Il primo motivo, con cui ci si duole della “errata valutazione delle risultanze processuali” con riferimento ai capi E, F e G, è inammissibile.
È noto che sia radicalmente inammissibile ogni censura che si risolva in doglianze in fatto che sottopongano al giudice di legittimità una diversa valutazione delle prove raccolte. Tanto esula dal novero dei vizi deducibili ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., con limiti non aggirabili, ovviamente, col mero richiamo di violazioni normative o della violazione della lettera c) della medesima norma, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 192, 125 e 546 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, NOME, Rv. 280027-04): salvo non emergano omissioni, contraddizioni o illogicità manifeste.
Queste ultime, in quanto «manifeste», devono essere tali da apparire di lapalissiana evidenza per esser la motivazione fondata su congetture implausibili o per avere la stessa trascurato dati di superiore valenza (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01): tanto più nel caso di decisioni di merito conformi, che, come noto, si saldano tra loro in un unicum motivazionale da valutare nel suo complesso (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01).
In estrema ed efficace sintesi, «la manifesta illogicità della motivazione, prevista dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., presuppone che la ricostruzione proposta dal ricorrente e contrastante con il procedimento argomentativo recepito nella sentenza impugnata sia inconfutabile e non rappresenti soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza» (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589-02), essendo, per contro,
«inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spes della valenza probatoria del singolo elemento» (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Rv. 280747-01; così pure Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965-01).
Nella specie, fuori dai detti limiti, si contrappone una diversa e parcellizzata lettura delle prove.
Nessuna violazione di legge, dunque, si deduce, non essendo qui censurata la (errata) applicazione di norme ad un dato fatto, rimasto incontestato, essendosi bensì chiesta una diversa ricostruzione del fatto stesso.
Trattasi di una non consentita, in questa sede, istanza di rivalutazione del materiale probatorio finalizzata a una rivisitazione del giudizio di merito, nel quale la Corte d’appello, aderendo alle conclusioni del Tribunale, ha desunto la responsabilità dell’imputato ed il suo ruolo di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE dai seguenti elementi:
-l’imputato era stato delegato ad operare, dal 18 agosto 2014 al 21 luglio 2015 sul conto corrente della RAGIONE_SOCIALE
-nella conversazione intercorsa 111/2/2020, progr. 181, COGNOME NOME, dipendente del Monte dei Paschi di Siena, aveva esortato l’imputato a chiudere il conto di detta società (per le sue anomalie), laddove parte ricorrente sostiene un ipotetico travisamento della prova senza indicare come avrebbe dovuto – elementi specifici per sostenere che il COGNOME si riferisse al conto di altra società;
-da altre intercettazioni (come, ad esempio, la n. 1036 del 7/3/2020, tra COGNOME NOME ed il fratello, COGNOME NOME), emergeva come COGNOME NOME, pur essendo amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE, ricevuto l’invito a presentarsi per essere interrogato, si era rivolto a Mongiardo per decidere il da farsi, e questi lo aveva rassicurato, dicendogli di riferirsi a lui e al COGNOME, in caso di bisogno, e di affidarsi al loro l (circostanza che parte ricorrente giustifica, in modo incomprensibile, con la mera conoscenza in essere fra i due, come meglio si dirà oltre);
-nella conversazione intercettata numero 663 del 13/2/2020, intercorsa tra il Mongiardo e la signora NOME, dipendente dello studio RAGIONE_SOCIALE, corrente a Cuggiono (MI), INDIRIZZO (sede legale di quasi tutte le società riferibili all’imputato, secondo i giudici di merito, oltre che del studio COGNOME, storico professionista di riferimento dell’imputato), era
chiaro il riferimento ad alcuni capannoni ubicati a Magenta, che erano stati utilizzati anche dalla RAGIONE_SOCIALE (dato su cui parte ricorrente non prende alcuna posizione);
-la RAGIONE_SOCIALE era subentrata alla RAGIONE_SOCIALE, avendo analogo oggetto sociale e operando presso la medesima sede (anche tale dato rimasto senza alcuna spiegazione alternativa, da parte ricorrente);
-le indagini della Guardia di Finanza “avevano consentito di accertare come il Mongiardo, per oltre 15 anni, avesse svolto attività nel settore della manutenzione e riparazione dei veicoli, utilizzando una serie di società via via costituite, intestate sempre a prestanomi, omettendo sistematicamente il pagamento delle imposte e ponendo in essere condotte fraudolente finalizzate a vanificare qualsiasi azione di recupero dei crediti da parte della Agenzia delle Entrate”, condotta che “aveva determinato lo svuotamento patrimoniale delle imprese a fronte dell’enorme entità di debiti fiscali accumulati e dello stato di dissesto delle società, che una volta decotte venivano lasciate al loro destino” (seconda e terza facciata della sentenza d’appello, con concetto ribadito alla tredicesima facciata della stessa sentenza).
A fronte di tali dati, che, in modo niente affatto illogico o altrimenti vizia hanno portato alla conferma dell’affermazione di responsabilità anche in relazione alle imputazioni inerenti alla RAGIONE_SOCIALE, parte ricorrente chied espressamente che si verifichi la “errata valutazione delle risultanze processuali”, senza neppure confrontarsi con alcuni di essi.
Ad esempio, come già accennato, la mera conoscenza in essere fra il Mongiardo e COGNOME NOME non spiega la richiesta di questi al primo di avere indicazioni su come comportarsi in sede di interrogatorio in relazione alla RAGIONE_SOCIALE; né spiega le ulteriori affermazioni, di cui alla stessa conversazio (riportate alle pagine 68-69 nella sentenza del Tribunale), tra cui quella secondo cui, a dire di COGNOME NOME, l’imputato ad un certo punto gli aveva detto di esser disponibile a “liberarlo” da quel ruolo (“se non ti va bene … andiamo dal notaio … mi intesto tutto io … COGNOME NOME“).
Insomma, non solo parte ricorrente insiste per un’inammissibile rivalutazione delle risultanze istruttorie, senza che esse siano smentite in modo, come detto, «inconfutabile» dagli argomenti difensivi di cui al ricorso, ma lo fa senza neppure confrontarsi adeguatamente con le motivazioni delle sentenze di merito, limitandosi, in definitiva, a proporre una diversa valutazione di parte del materiale probatorio: ciò che, evidentemente, non può essere, in questa sede di legittimità.
1.2. Il secondo motivo di ricorso è nel complesso inammissibile, in parte prospettando censure nuove, per la restante parte prospettando censure di natura eminentemente valutativa dei dati istruttori.
In generale, è noto che laddove si deduca con il ricorso per cassazione il mancato esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo dedotto con l’atto d’appello, di cui la sentenza d’appello non faccia menzione, occorre che nel ricorso di legittimità si contesti tale omissione da parte del giudice d’appello, quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Rv. 270627-01; Sez. 2, n. 9028 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 259066-01). Nella specie ciò non è avvenuto, rendendo il ricorso inammissibile per genericità, ai sensi dell’art. 581, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.
Per giunta, l’esame dell’atto d’appello ha consentito al Collegio di verificare che la doglianza non era stata effettivamente proposta.
La parte ricorrente solleva, invero, per la prima volta in questa sede contestazioni sulla sua ipotetica solvibilità, come persona fisica e ditta individuale e sulla circostanza che i beni aziendali trasferiti alla RAGIONE_SOCIALE non fossero di rilevante valore.
Al riguardo, tuttavia, nell’appello l’odierno ricorrente si era limitato a rilev come tale impresa individuale non fosse mai cessata e, dunque, fosse “fiscalmente aggredibile”, “tanto più che ancora nel 2018 (vedasi tabella a pagina 78 della sentenza appellata), RAGIONE_SOCIALE” aveva “dichiarato un volume di affari pari ad euro 73.500” (pagine 3-4 ricorso in appello).
Eppure, il Tribunale aveva affermato che il Mongiardo “veniva a risultare pressoché nullatenente (posto che, come si vedrà, oltre all’azienda, tutti i numerosi immobili nella sua esclusiva disponibilità risulteranno pure intestati a società schermo)” (pagina 81 della sentenza di primo grado).
Dunque, l’unica contestazione mossa, col gravame, a siffatta affermazione è il richiamo al modesto volume d’affari del 2018 in capo alla Turbo 50 (pari ad euro 73.500,00), che, evidentemente, non rappresenta, in sé, alcun bene aggredibile in sede esecutiva: tanto più che parte ricorrente non spiega come con tale “volume d’affari” si potesse far fronte a debiti fiscali di svariati milioni di euro, aven Tribunale accertato, sempre in modo incontestato, che il “debito tributario complessivo accumulato da COGNOME per mezzo della sistematica evasione ultradecennale ammontava ad C 8.529.669,88″ (pagina 64 sentenza di primo grado).
Nulla si è contestato, poi, sempre con l’atto d’appello, neppure in merito all’utilizzo delle società da lui create quali schermi proprio per consentir
impunemente la sistematica evasione delle imposte dovute e la continuazione, allo stesso tempo, dell’attività imprenditoriale.
Quanto, poi, all’assunta assenza di dolo, per avere – si dice da parte ricorrente – agito l’imputato indipendentemente dalle problematiche fiscali della Turbo 50, atteso che la prima cartella esattoriale era stata da questa ricevuta in data 23/2/2010, mentre la RAGIONE_SOCIALE era stata costituita solo il 6/7/2011, subentrando operativamente alla ditta individuale circa tre anni dopo la notifica di detta prima cartella, è evidente che si chieda di sovvertire le difformi, e del tutto logiche, valutazioni operate dal Tribunale e dall Corte d’appello, sulla base dei dati sopra menzionati, nel trattare il primo motivo di ricorso. Operazione che, come detto in relazione a tale motivo, non è consentita in sede di legittimità, oltre a essere logicamente smentita dalla stessa parte ricorrente, che, nel menzionare, nell’impugnazione in esame (a pagina 18), le giustificazioni a suo tempo date dell’imputato (“Va bene rientriamo le banche, le abbiamo rientrate tutte le banche, abbiamo pagato tutti debiti alle banche e poi sistemiamo anche il conto col Fisco”), non fa altro che confermare che lo scopo dell’operazione fosse proprio ed esattamente quello di continuare nell’attività d’impresa senza pagare il dovuto all’Erario (seppure – a teorico dire del medesimo imputato – solo momentaneamente).
Del resto, lo stesso ricorso, nel sostenere che l’imputato intendesse “garantire la prosecuzione dell’attività intestandola a soggetti non protestati come tali presentabili al sistema bancario e creditizio” (pagina 19 ricorso), altro non fa che confermare che il suo intento fosse proprio quello di proseguire l’attività aziendale senza il peso dei pregressi debiti: non avendo altro senso, altrimenti, parlare di soggetti “non protestati e come tali presentabili al sistema bancario e creditizio”.
La richiesta di sovvertire le logiche, complete e non contraddittorie conclusioni cui sono giunti i giudici di merito, per giunta corroborate dall affermazioni del medesimo imputato e del suo difensore, è, come detto, inammissibile.
1.3. Il terzo motivo, circa la richiesta di assorbimento del delitto tributario cui al capo A in quelli di cui ai capi D e G, di fallimento mediante operazioni dolose, in applicazione del principio di specialità, è infondato.
In linea generale, è opportuno riportare quanto recentemente statuito da questa Corte a sezioni unite:
«Secondo gli approdi da considerare ormai stabilizzati e reiteratamente espressi dalle Sezioni Unite, il criterio di specialità è da intendersi in sens logico formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché
risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizion prevalente, può ritenersi integrato “solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse” (Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 26966801; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano; Sez. 5, n. 2121 del 17/11/2023, COGNOME, Rv. 285843-01; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284504-01).
Anche la Corte costituzionale, in più occasioni, ha affermato la natura strutturale del principio di specialità ex art. 15 cod. pen., che implica l “convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una soia è effettivamente applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse”, dovendosi confrontare “le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente unico” (Corte cost., sent. n. 97 del 1987). I giudici delle leggi hanno poi aggiunto che “per aversi rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra” (Corte cost., ord. 174 del 1994).
La giurisprudenza di questa Corte ha altresì stabilito che l’art. 15 cod. pen. si riferisce alla sola “specialità unilaterale”, giacché le altre tipologie relazioni tra norme, quali la “specialità reciproca” o “bilaterale”, non evidenziano alcun rapporto di genus a speciem (tra le tante, Sez. 4, n. 21522 del 02/03/2021, COGNOME non mass, sul punto; Sez. 5, n. 27949 del 18/09/2020, COGNOME non mass, sul punto; Sez. 4, n. 29920 del 17/01/2019, COGNOME, Rv. 276583-01, tutte ricollegabili al dictum di Sez. U, n. 41588 del 22/06/ 2017, La Marca, non mass, sul punto). Ha, poi, sottolineato la eccentricità dei criteri di “sussidiarietà”, “assorbimento” e “consunzione”, suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti, e la loro estraneit all’unico criterio legale previsto, ovvero quello di specialità positivizzat dall’art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, cit., non. mass, sul punto; Sez. 1, n. 12340 del 15/11/ 2022, dep. 2023, COGNOME, cit.). Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, cit. hanno espresso in proposito il condivisibile principio secondo cui: “Nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri diversi da quelli stabiliti all’art. 15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle
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fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tr norme, effettuata dal legislatore”» (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 11/07/2024, Rv. 286581-02, in motivazione).
In definitiva, secondo il qui condiviso approdo giurisprudenziale, è necessario, perché possa parlarsi di assorbimento per applicazione del criterio di specialità, che tra le fattispecie raffrontate (e non tra i fatti sottoposti a giud vi siano elementi comuni e che solo una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra: di modo che, se la norma speciale non vi fosse, il fatto sarebbe comunque previsto e punito dalla norma generale.
In tal senso, come detto, non è possibile ritenere applicabile l’art. 15 cod. pen. allorché la materia non sia «la stessa» (come da essa espressamente previsto), e, dunque, anche nei casi di specialità reciproca: in cui nessuna delle disposizioni regola, per intero, la medesima fattispecie.
Orbene, è evidente che un siffatto rapporto di specialità non sussista tra il delitto di bancarotta fraudolenta impropria per aver cagionato il fallimento mediante operazioni dolose (art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942) e quello di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 d.lgs. 74/2000).
Infatti, per integrare quest’ultimo delitto basta il compimento di att fraudolenti idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, ove pure non si determini, per qualsivoglia ragione (ad esempio, per l’efficace azione di recupero dell’amministrazione tributaria, nonostante i detti atti fraudolenti), fallimento della società.
Inoltre, mentre la violazione tributaria può vedere quale soggetto attivo chiunque, il delitto indicato dal menzionato art. 223 r.d. 267/1942 può esser commesso solo da chi sia amministratore, direttore generale, sindaco, liquidatore di società dichiarate fallite.
Ed ancora, mentre la norma tributaria prevede il dolo specifico di agire «al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto», un siffatto dolo non è richiesto per integrare la fattispecie ex art. 223 menzionato.
Non v’è, insomma, un nucleo comune che copra entrambe le fattispecie, differenziandosi, poi, una di esse per uno degli elementi che si aggiunga agli altri (“specialità per aggiunta”: come, ad esempio, nella rapina rispetto al furto, dove la violenza o la minaccia si aggiungono all’impossessamento e alla sottrazione) o specifichi alcuni elementi più generali (cosiddetta “specialità per specificazione”: si pensi, ad esempio, all’abrogato oltraggio rispetto all’ingiuria, dove l’elemento “pubblico ufficiale” costituiva species del genus “persona”).
È evidente, infatti, che, nel caso in esame, non solo i beni giuridici tutelat
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siano differenti (il delitto di bancarotta fraudolenta impropria per aver cagionato i fallimento mediante operazioni dolose mirando a preservare gli interessi del ceto creditorio, laddove quello tributario tutela l’interesse alla riscossione delle dett imposte), ma, come detto, le strutture stesse dei due reati abbiano solo parte di elementi comuni, essendo, per il resto, in rapporto di “specialità reciproca”: posto che speciale è, infatti, tanto il dolo (specifico) della norma tributaria rispett quello (generico) della norma fallimentare, laddove questa è speciale per i possibili autori del reato (essendo la norma tributaria riferita a chiunque) e per la necessità che ricorra il fallimento (ciò che la norma tributaria non richiede).
Si giustifica, dunque, il costante orientamento di questa Corte, secondo cui «integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose previsto dall’art. 223, secondo comma, n. 2), legge fall., l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto e dei contributi previdenziali e assistenziali che abbia causato il dissesto della società, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario e con quello previdenziale in ragione della diversità sia dei beni tutelati sia della struttura dei reati» (Sez. 5, n. 30735 del 05/04/2019, Rv 276996-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, Sentenza n. 11096 del 9/1/2024 e Sez. 5, n. 7353 del 27/9/2023, dep. 2024, non massimate).
Del resto, in simili termini s’è già espressa questa Corte, allorché è stato posto l’analogo problema dell’applicazione del criterio di cui all’art. 15 cod. pen. con riferimento alla norma tributaria de qua e al delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva: «È configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tut contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemen psicologico tra i reati (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico)» (Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Rv. 270810-01; confronta, in termini analoghi, rimarcando anch’esse le reciproche diversità delle fattispecie: Sez. 3, n. 3539 del 20/11/2015, dep. 2016, Rv. 266133-01 e Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Rv. 253479-01, in motivazione).
È appena il caso di aggiungere come la sentenza d’appello, alla dodicesima facciata, abbia dato corretta risposta all’analoga eccezione formulata dall’odierno ricorrente, peraltro sulla base di argomenti in larga parte coincidenti con quelli sopra detti: sicché non sussiste neppure il lamentato difetto di motivazione.
1.4. Infondato è il quarto motivo di ricorso circa l’addotta maturata prescrizione del delitto tributario.
Con esso, nuovamente, si sollecita, in modo inammissibile, una diversa interpretazione dei fatti, così come logicamente e congruamente ricostruiti, sulla
base delle prove indicate, dalla Corte d’appello e, prima ancora, dal Tribunale.
Ed infatti, secondo quest’ultimo: “dagli elementi indicati è emerso come il Mongiardo fino al momento dell’esecuzione della misura avesse perseverato nello svolgere la sua attività di amministratore di fatto di società, preposte alla gestione delle sue carrozzerie. La totale commistione dei rapporti e il continuo storno delle risorse finanziarie hanno rappresentato il tratto distintivo della sua condotta e la frustrazione totale delle pretese erariali, come dimostrano gli ingenti debiti accumulati. È innegabile il carattere fraudolento del meccanismo, attuato con il sistematico ricorso a prestanomi e schemi societari unipersonali che dissimulavano un’impresa individuale a tutti gli effetti, con l’espediente della limitazione responsabilità. Pertanto, ad avviso di chi scrive il termine di prescrizione deve sicuramente collocarsi quanto meno fino al 2021, quando si collocano le ultime cartelle esattoriali e gli ultimi atti dispositivi per drenare il denaro dal fine so e dal pagamento dei debitori. Le condotte dell’imputato possono infatti considerarsi un unicum, atteso come gli atti fraudolenti possano ritenersi una serie di condotte dispositive animate dal medesimo fine, senza soluzione di continuità” (pagina 85 della sentenza di prime cure).
La Corte d’appello, aderendo – come già sopra evidenziato – a siffatta ricostruzione in fatto, ha ribadito, in diritto, come la consumazione del delitto cui si tratta si protragga nel caso in cui siano attuati ulteriori atti simul fraudolenti (dodicesima facciata): come accaduto nella specie.
Dunque, secondo i giudici del merito, sino all’esecuzione del sequestro, disposto in data 16/2/2021 (pagina 14 sentenza di primo grado), il reato era ancora in corso di esecuzione.
Tale conclusione è, poi, conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: «Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, per la sua natura di reato di pericolo eventualmente permanente, si perfeziona al realizzarsi della condotta finalizzata a eludere le pretese del fisco e la su consumazione si protrae nel caso in cui siano posti in essere ulteriori atti simulati o fraudolenti, sicché i termini di prescrizione decorrono dal compimento dell’ultimo atto idoneo a mettere a repentaglio le ragioni esecutive dell’erario» (Sez. 3, n. 8659 del 12/09/2023, dep. 2024, Rv. 285960-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 3, n. 28457 del 28/04/2021, Rv. 281594-01; Sez. 3, n. 37415 del 25/06/2012, Rv. 253359-01).
E ciò senza considerare che, come specificato nel capo d’imputazione, il trasferimento di fatto dell’azienda in tutte le sue componenti attive alle vari società via via create ad hoc, senza il pagamento di alcun corrispettivo e senza il subentro nella responsabilità per i debiti ai sensi dell’art. 2560 cod. civ., consentiv
all’imputato la sistematica omissione del pagamento dei debiti fiscali maturati non solo in capo alla ditta individuale, ma anche “in capo alle società stesse” man mano succedutesi, impedendo all’Agenzia delle Entrate di realizzare i propri crediti in via esecutiva: come, del resto, si desume chiaramente anche dalla specifica dei crediti fiscali maturati dall’Erario, nei riguardi di dette società, di cui allo specc riepilogativo indicato nel medesimo capo d’imputazione (pagine 2-3 sentenza di primo grado).
In definitiva, sulla base di un accertamento congruamente motivato, qui non altrimenti censurabile, i giudici del merito hanno fatto corretta applicazione dei suddetti principi di diritto.
1.5. Il quinto motivo di doglianza è inammissibile.
Sfugge al sindacato di legittimità, se sorretta da motivazione non manifestamente illogica, bensì aderente ai criteri legali, in primis quelli di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen.,, la valutazione sul bilanciamento tra attenuanti ed aggravanti (Sez. U, Sentenza n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245931-01; Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Rv. 270450-01; Sez. 4, n. 25532 del 23/5/2007, Rv. 236992) e, in generale, sulla determinazione della pena, specie se inferiore alla media edittale (Sez. 3, n, 29968 del 22/2/2019, Rv. 276288-01; Sez. 5, n. 5582 del 30/9/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
La Corte d’appello ha tenuto in debita considerazione, nel determinare il trattamento sanzionatorio, il comportamento dell’imputato, le dichiarazioni parzialmente confessorie, l’accordo raggiunto con uno dei fallimenti (quello della RAGIONE_SOCIALE, in forza del quale erano stati corrispost 23.000,00 euro, parte dell’imputato), riducendo sia la pena base (al minimo edittale), sia gli aumenti in continuazione.
Trattasi di motivazione logica e comunque priva di vizi motivazionali, per tale ragione incensurabile in questa sede.
Analogo ragionamento deve farsi per le pene accessorie, anch’esse oggetto di generiche censure, anche laddove ci si duole, in particolare per l’interdizione dai pubblici uffici, della maggior durata rispetto alla pena principale, tanto più ragione di quanto disposto dall’art. 29, comma i , cod. pen.: «la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque».
1.6. Le doglianze di cui alla sesta ed ultima serie di censure sono fondate nei termini di seguito precisati, in relazione alla sola confisca per equivalente.
Ed invero, deve dirsi che il Tribunale ha dato adeguata motivazione delle ragioni sottese alla confisca diretta.
Il Tribunale così motiva in merito (si vedano le pagine 86-88 della sentenza
di primo grado):
-il sequestro dei conti correnti riferibili all’imputato, in quanto da direttamente gestiti, come da intercettazioni in atti (alcune menzionate espressamente nella sentenza del Tribunale), era stato correttamente operato ai fini della confisca diretta ex art. 321 cod. pen., essendovi solida «prova della pertinenzialità tra i c/c e la condotta criminosa distrattiva»;
«si ricorda, a proposito di detta pertinenzialità, che le distrazioni effettuat utilizzando i conti correnti intestati alle società, tra cui “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” erano talmente frequenti, e a volte addirittura “dichiarate” nella causale dei bonifici, da essere state ripetutamente riversate nei capi di incolpazione, anche grazie all’analisi del c/c N. 1123 della RAGIONE_SOCIALE già acquisito. Ma anche in relazione ai conti correnti intestati alle altre società del cd. “RAGIONE_SOCIALE” si ritiene di aver raggiunto un impianto indiziario sufficiente a ritenerne la pertinenzialità rispetto ai due reati di bancarotta fraudolenta distrattiva, e dunque a ritenere che gli importi giacenti su detti conti costituissero il profitto de distrazioni»;
-v’era, dunque, una evidente commistione finanziaria tra le fallite e le altre società del gruppo;
-al riguardo, l’informativa riepilogativa analitica della Guardia di Finanza del 10/7/2020 fornisce «un quadro indiziarlo chiaro, in base al quale l’immobiliare» doveva «considerarsi la destinataria finale di tutte le risorse finanziarie delle società del “gruppo RAGIONE_SOCIALE“», anche considerati «i massicci acquisti immobiliari operati tramite detta società, senza che dal complesso delle indagini svolte» fosse «emersa la benché minima possibilità che l’immobiliare» producesse «ricavi sufficienti a tal fine»;
-in ogni caso, «anche con riferimento a detta società il tenore delle conversazioni intercettate» era «chiaro» ed induceva «a ritenere senza dubbio che la stessa per mezzo dei relativi conti correnti» fosse «destinataria di importi distratti dalle fallite»;
-il profitto delle due distrazioni contestate ammontava a euro 1.041.210,84 per la RAGIONE_SOCIALE (capo C punto 4) e a euro 388.308,32 per la RAGIONE_SOCIALE (capo F punto 2).
A fronte di siffatta articolata, congrua e logica motivazione, anzitutto, parte ricorrente non adduce che la Corte d’appello abbia omesso di riportare l’addotta censura che l’odierno ricorrente avrebbe mosso con l’appello. Ed è noto che laddove si deduca con il ricorso per cassazione il mancato esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo dedotto con l’atto d’appello, di cui la
sentenza d’appello non faccia menzione, occorre che nel ricorso di legittimità si contesti tale omissione da parte del giudice d’appello, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Rv. 270627-01; Sez. 2, n. 9028 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 259066-01).
Nella specie ciò non è avvenuto, rendendo il ricorso inammissibile per genericità, ai sensi dell’art. 581, comma 1, lettera C, cod. proc. pen.
Ad ogni modo, la censura sarebbe anche infondata, in ragione del noto principio secondo cui, nel caso di decisioni di merito conformi, queste si saldano tra loro in un unicum motivazionale da valutare nel suo complesso (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01).
Dunque, la motivazione del Tribunale si salda con quella della Corte d’appello (trattandosi di pronunce conformi) ed è da ritenersi, per quanto detto, assolutamente priva di vizi di sorta, concludendo, in modo logico, nel senso che i conti correnti di tutte le società del gruppo fossero utilizzati al fine di perpetra le condotte distrattive e, dunque, affermando il diretto nesso di derivazione causale tra i delitti di bancarotta e le somme sui detti conti: essendo, ovviamente, preclusa, in questa sede, ogni ulteriore valutazione di merito.
Quanto alla confisca per equivalente, non si condividono le osservazioni di parte ricorrente sulla norma da applicare al caso di specie.
L’art. 12-bis d.lgs. 74/2000 è stato introdotto dal d.lgs. 158/2015, ed è in vigore dal 22/10/2015: sicché è certamente applicabile ad un reato la cui consumazione è stata accertata essere avvenuta con l’esecuzione del sequestro in data 16/2/2021.
È, invece, fondata la doglianza con cui ci si duole della confisca per l’intero importo oggetto di evasione fiscale, precisamente “per l’intero importo del prezzo o profitto”, nonostante il delitto sia stato attribuito al Mongiardo in concorso con altri.
Come da informazione provvisoria n. 12, relativa all’udienza tenutasi il 26/9/2024, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato il principio secondo cui, in caso di concorso di persone nel reato, esclusa ogni forma dì solidarietà passiva, la confisca è disposta nei confronti del singolo concorrente limitatamente a quanto dal medesimo concretamente conseguito e solo in caso di mancata individuazione, nel contraddittorio delle parti, della quota di arricchimento del singolo concorrente, soccorre il criterio della ripartizione in parti ugua (orientamento in precedenza già espresso da questa Corte, ad esempio da Sez. 1, n. 4902 del 16/11/2016, dep. 2017, Rv. 269387-01).
La sentenza va, dunque, annullata per un nuovo giudizio sul punto, che tenga conto del principio appena detto,
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca per equivalente, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello
di Milano. rigetta nel resto il ricorso.
Così è deciso, 20/01/2025
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Il Consigliere estensore
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