Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 43087 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 43087 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a OSSONA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 02/05/2024 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria a firma del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha chiesto di rigettare il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata è stata pronunziata il 2 maggio 2024 dalla Corte di appello di Milano, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano, che aveva condanNOME COGNOME NOME per il reato di bancarotta, per avere cagioNOME, per effetto di operazioni dolose, il fallimento (dichiarato con sentenza del 3 luglio 2014) della società “RAGIONE_SOCIALE“.
Secondo l’ipotesi accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, l’imputato, in qualità di amministratore unico, avrebbe omesso di pagare le imposte e di versare i contributi per il personale dipendente, dal 1996 al 2013, continuando l’attività e aggravando il dissesto della società, accumulando sanzioni e interessi che appesantivano ulteriormente il passivo, fino a raggiungere un debito erariale e previdenziale complessivamente pari a circa euro 565.000,00.
Contro la sentenza della Corte di appello, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia.
2.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 223 legge fall. e 192 e 530 cod. proc. pen.
Contesta la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, che sarebbe costituito dalla volontà di ledere gli interessi della società e dei creditori socia nonché dalla consapevolezza del fallimento quale conseguenza della condotta materiale.
Il ricorrente sostiene che, nel caso in esame, la mancanza dell’elemento soggettivo emergerebbe dalle dichiarazioni rese dal teste COGNOME, dalle quali sarebbe desumibile che l’incremento del debito erariale sarebbe stato conseguenza della fusione tra la Banca Popolare di Verona e la Banca Popolare di Lodi, intervenuta tra il 2006 e il 2007, che avrebbe determiNOME una mancata elargizione di liquidità a favore della società, che si sarebbe trovata priva delle risorse necessarie per far fronte ai debiti maturati verso l’erario.
La decisione della Corte di appello in ordine all’elemento soggettivo sarebbe stata condizionata anche dall’erronea convinzione che lo stesso imputato avrebbe «ammesso di aver posto in essere la condotta contestata con la precipua finalità di mantenere in attività la società, costituendo un meccanismo di autofinanziamento della stessa». L’imputato, invero, non avrebbe mai dichiarato di autofinanziarsi attraverso il mancato versamento delle imposte.
2.2. Con un secondo motivo, deduce il vizio di motivazione, in relazione agli artt. 192 e 530 cod. proc. pen.
Rappresenta che: dall’istruttoria, era emerso che la società aveva «interloquito con “I’Esatri”», ai fini di una definizione della posizione debitoria; tal tentativo era stato effettuato in epoca anteriore al fallimento, intervenuto nell’anno 2014.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte di appello, nel ritenere tale tentativo irrilevante ai fini della configurazione del reato, sarebbe caduta in errore, atteso che esso era intervenuto in epoca anteriore al fallimento.
2.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 216 legge fall. e 192 e 530 cod. proc. pen.
Sostiene che l’imputato avrebbe scelto di continuare a pagare operai e fornitori, tentando di trovare al contempo un accordo transattivo con l’ente creditore.
Sarebbe, pertanto, configurabile il reato di bancarotta preferenziale, avendo l’imputato scelto, tra i creditori della società, di pagare gli operai e fornito Censura, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui non ha accolto la richiesta della difesa di riqualificare il reato in bancarott preferenziale. La Corte di appello sarebbe caduta in errore nel non valutare che: l’imputato ha aperto personalmente un conto corrente «per svolgere l’attività societaria», «per soddisfare i fornitori e gli operai»; «tale conto è stato aperto per far sì che l’impresa potesse andare avanti».
Il AVV_NOTAIO generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di rigettare il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato.
1.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
I giudici di merito, invero, hanno ritenuto dimostrato l’elemento soggettivo del reato, ponendo in rilievo che la coscienza e la volontà delle operazioni erano facilmente desumibili da due circostanze: l’imputato era stato amministratore unico della società, dalla sua costituzione (intervenuta nel 1991) fino al fallimento; l’omesso pagamento di imposte e contributi si era protratto per un lunghissimo periodo di tempo, addirittura dal 1996 al 2013. Hanno ritenuto prevedibile il dissesto della società, atteso che l’imputato non avrebbe potuto tenere, per molti anni consecutivi, un comportamento così rilevante per le sorti della società, che implicava un ingente accumulo di debiti, senza rendersi conto delle conseguenze che tale condotta avrebbe portato «in relazione alla tenuta della società».
La decisione appare in linea con giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, ai fini della configurabilità della bancarotta da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (cfr. Sez.
5, n. 16111 del 08/02/2024, Leoni, Rv. 286349; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, NOME, Rv. 265510).
Così correttamente individuato l’elemento soggettivo del reato, risultano poco conferenti anche le argomentazioni spese dal ricorrente a sostegno della propria tesi.
La circostanza che il mancato adempimento degli oneri tributari e contributivi dipendesse dalla scarsa liquidità, conseguente alle vicende relative ad alcuni istituti di credito, assume infatti davvero scarso rilievo. A prescindere dalla causa che aveva determiNOME la scarsa liquidità della società, rimane comunque il fatto che l’imputato aveva protratto l’attività della società per svariati anni, mantenendo inadempiuti i debiti tributari e contributivi, nella piena consapevolezza dell’aggravamento dell’esposizione debitoria. Va poi evidenziato che le vicende che avevano riguardato gli istituti bancari risalivano al periodo 2006-2007, mentre il mancato pagamento delle imposte e il mancato versamento dei contributi erano durati fino al 2013.
Scarso rilievo assumono anche le dichiarazioni dell’imputato, atteso che quel che rileva è la consapevolezza e la volontà delle operazioni, unita alla prevedibilità del dissesto. La circostanza che l’imputato non avesse dichiarato che le operazioni contestate costituissero una forma di autofinanziamento della società non esclude che egli fosse pienamente consapevole del prolungato mancato pagamento di imposte e di contributi né che, in conseguenza di tali inadempimenti, risultasse prevedibile il dissesto della società.
1.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Esso, invero, è versato in fatto, atteso che il ricorrente, in sostanza, deduce una circostanza – l’interlocuzione con “RAGIONE_SOCIALEEsatri”, al fine di tentare una definizione della posizione debitoria -, alla luce della quale rivalutare la ricostruzione dei fatt operata dai giudici di merito, i quali, peraltro, hanno valutato la circostanza in questione, ritenendola ininfluente rispetto all’integrazione del reato, atteso che quell’interlocuzione non aveva portato ad alcun esito positivo per la società. Al riguardo, deve essere ribadito che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di un diverso, e per i ricorrente più adeguato, apprezzamento delle risultanze processuali (Sez. U, 30/4/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944).
Il motivo, peraltro, si presenta pure generico, atteso che il ricorrente non ha rappresentato in che termini tale circostanza potesse influire in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato. In realtà, non ha neppure dedotto,
né tantomeno dimostrato, che si trattasse di un tentativo serio che avesse qualche effettiva possibilità di arrivare a definizione.
1.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Va premesso che l’elemento soggettivo della bancarotta preferenziale è costituito dal «dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l’accettazione dell’eventualità di un danno per gli altri, secondo lo schema del dolo eventuale» (cfr. Sez. 5, n. 54465 del 05/06/2018, M., Rv. 274188; Sez. 5, Sentenza n. 16983 del 05/03/2014, COGNOME, Rv. 262904).
Nel caso in esame, i giudici di merito hanno ritenuto che la volontà dell’imputato non fosse quella di favorire uno o più creditori rispetto a tutti gli alt ma di continuare l’attività imprenditoriale, mediante il mancato pagamento di imposte e contributi. Ricostruzione che trovava oggettivo riscontro, da un lato, nel fatto che l’imputato non aveva pagato uno o più determinati creditori, ma gli operai e i fornitori, e, dall’altro, nel fatto che l’omesso pagamento di imposte e contributi si era protratto per svariati anni.
A fronte di tale ricostruzione, l’unico elemento addotto dal ricorrente a sostegno della tesi della bancarotta preferenziale è costituito dalla circostanza che l’imputato aveva aperto personalmente un conto corrente «per svolgere l’attività societaria», «per soddisfare i fornitori e gli operai», «per far sì che l’impresa potesse andare avanti».
Ebbene, si tratta di un elemento che, in realtà, corrobora la ricostruzione dei giudici di merito, secondo i quali la volontà dell’imputato era proprio quella di continuare l’attività imprenditoriale. Ricostruzione che risulta confermata anche dalla circostanza dedotta dal ricorrente, secondo il quale l’imputato aveva aperto un conto corrente per soddisfare fornitori e operai, «per far sì che l’impresa potesse andare avanti».
Al rigetto del ricorso per cassazione, consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 30 settembre 2024.