Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 11583 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 11583 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 07/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME nato a Figline e Incisa Valdarno il 19/06/1969, avverso la sentenza del 28/03/2024 della Corte di appello di Firenze visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Firenze ha parzialmente riformato la sentenza del 18 gennaio 2022 del Tribunale di Arezzo che, per quanto di interesse in questa sede, aveva affermato la penale responsabilità di NOME COGNOME quale amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita il 15 settembre 2016, per i reati di bancarotta fraudolenta documentale (capo B) e patrimoniale (quest’ultimo limitatamente ai fatti descritti ai numeri 1 e 4 del più ampio capo C), nonché per due reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 commessi con le dichiarazioni dei redditi relative agli anni 2012 e 2013 (capo H) e, ritenuta la continuazione tra i reati, l’aveva
condannato alla pena di giustizia.
In particolare, la Corte di appello, per quanto di rilievo in questa sede, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 200 relativo all’anno di imposta 2012, riducendo nei suoi confronti la pena principale e la durata delle pene accessorie fallimentari.
All’esito del giudizio di appello NOME COGNOME risulta condannato per avere, nella suddetta qualità, al fine di procurarsi un ingiusto profitto ed arrecare pregiudizio ai creditori della società fallita, tenuto le scritture in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, in particolare annotando nelle scritture contabili e fiscali acquisti di merci dalla RAGIONE_SOCIALE e cessioni di merci alla RAGIONE_SOCIALE in realtà ma intervenuti ed utilizzando a tal fine fatture per operazioni inesistenti, nonché per avere erogato a NOME COGNOME somme di denaro per complessivi euro 510.000,00 per consulenze inesistenti e per avere pagato canoni di locazione relativi ad immobili utilizzati dal Mureddu e da NOME COGNOME per scopi estranei alla società fallita; infine, è stato condannato per avere, nella dichiarazione relativa all’anno di imposta 2013, indicato elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla Vertigo per complessivi euro 19.025.476,50, per un’IVA pari ad euro 4.045.417,20.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed articolando cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. pen., la nullità della sentenza impugnata, quanto alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, per difetto di correlazione tra accusa e sentenza, con violazione degli artt. 521, 522 e 604 cod. proc. pen.
Sostiene che – poiché il reato previsto dalla prima ipotesi di cui all’art. 216, primo comma, n. 2, r.d. n. 267 del 1942 richiede il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori o di far conseguire un profitto all’autore del reato, e per l seconda ipotesi è sufficiente il dolo generico, e le due ipotesi sono tra loro autonome ed alternative, mentre le due sentenze di merito risultano confondere le due ipotesi sovrapponendole – la condanna risulta essere stata pronunciata per un fatto diverso da quello contestato, con grave violazione del diritto di difesa e del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza.
Nel caso di specie, al Mureddu si contesta di avere tenuto le scritture contabili in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, essendo state annotate operazioni economiche non sussistenti, mentre la condanna si riferisce alla prima delle ipotesi contemplate dalla norma incriminatrice, per la quale è richiesto il dolo specifico, ma
nell’imputazione non si specifica quale sarebbe la finalità avuta di mira dall’imputato. Solo in motivazione la Corte territoriale ha affermato che il dolo specifico andrebbe ravvisato nella attuazione della c.d. frode carosello, il cui accertamento, davanti ad altra autórità giudiziaria, non è però ancora divenuto irrevocabile.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole, quanto alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, della contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del rigetto della eccezione di nullità per difetto di correlazione tra accusa e sentenza.
La Corte di merito, segnala il ricorrente, ha riconosciuto che nella imputazione si fa confusione tra la prima e la seconda ipotesi di bancarotta fraudolenta, delle quali sono richiamati in modo promiscuo gli elementi costitutivi, ma del tutto contraddittoriamente o illegittimamente non ha tratto da tale confusione le debite conseguenze giuridiche, giungendo ad affermare che non risulta violato il diritto di difesa dell’imputato perché questi ha comunque potuto comprendere l’accusa che gli era stata mossa.
2.3. Con il terzo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale, la violazione degli artt. 110 cod. pen e 216, primo comma n. 2, e 223 r.d. n, 267 del 1942 e la mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova della penale responsabilità, nonché la carenza, insufficienza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Si sostiene che l’imputato non era amministratore di fatto della società fallita e che risulta errata la valutazione delle prove volte a suffragare tale qualifica, segnalando che la Corte di appello ha desunto tale qualità in capo al Mureddu da indici – quali la sua costante presenza nella società, le sue relazioni con i fornitori e il principale cliente, la tenuta dei rapporti bancari e l’assunzione unitamente all’amministratore di diritto, dei dipendenti – che in realtà avrebbero un valore neutro, essendo compatibili con la tesi difensiva.
L’ottenimento di benefits trovava giustificazione nella sua qualità di procacciatore d’affari e le dichiarazioni della COGNOME attestano la sua qualità di consulente della fallita, al pari della sua presenza in azienda, atteso che anche altri consulenti, COGNOME e COGNOME, disponevano di un ufficio all’interno dei locali della società; le autovetture condotte in leasing dalla fallita erano in uso anche al consulente COGNOME; anche quest’ultimo ed il COGNOME, al pari del Mureddu, erano consulenti della società, pur non essendo i loro rapporti stati formalizzato in alcun contratto.
Anche la tenuta dei rapporti bancari societari da parte del Mureddu andava ridimensionata, alla luce delle deposizioni dei testi NOME COGNOME ed NOME
COGNOME mentre le dichiarazioni della teste COGNOME erano state mal interpretate, in senso opposto al loro reale significato. Tutte le prove valutate a carico’ del Mureddu avrebbero, in realtà, un valore neutro, mentre non si è considerato che l’imputato non ha partecipato ai profitti della società, limitandosi a beneficiare, al pari degli altri consulenti, di benefits modesti, se rapportati con il volume di affari e gli utili societari.
2.4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riguardo alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, la violazione degli artt. 110 cod. pen. e 216, primo comma n. 1, e 223 r.d. n. 267 del 1942 e la mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova della penale responsabilità, nonché la carenza, insufficienza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Sostiene che la prova degli elementi oggettivo e soggettivo del reato sarebbe contraddittoria e che la motivazione sarebbe illogica.
Il ricorrente richiama le considerazioni già svolte con il terzo motivo in ordine alla qualità di amministratore di fatto ed aggiunge, quanto all’elemento oggettivo del reato contestato al n. 1 del capo C), che l’attribuzione a NOME COGNOME di somme di denaro appartenenti alla società fallita non integra una distrazione, in quanto le relative dazioni trovano causa nel c.d. progetto «RAGIONE_SOCIALE». La Corte territoriale ha dato atto della esistenza del progetto, volto a portare acqua ai Paesi in via di sviluppo, ma illogicamente ha affermato che non vi sarebbe alcun elemento idoneo a giustificare tale ingente erogazione. Sostiene anche che questa non era idonea, per la sua entità, ad intaccare sensibilmente la garanzia patrimoniale dei creditori; essa era avvenuta nel 2014, quando la società versava in condizioni economiche floride e si accingeva ad avviare il progetto «RAGIONE_SOCIALE», di cui aveva parlato la testimone NOMECOGNOMEla. Né la natura distrattiva poteva ricavarsi, come ritenuto dalla Corte di appello, dalla entità della somma erogata e dal breve lasso di tempo in cui le erogazioni erano avvenute; neppure vi era prova che le erogazioni fossero state ordinate dal Mureddu.
Non vi è prova dell’elemento soggettivo del reato contestato al n. 1 del capo C), considerato anche che le condizioni economiche della società erano floride e le dpzioni non erano in grado di far diminuire la garanzia patrimoniale.
La motivazione è quindi illogica, poiché, se si afferma che il Mureddu era a conoscenza della gestione societaria, deve anche ammettersi che egli non sapesse che tale condotta potesse pregiudicare detta garanzia, atteso che il fallimento è intervenuto solo nel 2016, mentre le operazioni oggetto di contestazioni risalgono agli anni 2013 e 2014.
Quanto alla distrazione contestata al n. 4 del capo C), il ricorrente sostiene
che trattasi di benefits a lui erogati quale consulente della società fallita e non quale amministratore, richiamando gli argomenti già esposti con il terzo motivo.
La Corte di appello avrebbe illogicamente ritenuto compatibili con la qualità di benefits erogati ai vari consulenti l’utilizzo di autovetture e telefoni cellulari messi a disposizione dalla società fallita ed al contempo ritenuto incompatibile il pagamento del canone di locazione dell’immobile abitato dall’imputato, omettendo di motivare sul punto.
Inoltre, la Corte di merito riconosce che la giurisprudenza ammette il diritto dell’imputato al compenso per l’attività prestata, ma poi lo esclude sostenendo che la società è stata gestita per scopi illeciti di cui l’imputato era a conoscenza; in realtà, obietta il ricorrente, non vi è alcun provento o profitto illecito a riconducibile direttamente; unico vantaggio percepito è quello relativo ai predetti benefits, che, in quanto tali, non integrano distrazioni.
2.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, quanto al reato di cui al capo H) relativo all’anno di imposta 2013, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 110 cod. pen. e 2 d.lgs. n. 74 del 2000 e la mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova della penale responsabilità, nonché la carenza, insufficienza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Oltre a richiamare gli argomenti di cui al terzo motivo di ricorso, il ricorrente richiama la deposizione resa dal teste COGNOME all’udienza del 31 maggio 2022 per affermare che,’ poiché la frode carosello poggiava su false dichiarazioni di intento, il reato poteva essere contestato esclusivamente a chi tali false dichiarazioni aveva reso e non al Mureddu che aveva agito nella convinzione della correttezza delle attestazioni. In realtà proprio la qualifica di abituale esportatore in capo alla Vertigo RAGIONE_SOCIALE aveva indotto il COGNOME a proporre l’operazione dei polimeri. La circostanza che il COGNOME fosse a conoscenza che la RAGIONE_SOCIALE non era un abituale esportatrice era sfornita di prova e non poteva desumersi, come sostenuto dalla Corte territoriale, dalla circostanza che il COGNOME si relazionava costantemente con detta società e sapeva che era completamente priva di mezzi e di personale per l’esercizio del commercio e non era in condizione di esportare alcunché.
In realtà, la vendita dei polimeri da parte di RAGIONE_SOCIALE era realmente avvenuta, anche se poi la merce era stata sequestrata dall’Agenzia delle dogane, ed il COGNOME era in buona fede, come emergeva dalla deposizione resa dal teste COGNOME all’udienza del 14 giugno 2021, secondo il quale il COGNOME era un mero intermediario. Né il COGNOME aveva i mezzi per poter conoscere la realtà, come dichiarato dallo stesso testimone, e non poteva ipotizzarsi un suo obbligo di vigilare sull’operato della RAGIONE_SOCIALE
In ogni caso non poteva sostenersi che le vendite non fossero avvenute e che le fatture fossero state emesse per operazioni inesistenti. Né poteva affermarsi che la RAGIONE_SOCIALE fosse una società cartiera, essendo emersa dall’istruttoria la presenza di dipendenti e di macchinari.
Viene altresì dedotto che il reato risulta estinto per prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Come osservato dal ricorrente, l’art. 216 comma 1 n. 2) r.d. n. 267 del 1942 contempla due autonome fattispecie incriminatrici, che si differenziano, oltre che per la natura delle condotte incriminate, anche per la diversa struttura dell’elemento soggettivo.
Occorre, allora, in primo luogo correttamente qualificare il fatto oggetto come accertato dai Giudici del merito.
A tale proposito occorre rammentare che questa Corte di cassazione ha già affermato, in tema di bancarotta documentale, che la condotta di falsificazione delle scritture contàbili prevista dalla prima parte dell’art. 216, primo comma n. 2, r.d. n. 267 del 1942 può avere natura tanto materiale che ideologica, consistendo comunque nella manipolazione di una realtà contabile già definitivamente formata; diversamente, la bancarotta documentale «generica» prevista dalla seconda parte della norma si realizza sempre con una falsità ideologica contestuale alla tenuta della contabilità, e cioè mediante l’annotazione originaria di dati oggettivamente falsi o l’omessa annotazione di dati veri, realizzata con le ulteriori connotazioni modali descritte dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 5081 del 13/01/2020, COGNOME, Rv. 278321, che ha qualificato come bancarotta documentale «generica» una condotta consistita nell’annotazione in contabilità di importi inferiori rispetto a quelli fatturati incassati, con conseguente occultamento dell’effettivo volume di affari).
Se si sussumesse la annotazione originaria di dati falsi o l’omessa annotazione di dati veri nella bancarotta fraudolenta specifica non vi sarebbe più spazio per la bancarotta fraudolenta generica, atteso che l’amministratore ha il dovere giuridico di annotare in modo completo e rispondente al vero nelle scritture ogni fatto contabilmente rilevante e laddove le annotazioni siano state originariamente effettuate in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari vi sarebbe sempre e comunque una falsità ideologica con conseguente necessità del dolo specifico.
Applicando, invece, il principio affermato dalla sentenza sopra citata, poiché secondo la riCostruzione fattuale operata dai Giudici del merito la falsificazione è
avvenuta non alterando annotazioni già effettuate nelle scritture contabili, ma annotando direttamente sulle scritture fatti oggettivamente ‘falsi, deve concludersi che la condotta rientra nella seconda ipotesi prevista dall’art. 216, primo comma n. 2, r.d. n. 267 del 1942, che richiede il dolo generico.
La condotta di bancarotta fraudolenta documentale generica risulta contestata in tutti i suoi elementi, in quanto nel capo di imputazione si afferma che le scritture sono state falsificate in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, cosicché non può sostenersi che sia stato violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza.
La contestazione del dolo specifico è superflua e sovrabbondante, ma in quanto tale essa non è idonea a rendere la sentenza viziata per difetto di correlazione tra accusa e sentenza, atteso che nel capo di imputazione vengono descritti tutti gli elementi della bancarotta fraudolenta documentale generica.
Poiché, come si è già detto, le ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216, primo comma, n. 2, prima e seconda ipotesi, r.d. n. 267 del 1942 sono alternative, ciascuna idonea ad integrare il delitto in questione, accertata la responsabilità in ordine alla tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita – che richiede il solo dolo generico – diviene superfluo accertare il dolo specifico richiesto per la condotta di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, anch’essa contestata (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, COGNOME, Rv. 271753).
Occorre anche aggiungere che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051) e, per come affermato anche dalla Corte di appello, l’imputato è stato posto in grado di esercitare pienamente il suo diritto di difesa.
A diverse conclusioni non sarebbe possibile pervenire neppure qualora si ritenesse inapplicabile il principio di diritto sopra esposto e si affermasse che la condotta debba essere sussunta nella bancarotta fraudolenta documentale
specifica.
Il ricorrente sostiene che non sarebbe stato contestato il dolo specifico, perché non sarebbe stata esplicitata nel capo di imputazione la finalità perseguita attraverso la falsificazione delle scritture contabili.
In contrario, deve osservarsi che nella complessiva imputazione contestata all’imputato si afferma che la annotazione in contabilità delle fatture emesse per operazioni inesistenti era diretta ad attuare una c.d. frode carosello e quindi a far conseguire a sé o a terzi un ingiusto profitto costituito dall’imposta evasa; risulta quindi esplicitata nel capo di imputazione la finalità delle false annotazioni in contabilità. Non potrebbe comunque ritenersi non rispettato il principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Deve aggiungersi che proprio il collegamento della condotta alla finalità di evasione delle imposte conduce a ritenere sussistenti quegli indici di fraudolenza che, come affermato più volte da questa Corte di cassazione, determinano la sussunzione della condotta nel reato di bancarotta fraudolenta documentale generica anziché in quello di bancarotta semplice documentale, che può avere natura colposa o dolosa.
Dalla manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso discende la inammissibilità del secondo motivo.
Deve, infatti, osservarsi, in tema di ricorso per cassazione, che qualora sia sottoposta al vaglio del giudice di legittimità la correttezza di una decisione in rito, la Corte di cassazione è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla; ne consegue che la Corte, in presenza di una censura di carattere processuale, può e deve prescindere dalla motivazione addotta dal giudice a quo e, anche accedendo agli atti, deve valutare la correttezza in diritto della decisione adottata, quand’anche non correttamente giustificata o giustificata solo a posteriori (Sez. 5, n. 19970 del 15/03/2019, COGNOME, Rv. 275636).
3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono inammissibili.
Le censure del ricorrente attengono esclusivamente al merito, in quanto dirette a sovrapporre all’interpretazione delle risultanze probatorie operata dal giudice una diversa valutazione dello stesso materiale probatorio per arrivare ad una decisione diversa, e come tali si pongono all’esterno dei limiti del sindacato di legittimità. La decisione del giudice di merito non può essere invalidata da ricostruzioni alternative che si risolvano in una «mirata rilettura» degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a
quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
Questa Corte di cassazione ha affermato, in tema di motivi di ricorso per cassazione, che non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747).
Le doglianze del ricorrente, invero, si risolvono nel dissenso sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per una presunta violazione di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 2000, Moro, Rv. 215745).
Anche il quinto motivo risulta inammissibile in quanto diretto a sollevare censure di merito.
Il ricorrente afferma che il fatto non è dimostrato poiché le operazioni giudicate come inesistenti sarebbero invece esistenti e comunque sarebbe indimostrata la conoscenza da parte dell’imputato della falsità delle dichiarazioni di intento della fornitrice della fallita e giunge a tali conclusioni invocando una rivalutazione del materiale istruttorio che non è consentita a questa Corte di legittimità.
L’eccezione di prescrizione è manifestamente infondata.
Difatti, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 74 del 2000 i termini di presc previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo d.lgs. sono aumentati di un terzo
Ne consegue che il termine minimo di prescrizione è pari ad anni 9 ed il termine massimo è pari ad anni undici e mesi tre.
Il reato è stato contestato come commesso nel mese di settembre 2014 e quindi non è ancora prescritto.
In ogni caso, l’inammissibilità del quinto motivo di ricorso – che è l’uni motivo diretto ad attaccare la pronuncia di condanna per il reato contestato capo H non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle m del procedimento di legittimità (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, COGNOME, Rv 256463).
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente pagamento delle spese del procedimento e, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod proc. pen., al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che si reputa equo fissare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dell spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa dell ammende.
Così deciso il 07/02/2025.