Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13858 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA Relatore: COGNOME
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13858 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/03/2025
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
Presidente –
Sent. n. sez. 341/2025
Relatore –
R.G.N. 42161/2024
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOMECOGNOME nato a VENEZIA il 22/05/1942 COGNOME NOMECOGNOME nato a NAPOLI il 11/01/1940
avverso la sentenza del 08/07/2024 della Corte d’appello di Napoli Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, COGNOME che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
uditi i difensori:
l’avvocato NOME COGNOME difensore di fiducia dell’imputato COGNOME NOME, si riporta ai motivi di ricorso, illustrandoli ulteriormente, e ne chiede l’accoglimento; quale sostituto processuale dell’avvocato NOME COGNOME difensore di fiducia dell’imputato COGNOME NOME, chiede l’annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata;
l’avvocato NOME COGNOME difensore di fiducia dell’imputato COGNOME NOMECOGNOME si riporta ai motivi di ricorso, illustrandoli ulteriormente, e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 8.7.2024, la Corte di Appello di Napoli, all’esito di trattazione orale del procedimento, ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Napoli il 5.10.2022, nei confronti di COGNOME NOME e COGNOME NOME che aveva dichiarato il COGNOME colpevole del reato di cui al capo 1 dell’imputazione, e il COGNOME colpevole dei reati di cui ai capi 1-2-3-5-9, condannando quest’ultimo alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione, nonché alle pene accessorie fallimentari nella misura di dieci anni, ed il primo alla pena condizionalmente sospesa di anni 2 di reclusione, escluse le aggravanti contestate e concesse le attenuanti generiche, con il beneficio della non menzione nel certificato del casellario spedito su richiesta dei privati, nonché alle pene accessorie fallimentari nella misura di cinque anni.
1.1. I capi 1), 2), 3), 5) e 9) dell’imputazione, per i quali è intervenuta condanna, riguardano rispettivamente:
i capi 1 e 2, relativi alla società RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita in data 15.9.2016:
il reato di bancarotta documentale (capo 1: artt. 110, 81 cpv c.p., 216 c.1 e c. 2 n. 1. R.D.267/1942) in quanto il COGNOME, in qualità di componente del consiglio di amministrazione della RAGIONE_SOCIALEdichiarata fallita in data 15.9.2016) dal 5.8.1994 al 29.9.1995, e amministratore della medesima società dal 16.3.2003 al 11.2.2005, consulente e tenutario delle scritture contabile nonché coamministratore di fatto della fallita RAGIONE_SOCIALE anche nel periodo intercorrente dal 29.5.1995ed il 16.3.2003, durante il quale era formalmente amministratore il solo NOME NOMECOGNOME nonché liquidatore di fatto della RAGIONE_SOCIALE dal 11.2.2005 fino alla dichiarazione di fallimento, nonché quale soggetto che curava le controversie del liquidatore formale COGNOME NOME con la curatela fallimentare, e, infine, amministratore dal 27.9.1995 al 11.10.2010 della RAGIONE_SOCIALE (socio unico della fallita RAGIONE_SOCIALE dal 4.2.2005) e poi dal 11.10.2010 liquidatore della medesima società, sindaco effettivo della In.ParInvestimenti partecipante al 50% della RAGIONE_SOCIALE e quindi della fallita RAGIONE_SOCIALE in via indiretta, in concorso con NOME NOME (poi deceduto) NOME NOME e NOME (amministratori di fatto della fallita RAGIONE_SOCIALE a partire dall’agosto 2004 ed anche successivamente alla messa in liquidazione in capo al COGNOME in data 11.2.2005, e con COGNOME NOME (liquidatore formale della società) “con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, distruggevano e/o sottraevano il libro degli
inventari ed il libro dei beni ammortizzabili, e tenevano il libro giornale e il libro mastro (documentazione trasmessa alla curatela in relazione agli anni 20132016 insieme ai bilanci per gli stessi anni in data 16 Aprile 2018) in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o della movimentazione degli affari”;
il reato di bancarotta dissipativa (capo 2: artt. 110 c.p. e 216 c. 1 n. l, 219 c. 1 e c.2 n. 1 R.D.267/1942) in quanto, COGNOME, nelle qualità citate nel precedente capo di imputazione, ed in concorso con COGNOME ed i COGNOME (anche COGNOME NOME poi deceduto), “non riscuotendo i crediti relativi ai canoni di locazione per un totale di euro 137.950 dalla società RAGIONE_SOCIALE (crediti ammessi al passivo del fallimento RAGIONE_SOCIALE), che, in virtù del contratto del 23.3.2009, aveva preso in affitto dalla fallita RAGIONE_SOCIALE il laboratorio organizzato di pasticceria, gelateria e rosticceria sito in Napoli INDIRIZZO/54/56 per euro 18.600 annui, dissipavano dal patrimonio societario la suddetta somma di denaro pari ad euro 137.950′;
i capi 3 e 5, relativi alla società RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita in data 20.10.2017:
il reato di bancarotta fraudolenta documentale (capo 3: artt. 110 c.p., 81 cpv. c.p., e 216 c. 1 n. 2, 219 c. 1 e c.2 n. 1 R.D.267/1942), perché, in concorso tra loro e con NOME NOME poi deceduto, COGNOME NOME quale amministratore della RAGIONE_SOCIALE e come consulente contabile e tenutario delle scritture contabili della fallita RAGIONE_SOCIALE, i COGNOME quali amministratori di diritto, comproprietari, o comunque amministratori di fatto – anche – della RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, quale amministratore della Sogeri dal 24.9.2012 sino alla dichiarazione di fallimento della stessa, intervenuta in data 20.10.2017, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, distruggevano e/o sottraevano i libri e le scritture contabili, in particolare sia gli originali custoditi presso lo studio COGNOME sia le copie tenute presso l’ufficio contabilità della fallita, nonché la documentazione extracontabile nella quale venivano annotate le reali movimentazioni finanziarie, falsificavano altresì il contenuto dei libri e delle scritture contabili mediante l’annotazione di rapporti economici relativi ad operazioni inesistenti in particolare per celare le uscite relative a dazioni di denaro a nero in favore di NOME NOME, NOME, NOME NOME e COGNOME NOME (madre dei NOME);
il reato di bancarotta impropria (capo 5: artt. 110 c.p., 223 c. 2 n. 2, 219 c. 1 e c.2 n. 1 R.D.267/1942) perché in concorso tra loro, e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nelle qualità citate al capo sub 3, in relazione alla fallita RAGIONE_SOCIALE omettendo sistematicamente il pagamento dei canoni di affitto
d’azienda (in virtù del contratto del 25/01/2008) alla RAGIONE_SOCIALE – azienda costituita da bar gelateria pasticceria e tavola calda, contraddistinta dalla ditta RAGIONE_SOCIALE – per euro 154.980 annui, dando luogo ad un debito complessivo pari ad euro 681.980, cagionavano con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della predetta società;
il capo 9), relativo alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE – le uniche due società rispetto alle quali si è ritenuta raggiunta la prova degli ammanchi e si è quindi affermata la responsabilità penale del COGNOME :
il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva (capo 9: artt. 110 c.p., 216 c. 1 n. 1, 219 c. 1 e c.2 n. 1 R.D.267/1942), perché, in concorso tra loro e con più azione esecutiva di un medesimo disegno criminoso, ciascuno nelle qualità menzionate ai capi 1, 3, 7 e 10, in relazione alle società RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE, raccogliendo gli incassi degli esercizi commerciali gestiti mediante le menzionate società fallite in una cassa unica e poi prelevando a nero, e quindi senza esporre le operazioni in contabilità, le somme corrisposte in favore di NOME, NOME e COGNOME NOME – le quali percepivano mensilmente la somma di euro 3000 – e di NOME NOME – il quale percepiva mensilmente una somma non inferiore ad euro 3000 – nonché prelevando altre somme destinate a pagare le loro spese personali, NOME NOME, NOME, NOME e COGNOME NOME distraevano dal patrimonio societario una somma non inferiore ad euro 1.872.000 e COGNOME NOME partecipava alla suddetta distrazione sino ad un importo non inferiore ad euro 1.680.000 ( in Napoli dal 14/01/2009 – data della dichiarazione del fallimento della RAGIONE_SOCIALE sino al 02/04/2019 data della dichiarazione di fallimento della RAGIONE_SOCIALE.
Avverso la suindicata sentenza, ricorrono per cassazione gli imputati, tramite i rispettivi difensori di fiducia.
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME tramite gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME deduce sei motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3.1.Col primo motivo deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento ai capi 1) e 2) dell’imputazione relativi al fallimento della Riviera s.r.l. Dopo essersi riportati stralci della sentenza di primo grado e della relazione ex art. 33 l.f. del curatore fallimentare e relativa deposizione dal medesimo resa in dibattimento, si rappresenta che, secondo i giudici di primo grado, la ricostruzione degli addebiti di cui ai capi 1 e 2 dell’imputazione s’incentra
su ‘ due operazioni di affitto di azienda’, da parte di RAGIONE_SOCIALE a terzi (ad RAGIONE_SOCIALE quello del 31.1.2001 e a RAGIONE_SOCIALE quello del 23.3.2009), società appartenenti al gruppo familiare NOME, aventi ad oggetto, entrambi, il medesimo ramo di azienda per lo svolgimento dell’attività di laboratorio di pasticceria con previsione di pagamento di un canone di euro 18.600 mai richiesto e riscosso dall’affittante RAGIONE_SOCIALE anche perché – affermano i primi giudici – la società RAGIONE_SOCIALE non aveva la capacità economica ad assumere fitti particolarmente onerosi, e, peraltro successivamente dichiarata fallita ad istanza del curatore della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione. Quanto alle scritture contabili, secondo i giudici di primo grado, gli addebiti riguardano sostanzialmente e specificamente il libro degli inventari e quello dei beni ammortizzabili, che avrebbero, rispettivamente, impedito al curatore di “comprendere l’evoluzione dell’attività della società” nonché l’individuazione “di beni acquistati dall’impresa e destinati allo svolgimento dell’attività”, oltre che all’ammortamento del prezzo di acquisto da spalmare nell’anno.
Nulla di particolare rilievo accusatorio si rinviene in motivazione in ordine al reato di cui al capo 2), la cui fondatezza accusatoria, probabilmente, secondo i giudici, si ricaverebbe, oggettivamente, dalla motivazione, peraltro generica ed insufficiente, sulla sussistenza del capo 1) di imputazione.
Indi, si passa ad esporre i contenuti dell’atto di appello rispetto ai punti della pronuncia di primo grado censurati in quella sede al fine di evidenziare i vizi della sentenza di appello, impugnata, che avrebbe, in buona sostanza, travisato aspetti decisivi della vicenda ovvero fornito argomentazioni illogiche o contraddittorie ed in ogni caso omesso di rispondere a diverse delle questioni poste.
Con l’appello si era innanzitutto evidenziato come meramente ipotetico fosse il primo elemento posto a carico del COGNOME in relazione alla bancarotta fraudolenta documentale. Il riferimento è al contratto di comodato concluso tra NOME di COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE, avente ad oggetto parte dei beni che la di COGNOME aveva acquistato all’asta dalla società e non rinvenuti dal curatore. Secondo il Tribunale la mancanza del registro dei beni ammortizzabili non avrebbe consentito di conoscere se i beni elencati nel contratto di fitto d’azienda tra la fallita RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, e la RAGIONE_SOCIALE fossero effettivamente tutti quelli acquistati all’asta ovvero se alcuni di questi fossero poi sfuggiti al pignoramento; ma ad avviso della difesa tale ipotesi è rimasta a livello di mero sospetto, come tale insufficiente ad affermare la penale responsabilità del COGNOME, tenuto conto che si deve presumere che l’ufficiale giudiziario in sede di accesso per redigere il verbale di pignoramento aveva certamente proceduto ad elencare tutti i beni rinvenuti in quel momento presso la sede aziendale.
Identica debolezza probatoria veniva attribuita all’argomento secondo cui i liquidatori, di diritto e di fatto – quindi anche il COGNOME al quale è attribuita anche la qualifica di liquidatore di fatto fino al fallimento della Riviera – avrebbe sistematicamente omesso di riscuotere i crediti vantati da RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, verso la RAGIONE_SOCIALE come corrispettivo del fitto di ramo d’azienda stipulato con atto del 23.3.2009. In particolare, si era evidenziato come tale argomento venisse contraddetto dal fatto che lo stesso Tribunale aveva riconosciuto che la RAGIONE_SOCIALE non sarebbe stata in grado di pagare il canone di locazione, poiché il suo capitale sociale minimo era stato versato solo in parte e quindi non aveva capacità economica ad assumere obbligazioni particolarmente onerose. Sicché si era concluso che le condotte ascritte ai capi 2 e 1, ossia la mancata riscossione dei crediti verso la Sogeri e la tenuta irregolare delle scritture contabili e l’omissione di altre, fossero da imputare a mera negligenza dei liquidatori e non certo ad una preordinata decisione in tal senso (d’altra parte vi era stata anche una prima richiesta di fallimento da parte della Riviera nei confronti della RAGIONE_SOCIALE rigettata per ragioni formali; ed in ogni caso essendo le due società riconducibili al medesimo gruppo della famiglia COGNOME il credito e il debito, anche soprattutto sotto il profilo di danni/vantaggi delle rispettive masse fallimentari, si compensavano tra loro; e quanto alle scritture contabili non era ravvisabile un nesso causale tra le condotte e l’impossibilità di ricostruzione del patrimonio o della movimentazione degli affari; ed essendo oramai la società Riviera in liquidazione dal 2005 non necessitavano aggiornamenti delle registrazioni e l’unica posta utile era soltanto quella di modesta entità della riscossione dei canoni per affitto di azienda).
Con specifico riferimento al reato di cui al capo 2, poi, il gravame aveva in buona sostanza reputato economicamente conveniente l’omessa riscossione dei canoni, poiché ogni azione giudiziaria avrebbe aggravato la sofferenza di RAGIONE_SOCIALE.r.lRAGIONE_SOCIALE in liquidazione, esponendola ai costi di un inutile giudizio civile, stante l’assoluta mancanza di liquidità e di beni da parte della debitrice, affittuaria, COGNOME
Né si sarebbe potuto ritenere rilevante la circostanza che il curatore non aveva potuto, per “la mancata produzione dei libri e delle scritture contabili……..eccepire l’avvenuto pagamento di una cartella (quella del debito fiscale maturato tra il 1994 ed il 2001) per la quale Equitalia era stata ammessa al passivo fallimentare”, essendo risultato pacifico, anche ad avviso del Tribunale, che i suddetti debiti tributari, maturati fino al 2001, non erano stati pacificamente mai pagati, tanto che costituirono oggetto anche di insinuazione al passivo fallimentare.
Ciò posto, si rappresenta che la motivazione della sentenza impugnata è priva di qualsiasi risposta alla massima parte delle censure, evidenziate nel precedente
punto, svolte con i motivi di appello, tranne per la richiesta di derubricare in colposa della condotta di cui al capo 2, rigettata con la seguente, generica motivazione “tale condotta (omissione di iniziative per incassare i canoni pretermessi) infatti sì protraeva per ben 7 annualità e ciò esclude in radice che si sia trattato di negligenza colposa, confermandosi così che l’omessa riscossione del credito si traduceva nella dissipazione del patrimonio aziendale della fallita”.
Trattasi di una motivazione incongrua sia perché, come riconosciuto dallo stesso Tribunale, l’omissione risaliva al 2001 (appalto di ramo di azienda alla società RAGIONE_SOCIALE da parte dell’allora amministratore unico NOME NOME) sia, soprattutto, perché risulta pacificamente accertato che la società affittuaria, quantomeno dal 2005, non aveva alcuna disponibilità per far fronte al debito per canoni di affitto non pagati.
Quindi l’argomento difensivo e di censura alla sentenza di primo grado si riferiva soprattutto, se non esclusivamente, alla oggettiva (riconosciuta anche dal Tribunale) mancanza di risorse da parte dell’affittuaria che avrebbe reso inutile qualsiasi, eventuale azione di recupero con oggettivo sperpero di somme.
Ma la Corte rende una risposta inadeguata anche al riguardo, limitandosi ad affermare che “solo per completezza il collegio deve respingere la tesi secondo cui l’omesso esercizio delle azioni civilistiche volte al recupero dei crediti abbia costituito un atto a preservare le finanze della fallita RAGIONE_SOCIALE, trattandosi di argomento che ha il duplice limite di svalutare il dato economicamente imprudente della scelta di un contraente incapace di fronteggiare le obbligazioni assunte, da un lato, e di introdurre il singolare principio per cui un imprenditore deve rinunciare a recuperare crediti litigiosi o comunque di non pronta esigibilità” (così testualmente si riporta in ricorso).
Pur volendo condividere, in linea di principio, le due osservazioni, le stesse mal si attagliano alla situazione reale e concreta di una società debitrice di cui si riconosce oggettivamente la indisponibilità economica tanto che ne viene dichiarato il fallimento e, di conseguenza, in contraddizione con quanto riconosciuto – sulla base delle risultanze dibattimentali – dagli stessi giudici di primo grado.
Quanto alla “mancanza del registro dei beni ammortizzabili secondo la Corte “la lettura integrale della sentenza evidenzia come tale elemento si collochi in un ben più ampio contesto di relazione tra le varie società riconducibili alla famiglia COGNOME e di fatto amministrate dal COGNOME all’insegna di una certa ed inequivocabile <> contabile, volta sostanzialmente a proteggere il nucleo familiare NOME. dalle conseguenze patrimoniali negative di
una strategia imprenditoriale finalizzata solo all’arricchimento personale dei proprietari, a discapito delle società e dei creditori “, per cui la sua responsabilità “non viene affermata sulla sola scorta della mancanza del registro dei beni ammortizzabili, bensì sulla scorta delle plurime risultanze fattuali, tra le quali si annovera la menzionata lacuna documentale”. Nulla tuttavia si dice in ordine alla “plurime risultanze fattuali” emerse dall’istruttoria dibattimentale e di cui, peraltro, con l’impugnazione se ne era sottolineata la carenza e/o la loro incongruenza logica a fini accusatori.
Da una attenta e completa lettura degli atti processuali, compresa la sentenza, risulta che le condotte del COGNOME non erano “finalizzate a proteggere il nucleo familiare dei COGNOME dalle conseguenze patrimoniali negative di una strategia imprenditoriale finalizzata solo al loro arricchimento”, ma che – fin dal suo primo ingresso (risalente alla metà degli anni 90) nella compagine commerciale della famiglia COGNOME – il suo interesse esclusivo era quello di tutelare COGNOME e COGNOME (storici clienti del suo studio di commercialista) che attraverso la RAGIONE_SOCIALE – erano entrati in società, con quote paritarie, con il capostipite e “padrone” assoluto NOME COGNOME, creando la RAGIONE_SOCIALE e conseguentemente, in via indiretta, con la RAGIONE_SOCIALE
Né la Corte di appello ha speso alcun argomento sulla principale ed assorbente questione riguardante la cessazione, fin dal 2001, di qualsiasi attività commerciale, sia produttiva che di distribuzione dei prodotti, della RAGIONE_SOCIALE, la quale era stata messa il liquidazione nel febbraio 2005 e privata, sempre nel 2005, a seguito del pignoramento eseguito da RAGIONE_SOCIALE, anche di tutti i beni e mezzi strumentali da indicare ed aggiornare nell’obbligatorio registro deibeni ammortizzabili”.
3.2. Col secondo motivo deduce la totale assenza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla affermata sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati ai capi 1) e 2).
Come si era evidenziato con i motivi di appello, già nella prima sentenza non si faceva alcun cenno al fatto che la “RAGIONE_SOCIALE” si era opposta efficacemente ad una prima richiesta di fallimento avanzata nel 2012 dagli stessi creditori (due lavoratori dipendenti) che poi nel 2016 ottennero l’apertura della procedura concorsuale.
La prima istanza venne rigettata dal Tribunale di Napoli per assenza dei requisiti soggettivi ex artt. 1 e 5 l.f., mentre la seconda istanza fu accolta esclusivamente perché la RAGIONE_SOCIALE non si costituì in giudizio a causa dell’omessa conoscenza della richiesta di fallimento notificata ad un diverso indirizzo della società. In sede di prima richiesta di fallimento il legale della società, avv.
COGNOME, con l’atto di opposizione depositò i bilanci e le scritture contabili dai quali il Tribunale constatò l’impossibilità oggettiva del fallimento per mancanza dei requisiti di fallibilità.
Si era evidenziato nei motivi di appello – e si reitera nella presente sede che “tutte le presunte violazioni ed omissioni contestate nella tenuta delle scritture contabili, quindi, furono dovute a mera trascuratezza non essendo fraudolentemente finalizzate ad evitare la corretta ricostruzione del patrimonio o della movimentazione degli affari, perché il COGNOME aveva la ragionevole certezza che la “RAGIONE_SOCIALE” non potesse fallire”.
Sotto il profilo dell’elemento psicologico, quindi, si era chiesta, in subordine ai motivi principali, la riqualificazione dei fatti contestati nei meno gravi reati di bancarotta semplice.
Anche la sentenza oggi impugnata ha totalmente trascurato tale doglianza difensiva non spendendo neanche un rigo per confutare la tesi relativa all’insussistenza del dolo, ed anzi la condotta del COGNOME viene considerata punibile perché “all’insegna di una certa ed inequivocabile leggerezza contabile” affermazione (contenuta a pagina 5 dell’atto impugnato) che, già da sola, appare in aperto contrasto con l’ipotesi dolosa.
Per tale motivo la sentenza della Corte è totalmente carente di motivazione non avendo risposto agli specifici addebiti mossi nei motivi di appello in ordine alla omessa motivazione, già riscontrata nella sentenza di primo grado, relativa all’insussistenza del dolo.
Al tempo stesso la sentenza è contraddittoria allorquando definisce la condotta del COGNOME come contraddistinta da mera leggerezza contabile, delineando profili di semplice responsabilità colposa incompatibili con la condanna per bancarotta fraudolenta.
3.3. Col terzo motivo deduce l’insufficienza, la carenza e l’illogicità della motivazione della sentenza con riferimento al concorso nella bancarotta fraudolenta documentale della “RAGIONE_SOCIALE” (capo 3} della rubrica.
La sentenza impugnata effettua un richiamo completo ai motivi di appello senza però, poi, nella parte motivazionale, analizzare e valutare le prove richieste dai difensori, finendo per confermare pedissequamente la decisione del Tribunale di condannare il COGNOME per il concorso nell’occultamento e/o distruzione delle scritture contabili della COGNOME.
In particolare, alle pagine 26 e 27 dei motivi di appello, si era chiesta la corretta valutazione di svariate dichiarazioni costituenti prove a discarico.
Tuttavia, la Corte territoriale, senza minimamente considerare tali prove, si è dilungata nel ritenere provata la colpevolezza del COGNOME sulla base della
ravvisata inattendibilità delle dichiarazioni di COGNOME amministratore di diritto della RAGIONE_SOCIALE, che avrebbe inizialmente provato a discolpare se stesso, riferendo al curatore che, dopo la riconsegna dei libri contabili, li avrebbe conservati in una cantina ove sarebbero poi marciti in seguito ad un allagamento.
Orbene è evidente che tale dichiarazione, che il Tribunale aveva ritenuto giustamente inverosimile, era totalmente neutra per la posizione del COGNOME, ed era il maldestro tentativo del GIGANTE di giustificare l’avvenuta perdita delle scritture contabili dopo il ritiro delle stesse dallo studio COGNOME.
L’inverosimiglianza della mancata consegna al nuovo consulente contabile, e la perdita dei documenti a causa dell’allagamento subito, non inficiano minimamente la ricostruzione storica relativa alla precedente consegna delle scritture dallo studio COGNOME al COGNOME
La sentenza è quindi in tale parte illogica.
Più grave appare, poi, la carenza totale di motivazione in ordine alla richiesta di valutazione della prova relativa alle dichiarazioni rese dalla sig.ra COGNOME e dalla sig.ra COGNOME Il generico richiamo, nella sentenza impugnata, alle considerazioni già svolte nella sentenza di primo grado, non costituisce valida motivazione in quanto la stessa sentenza di primo grado nulla ha riferito in ordine alle dichiarazioni della collaboratrice e della segretaria dello studio COGNOME (che alle udienze del 18.06.21 e del 15.09.21 ebbero a riferire di aver materialmente preparato i libri e le scritture contabili della COGNOME e di averle consegnate al COGNOME alcuni mesi prima del fallimento, allorquando i NUNZIATA avevano deciso di cambiare consulente contabile).
La sentenza di primo grado, invece, si sofferma esclusivamente sulla presunta mancata consegna delle sole fatture in originale, per le quali le prove dichiarative non troverebbero riscontro nei verbali di consegna, nonostante venissero confermate dal dipendente della COGNOME sig. NOMECOGNOME ed in parte dalle stesse dichiarazioni delle sorelle NOME COGNOME
3.4. Col quarto motivo deduce vizio di motivazione, carente ed illogica con riferimento all’ipotesi di concorso di bancarotta impropria della RAGIONE_SOCIALE – capo 5) della rubrica.
Anche in questo caso la sentenza impugnata inizialmente riporta il contenuto dei motivi di appello senza però poi fornire adeguata motivazione in ordine alla infondatezza degli addebiti difensivi.
Infatti, a pag. 33 dei motivi di appello si era evidenziato come l’omesso pagamento dei canoni dovuti dalla COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE in liquidazione non avesse arrecato alcun danno alla prima e non avesse minimamente
contribuito ad aggravarne il dissesto, così mancando l’elemento oggettivo del reato (il danno).
La sentenza impugnata, invece di rispondere a tale doglianza, finisce per analizzare l’elemento soggettivo della condotta del COGNOME, che, quale “consigliere” a 360° dei NUNZIATA, in ragione della pluralità dei ruoli da lui ricoperti (liquidatore della “RAGIONE_SOCIALE” e consulente fiscale della “RAGIONE_SOCIALE“) avrebbe agito con il dolo specifico di voler, da un lato, dissipare un bene della “RAGIONE_SOCIALE liq.”, e, dall’altro, aggravare il dissesto della “RAGIONE_SOCIALE“, senza minimamente motivare in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato.
L’unica motivazione fornita sulla sussistenza di un danno effettivo a discapito della SOGERI, si rinviene a fine pag. 9 della sentenza, ove la Corte d’appello afferma: “Occorre infatti sottolineare la differenza giuridica che esiste fra il risparmio e l’inadempimento. Tale omissione espone la debitrice ad azioni civili e risarcitorie, e quindi non è sostenibile che l’inadempimento si era risolto in un vantaggio per SOGERI”. La Corte dimentica, però, di indicare in quale modo l’inadempimento si sia concretizzato in un danno e quando la debitrice abbia subito le azioni civili e risarcitorie ipotizzate.
Tali potenziali azioni civili risarcitorie avrebbero dovute essere attivate dallo stesso COGNOME quale liquidatore della RAGIONE_SOCIALE, nonché, liquidatore di fatto della RAGIONE_SOCIALE e la mancata attivazione delle stesse sono valse allo stesso la condanna per la bancarotta dissipatoria in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE (capo 2).
È quindi provato che nessun danno effettivo è stato causato alla SOGERI con la mancanza di ogni consequenziale aggravamento del dissesto della stessa. La motivazione è quindi illogica perché ritiene che lo stesso fatto storico comprovato (mancato pagamento dei canoni e mancata attivazione di azioni civili e risarcitorie) possa costituire l’elemento oggettivo di una bancarotta dissipativa per una parte contraente (vedi motivazione della condanna per il capo 2), fallimento “RAGIONE_SOCIALE liq.”) e di una bancarotta impropria per aggravamento del dissesto per la controparte (“RAGIONE_SOCIALE“). E’ logicamente inconciliabile la possibilità che una condotta (inadempimento) possa allo stesso tempo costituire un danno per entrambe le parti contrattuali.
Se, poi, addirittura, “il disegno criminoso” suggerito dal COGNOME sarebbe stato originariamente architettato a svantaggio della società “RAGIONE_SOCIALE” (per dissipazione) e se addirittura, a posteriori, la “RAGIONE_SOCIALE” non ha attivato azioni civili risarcitorie e non si è nemmeno insinuata al passivo fallimentare della “RAGIONE_SOCIALE“, ecco allora che appare di tutta evidenza come
l’operazione contestata non abbia minimamente aggravato e provocato il debito di tale ultima società. Ed invece, la sentenza impugnata, quasi a voler colpire la condotta del COGNOME per il suo contegno morale, lo condanna in ragione della pluralità dei ruoli da lui assunti nel panorama delle società riferibili ai fratelli COGNOME, con una superfetazione accusatoria non giustificata e non giustificabile, da un’analisi serena delle condotte tenute dall’imputato: il danno, non soltanto non si è mai realizzato, ma, addirittura, non vi è mai stato neanche il pericolo che lo stesso si realizzasse.
3.5. Col quinto motivo deduce l’illogicità, insufficienza e carenza di motivazione in ordine alla bancarotta distrattiva contestata al capo 9) della rubrica, ravvisata dai giudici di merito solo con riferimento alle società RAGIONE_SOCIALE
Coi motivi di appello si era chiesto di assolvere l’imputato dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione di cui al capo 9, evidenziando che contrariamente a quanto indicato nella sentenza di primo grado, nessuna distrazione di denaro poteva essere stata realizzata dalle casse della “RAGIONE_SOCIALE” per la semplice circostanza che tale società (diversamente da altre riconducibili ai NUNZIATA) non aveva rapporti con il pubblico e, quindi, non aveva entrate di cassa correnti (la RAGIONE_SOCIALE era titolare del laboratorio di pasticceria ad esclusivo servizio della stessa RAGIONE_SOCIALE); l’unica società ove compariva anche la figura del COGNOME dalla quale furono indebitamente prelevati soldi dalle casse sociali, e per la quale era astrattamente ipotizzabile un concorso dello stesso, era, quindi, la RAGIONE_SOCIALE ove egli rivestiva esclusivamente il ruolo di consulente contabile; per il fallimento della RAGIONE_SOCIALE lo stesso Tribunale aveva escluso ogni responsabilità del COGNOME (vedi assoluzione dai capi 4 e 6) dai fatti di bancarotta impropria e preferenziale, perché la decisione di non pagare le imposte e di pagare alcuni fornitori invece di altri “attengono strettamente la fase operativa e gestionale, che rimanda a decisioni dirette (ed esclusive) dei membri della famiglia RAGIONE_SOCIALE “.
Coerentemente il Tribunale avrebbe dovuto assolvere COGNOME anche dal reato di cui al capo 9, perché egli non poté fornire alcun contributo causale alla scelta degli imprenditori di prelevare denaro dalle casse societarie.
La semplice conoscenza da parte dell’odierno ricorrente della gestione personalistica che i NUNZIATA facevano della cassa sociale della RAGIONE_SOCIALE non imponeva al RAGIONE_SOCIALE alcun obbligo di segnalazione e/o denunzia degli stessi alle autorità giudiziarie, ricoprendo egli un ruolo di mero consulente contabile.
Per giustificare un contributo causale quale consulente contabile della “RAGIONE_SOCIALE“, il Tribunale, invece, è arrivato ad ipotizzare il concorso del COGNOME nella consumazione di reati tributari (non contestati) e/o operazioni di alterazioni contabili senza notare che gli episodi, riferiti dalle sorelle COGNOME in ordine all’utilizzo di false fatture, riguardavano altro consulente contabile, tale dott. COGNOME nonché, riguardavano altre e diverse società del gruppo (“RAGIONE_SOCIALE” e “MAS RAGIONE_SOCIALE“), per le quali il COGNOME non aveva prestato alcuna attività consulenziale né assunto alcun ruolo formale.
Quanto al supposto contributo che il ricorrente avrebbe fornito nella tenuta di una contabilità apparentemente corretta, non vi è prova che l’imputato abbia fatto alchimie ed abbia artatamente modificato le risultanze contabili della “RAGIONE_SOCIALE” ed anzi è stato provato che il COGNOME comunicava ai NUNZIATA tutte le considerevoli imposte da pagare sulla base della contabilità ufficiale da lui tenuta (l’unica a sua conoscenza), e quindi egli non aveva alcuna necessità di alterare la contabilità; infatti nessun bilancio della “RAGIONE_SOCIALE” è mai stato approvato dai NUNZIATA e nessun concorso è ipotizzabile da parte dell’odierno ricorrente nella tenuta di una seconda contabilità “a nero” che, come riferito dalle sorelle COGNOME (dipendenti amministrative interne delle società dei Nunziata), veniva conservata da queste ultime e serviva internamente a giustificare fra i fratelli COGNOME tutti gli ammanchi di cassa.
La contabilità ufficiale non fu mai rinvenuta e tale circostanza, unitamente alla mancata presentazione dei bilanci, rende inverosimile e comunque non provato alcun contributo causale del COGNOME nella redazione di una contabilità artatamente modificata tale da renderla apparentemente corretta, se poi nessun utilizzo della stessa è mai stato fatto nei confronti dei terzi (nessuna pubblicazione di bilanci alla CCIAA) né nei confronti della curatela (con l’occultamento/distruzione della stessa); appare logico ipotizzare che tale operazione, di fornire una rappresentazione contabile formalmente corretta, non sia mai stata realizzata.
Ebbene, nonostante tali puntuali obiezioni, la Corte di Appello ha ritenuto di confermare la sentenza di condanna sulla base del presunto contributo fornito dall’imputato che “chiamato a rendere una rappresentazione contabile formalmente corretta’ … “approntando una veste formale ineccepibile per la doppia contabilità della società”… “rafforzava la determinazione criminosa dei germani NUNZIATA “.
Tale motivazione, oltre che carente, non avendo minimamente risposto ai motivi di appello, è illogica perché contrastante con le emergenze dibattimentali e con la stessa contestazione di bancarotta documentale. Era emerso a dibattimento, come indicato nei motivi di appello, che: la doppia contabilità era stata tenuta dalle dipendenti signore DI FAZIO per una necessità interna sia dei germani NUNZIATA che degli stessi dipendenti che, chi per un motivo (giustificare reciproci prelievi fra i soci), chi per un altro (giustificare i prelievi necessari per sostenere le spese non documentate), dovevano annotare le operazioni finanziarie “a nero”; la “RAGIONE_SOCIALE” non aveva mai approvato né presentato bilanci alla Camera di Commercio; il lavoro di COGNOME era di carattere esclusivamente fiscale per il calcolo delle imposte dovute e la elaborazione dei modelli F24 per il pagamento delle stesse (f24 inviati con puntualità ma spesso non pagati da parte dei NUNZIATA); i NUNZIATA non si sono mai preoccupati di avere una “veste formale ineccepibile” sotto il profilo della corretta tenuta delle scritture contabili ed infatti non hanno mai approvato i bilanci della RAGIONE_SOCIALE anche perché probabilmente non avrebbero saputo giustificare gli ammanchi di cassa; se veramente il COGNOME avesse contribuito alla realizzazione e tenuta di una contabilità attendibile, nessuno avrebbe avuto l’interesse e la necessità di occultare e/o distruggere le scritture contabili che, invece, non sono mai state rinvenute.
Andava, quindi, escluso ogni contributo causale del COGNOME tale da rafforzare le determinazioni criminose dei NUNZIATA.
La sentenza impugnata è, quindi, carente ed illogica e come tale va annullata.
L’annullamento della sentenza di condanna per il capo 9) comporterebbe il venir meno di ogni motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante del danno di rilevante entità previsto dall’art. 219 legge fallimentare: sul punto è infatti lapidaria la sentenza impugnata allorquando rigetta il quarto motivo di appello a seguito della conferma della condanna per il capo 9) dell’imputazione, di fatto concordando con la difesa che i soli danni altrimenti contestati al COGNOME riguarderebbero l’omesso incasso dei canoni dovuti da RAGIONE_SOCIALE per l’importo di € 138.000, e sarebbero tali da non integrare l’aggravante speciale.
3.6. Col sesto motivo deduce la carenza ed illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche richieste con il quinto motivo di appello.
Anche su tale punto la sentenza impugnata non risponde alle doglianze difensive contenute nei motivi di appello.
Si era infatti sostenuto che il ruolo di COGNOME fosse stato quello di mero consulente fiscale della famiglia COGNOME, senza che avesse alcun obbligo di controllo sull’operato degli imprenditori suoi clienti; l’ipotetico apporto fornito, quindi, per la sua scarsa rllevanza rendeva la condotta dell’imputato meritevole del riconoscimento delle attenuanti generiche.
Tale obiezione è stata di fatto ignorata dalla Corte che ha confermato la penale responsabilità del ricorrente negandogli le attenuanti invocate, perché egli sarebbe stato perfettamente a conoscenza delle vicende societarie e avrebbe prestato la propria competenza allo scopo di nascondere le decozione delle varie società, quasi come se la conoscenza della malefatte altrui gli attribuisse “d’ufficio” un ruolo di controllo sull’operato dei germani NUNZIATA ed un obbligo di denuncia in realtà inesistente.
La sentenza è quindi carente e fornisce una motivazione illogica per negare le attenuanti generiche invocate.
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME, tramite l’avv. NOME COGNOME deduce, con l’unico motivo articolato, di seguito enunciato nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., la mancanza e/o insufficienza della motivazione e/o illogicità e contraddittorietà della stessa
La Corte territoriale, pur riconoscendo, secondo le certezze probatorie fattuali raggiunte dal Tribunale, dalla stessa condivise, che: il COGNOME, liquidatore formale della società, “abbia svolto il ruolo di uomo di paglia del tutto incapace di comprendere il significato giuridico ed economico dei propri atti rappresentando un mero schermo per la figura ed il ruolo di COGNOME NOME… impegnandosi con ogni evidenza a non svolgere (né del resto era in grado di farlo non avendone le competenze) i poteri inerenti la carica assunta” (pag. 3); il COGNOME aveva accettato “una carica, cui per legge si ricollegano obblighi penali, civili e tributari, nella consapevolezza che il suo compito era quello di non esercitarli affinché se ne occupasse altro soggetto – COGNOME – il cui operato egli non era in grado di controllare” per cui aveva affidato al “coimputato COGNOME non solo il ruolo di liquidatore di fatto ….. ma anche, dopo la dichiarazione di fallimento il ruolo di <> deputato a indicare le migliori strategie per ovviare alle richieste della curatela fallimentare”; il COGNOME non era in grado, per le sue condizioni fisiche, il suo livello culturale e la notoria incapacità professionale, di svolgere il ruolo di liquidatore di società e di assumerne doveri e poteri, nonostante, appunto, tali elementi di fatto, ha ritenuto, con giudizio illogico e contraddittorio, di dover confermare la condanna del COGNOME per il concorso nel reato di bancarotta documentale (capo 1 di imputazione). Essa ha al riguardo osservato
che sulla base dei soli obblighi di legge dal ricorrente formalmente assunti, accettando la carica di liquidatore, si era raggiunta la prova della sua “concreta consapevolezza”, contro ogni ragionevole dubbio, “delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto”, soprattutto in ordine al fatto che le scritture contabili erano state tenute, dal liquidatore di fatto e “consigliere” COGNOME e presso lo studio di questi anche attraverso i suoi collaboratori (tra i quali non vi era pacificamente il COGNOME) “in tale modo da impedire la ricostruzione del movimento degli affari” .
Inoltre, si attribuisce al ricorrente una responsabilità oggettiva, in mancanza di una qualsiasi prova della conoscenza nonché della “concreta consapevolezza, da parte della testa di legno” delle presunte condotte illecite compiute dal liquidatore di fatto, che peraltro era anche (da oltre un decennio) il commercialista dalla famiglia COGNOME, proprietaria di tutte le società coinvolte e gestrice, di diritto ed anche di fatto, delle relative attività commerciali.
Laddove, peraltro, le scritture contabili erano state tenute esclusivamente da parte del COGNOME e del suo studio di commercialista, anche nella fase della messa in liquidazione della società RAGIONE_SOCIALE
I ricorsi, proposti successivamente al 30.6.2024, sono stati trattati – ai sensi dell’art. 611 come modificato dal d.lgs. del 10.10.2022 n. 150 e successive integrazioni – su richiesta, in pubblica udienza, con l’intervento delle parti che hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono entrambi fondati per le ragioni di seguito indicate.
1. Il ricorso nell’interesse di COGNOME.
Ai fini di un più proficuo inquadramento delle questioni sollevate dalla difesa, che – di là delle evidenti carenze motivazionali della sentenza impugnata di cui si farà cenno nel prosieguo della trattazione – evidenzia diversi aspetti di criticità che involgono la stessa impostazione ricostruttiva delle vicende seguita dai giudici di primo e secondo grado, appare opportuno partire dai capi d’imputazione quale primario parametro di valutazione.
1.1. Leggendo i capi d’imputazione risulta, invero, innanzitutto, evidente che il reato di cui al capo 1 – bancarotta fraudolenta documentale relativa al fallimento della RAGIONE_SOCIALE – è stato contestato nella duplice veste di bancarotta fraudolenta
cd. generica e di bancarotta fraudolenta cd. specifica. Risulta invero contestato a COGNOME e ai suoi correi, di avere sia sottratto il libro degli inventari e il libro dei beni ammortizzabili con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, sia di avere tenuto il libro giornale ed il libro mastro in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e della movimentazione degli affari.
Ebbene, a fronte di tale duplice contestazione, la sentenza di primo grado, dopo avere affermato che le scritture contabili sono incomplete e quelle trasmesse non attendibili, e quindi non utili ai fini della ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società fallita, aveva concluso per la sussistenza del reato di bancarotta documentale fraudolenta sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, facendo riferimento al dolo specifico richiesto per la fattispecie incriminatrice cd. specifica e ravvisando nella condotta complessiva dell’imputato diversi indici di fraudolenza, ritenuti indicativi della finalità di recare pregiudizio ai creditori.
La sentenza di primo grado aveva, in particolare, evidenziato che sia il mancato deposito del libro dei beni ammortizzabili e del libro degli inventari che la tenuta di quelle depositate, in maniera tale da rendere del tutto inattendibili i dati in esse rappresentati, avevano avuto concrete ripercussioni negative sulla procedura fallimentare, non avendo potuto il curatore, a causa di tali carenze e inattendibilità, accertare né la effettiva consistenza, a monte, e, via via, a seguito dei diversi passaggi intervenuti, dei beni della fallita (rispetto ai quali risultano, in virtù della relazione svolta dal COGNOME dopo circa 2 anni dal fallimento, affitti di ramo di azienda prima in favore di RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE e poi di RAGIONE_SOCIALE, vendita all’asta di macchinari con aggiudicazione per 1000 euro a COGNOME NOME e concessione in comodato di tali beni ad Itaca da parte della predetta), né la debitoria della stessa, di cui il curatore veniva a conoscenza solo attraverso le istanze di insinuazione al passivo presentate dai creditori (rispetto alle quali non aveva potuto interloquire adeguatamente – così in particolare rispetto alle cartelle esattoriali – proprio perché sprovvisto di documentazione utile al riguardo).
Indi, pur avendo citato entrambe le condotte oggetto di contestazione, la pronuncia di primo grado aveva poi concluso facendo riferimento unicamente al dolo specifico.
Ciò che rileva ai fini che occupano è che tale circostanza non è stata tenuta in debito conto dalla Corte di appello che, investita dei motivi di impugnazione che espressamente censuravano la ricostruzione svolta dal Tribunale sotto il duplice profilo della mancanza di determinate scritture contabili e della tenuta irregolare di quelle depositate, si è limitata a riferirsi alla certa ed inequivocabile ‘leggerezza’
contabile che avrebbe contraddistinto la condotta tenuta dal ricorrente relativamente alle scritture contabili della società RAGIONE_SOCIALE <>, concludendo che la responsabilità del COGNOME viene affermata non solo sulla scorta della mancanza del libro dei beni ammortizzabili, bensì anche <>, senza tuttavia indicare, come si lamenta in ricorso, quali fossero tali ‘plurime risultanze fattuali ‘ – tranne che per un generico riferimento al contesto, delineato nella sentenza di primo grado, di relazioni tra le varie società riconducibili alla famiglia COGNOME, di fatto amministrate da COGNOME all’insegna di ‘una certa ed inequivocabile contabile’.
La Corte di appello nel giungere a tale ‘approssimativa’ conclusione non ha, per altro verso, neppure preso specifica posizione rispetto alla duplice contestazione contenuta nell’imputazione, che avrebbe meritato ben altro approfondimento, innanzitutto in punto di diritto, in ordine alla stessa possibilità di una contemporanea configurazione di entrambe le fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale previste dall’art. 216 l.f, quella generica e quella specifica (ammessa da questa Corte, sia pure a determinate condizioni, in motivazione, nella pronuncia Sez. 5, n. 42546 del 07/11/2024, COGNOME, Rv. 287175 – 01, così massimata:’ In tema di bancarotta fraudolenta documentale, rientra nella prima fattispecie delineata dall’art. 216, comma 1, n. 2, legge fall. e richiede il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori o di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, la nozione di omessa tenuta, anche parziale, delle scritture contabili, che comprende non solo la mancata istituzione di uno o più libri contabili, ma anche l’ipotesi della materiale esistenza dei libri “lasciati in bianco” e si differenzia dal caso, caratterizzato invece da dolo generico, dell’omessa annotazione di dati veri allorché l’omissione consista non nella totale mancanza di annotazioni, ma nell’omessa annotazione di specifiche operazioni).
Il fatto come ricostruito dai giudici di merito, pur a voler considerare quanto affermato nella pronuncia di primo grado, non consente di comprendere neppure se ci si trovi di fronte a un caso rientrante nella bancarotta fraudolenta documentale specifica o in quella generica oppure, ancora, se ricorrano entrambe le ipotesi (come effettivamente contestate), che, come ha avuto modo di osservare la sentenza COGNOME suindicata, possono convivere in relazione non alla medesima condotta ma a condotte storicamente diverse, susseguitesi nel tempo, pur dando vita a un reato unico, essendo unica la determinazione criminosa.
Si deve considerare che nel caso di specie sono contestate la tenuta irregolare delle scritture depositate – libro mastro e libro giornale – e la sottrazione/mancata consegna del libro dei beni ammortizzabili e del libro degli inventari, ovvero condotte che a rigore si svolgono su piani differenti sia sotto il profilo temporale che oggettivo – che a maggior ragione potrebbero in astratto concorrere tra loro e che, come sembra desumersi dalla ricostruzione dei giudici di merito, sono state entrambe ritenute sussistenti nel caso di specie.
Ciò nondimeno, occorre confrontarsi anche col grado di incompletezza ed approssimazione con cui sono state tenute le scritture depositate, perché, ove esse fossero del tutto inattendibili e carenti, in un certo qual modo apparenti – come definite dai giudici di merito – si dovrebbe ricadere invece nella sola ipotesi della bancarotta fraudolenta specifica e non – anche – in quella della bancarotta fraudolenta generica, che presuppone la falsificazione o l’omessa annotazione di specifici dati.
In presenza di tali incertezze, che spetta al giudice di merito sanare, non è possibile stabilire quale sia l’elemento soggettivo da ritenere sussistente, se il dolo generico o quello specifico, avendo la sentenza di primo grado, ripresa genericamente sul punto da quella impugnata – che nel confermarla, peraltro, si riferisce unicamente alla mancanza del libro dei beni ammortizzabili – fatto, a sua volta, riferimento unicamente al dolo specifico, senza tuttavia offrire un’adeguata ricostruzione a sostegno.
La Corte di appello non ha, poi, fornito alcuna risposta, neppure in ordine a quei punti devoluti al suo vaglio con l’atto di appello, che avevano, in particolare, evidenziato circostanze di possibile rilevanza ai fini che occupano, tra le quali: la messa in liquidazione della società a partire dal 2005; l’assunta cessazione dell’attività già a partire dal 2001, anno in cui era intervenuto il primo contratto di affitto di azienda in favore di RAGIONE_SOCIALE, altra società riconducibile ai COGNOME; la addotta irrilevanza del registro dei beni ammortizzabili e del libro degli inventari e delle scritture pervenute nella disponibilità del curatore, per essere certi gli unici dati di rilievo rispetto alla società inattiva, essendo l’entità dei canoni desumibile dai contratti di affitto e l’ammontare dei debiti parimenti facilmente riscontrabile e ricostruibile attraverso le insinuazioni al passivo, essendo peraltro acclarato il dato dell’inadempimento dei debiti tributari da parte dei Nunziata; così anche per i beni della fallita, nulla vi sarebbe stato da accertare, sempre nell’ottica difensiva, risultando essi dall’elenco delle attrezzature per lo svolgimento di attività di pasticceria e bar allegato al verbale del terzo esperimento di asta mobiliare del 16.11.2005, aggiudicati a NOME COGNOME per euro 1000 – prodotto dalla difesa in giudizio).
Trattasi di aspetti di spiccata natura fattuale, che nell’ottica difensiva possono assumere rilievo rispetto ad entrambe le fattispecie contestate in imputazione, che meritavano, pertanto, una risposta da parte del giudice di merito, non potendo questa Corte sostituirsi ad esso nelle valutazioni in fatto.
Questo Collegio di legittimità può solo rammentare le coordinate ermeneutiche che potrebbero assumere rilievo rispetto alle censure non considerate dalla Corte di appello.
È invero il caso, innanzitutto, di ricordare che la cessazione di fatto dell’attività non rileva ai fini della tenuta delle scritture contabili (cfr., tra tante e tra le più recenti, Sez. 5, n. 3016 del 03/12/2024, dep. 27/01/2025, Rv. 287436 – 01 che, in motivazione, ha evidenziato che l’obbligo di tenere i libri e le scritture contabili, tra i quali non rientra il bilancio, viene meno solo dopo la formale cancellazione dell’ente dal registro delle imprese anche nel caso in cui manchino passività insolute, laddove nel caso di specie vi erano passività insolute e beni mobili, sia pure in tutto o in parte dati in fitto attraverso un terzo soggetto); che anche in fase di liquidazione sussiste l’obbligo di tenere le scritture contabili (cfr. da ultimo sempre Sez. 5, n. 3016 del 03/12/2024). E ciò lo si desume dal fatto che il legislatore si preoccupa di disciplinare le sorti dei libri contabili all’esito del compimento delle attività di liquidazione, disponendo all’art. 2496 cod. civ. che i libri della società devono essere depositati presso il registro delle imprese a cura del liquidatore e conservati per dieci anni per poter essere consultati da chiunque ne faccia richiesta. Le scritture contabili nella procedura di liquidazione sono invero finalizzate alla redazione del rendiconto degli amministratori alla data di messa in liquidazione della società e risultano indispensabili per il passaggio dalle valutazioni di funzionamento alle valutazioni di liquidazione, risultando propedeutiche alla redazione dei bilanci annuali e del bilancio finale. Tanto a dimostrazione del fatto che anche in caso di liquidazione incombono sull’organo rappresentativo della società gli obblighi di tenuta della contabilità e dei libri sociali.
Si deve altresì ricordare che il reato di bancarotta documentale – che va valutato in rapporto a quanto confluito a tempo debito in sede fallimentare sussiste anche nel caso in cui il curatore giunge alla ricostruzione di tasselli del patrimonio e del movimento degli affari reperendo aliunde i dati mancanti a causa della carenza e/o falsità delle scritture contabili (cfr. tra tante, Sez. 5, n. 21028 del 21/02/2020, Rv. 279346 – 01, che ha affermato che il reato di bancarotta fraudolenta documentale sussiste anche quando la documentazione possa essere ricostruita “aliunde”, poiché la necessità di acquisire i dati documentali presso terzi costituisce riprova che la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili
era tale da rendere, se non impossibile, quantomeno molto difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari).
E, quanto all’ulteriore rilievo relativo all’elemento soggettivo dei reati, messo in discussione con l’atto di appello anche attraverso il riferimento al rigetto di precedente istanza di fallimento presentata nel 2012 da due dipendenti della società Riviera (che la difesa prospetta essere intervenuto per ragioni formali legate alla mancanza dei presupposti soggettivi di fallibilità in capo alla RAGIONE_SOCIALE, circostanza che, nell’ottica difensiva, avrebbe potuto avere riflessi sulla consapevolezza e volontà degli imputati, che, nel loro agire, avrebbero fatto affidamento sulla non fallibilità della società RAGIONE_SOCIALE), appare evidente che, di là dei rilievi svolti nella pronuncia di primo grado, s’imponevano delle risposte precise da parte della Corte di appello anche riguardo a tale tema.
Tutto ciò anche perché la sentenza impugnata, per la sua estrema stringatezza e lacunosità, non soddisfa neppure i requisiti minimi per ravvisare l’ipotesi della cd. doppia conforme.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 – 01). Ed ancora, in tema di integrazione delle motivazioni tra le sentenze conformi di primo e di secondo grado, il giudice dell’appello può motivare per relazione se l’impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, mentre, qualora siano formulate censure specifiche o introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore, è affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che si limiti a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici rispetto alle risultanze istruttorie (Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 07/02/2020, Rv. 278611 – 01).
Laddove nel caso di specie, a fronte delle specifiche censure contenute nell’atto di appello – in gran parte riprodotte nel ricorso – di cui vi è cenno anche nel ‘ritenuto in fatto’, la Corte di appello ha reso risposte del tutto lacunose ed assertive, prive di specifico spessore argomentativo idoneo a confutare i rilievi difensivi.
Tali rilievi, che nella concatenazione logico-ricostruttiva dell’appellante attengono direttamente al merito della regiudicanda, non potevano ritenersi a priori privi di alcun pregio, avendo la difesa attraverso di essi offerto la propria impostazione alternativa, basandosi su elementi emersi ed acquisiti al processo. Né, essi, potevano essere superati limitandosi a richiamare pedissequamente, ed in maniera del tutto generica, la ricostruzione svolta in primo grado, senza operare, cioè, quegli agganci specifici idonei a dare vita ad un tessuto argomentativo unitario.
E’ vero, infatti, che nella motivazione della sentenza il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, ma è altrettanto vero che solo se egli ha dimostrato di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, possono, rectius debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Rv. 281935 – 01).
Sicché il disatteso implicito può venire in evidenza o, meglio, può prendere corpo, solo nella misura in cui si siano ostese in maniera compiuta e congrua le ragioni del convincimento, poste a base del ragionamento seguito e della valutazione svolta, laddove nel caso di specie, in difetto di una tale analisi ed indicazione di fondo, alle carenze motivazionali della pronuncia di appello non si può far fronte neppure mediante il criterio del ‘disatteso implicito’.
S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata in parte qua
.
1.2. Quanto all’imputazione di cui al capo 2, è mancata soprattutto una compiuta valutazione della condotta sotto il profilo giuridico, avendo i giudici di merito dato per scontato che la mancata riscossione dei canoni si sia risolta in dissipazione.
Certamente corretta è l’impostazione di fondo in cui è stata inserita dai giudici di primo grado – anche – tale condotta, ma essa non è di per sé sufficiente per superare tutte le criticità indicate dalla difesa già con l’atto di appello e rimaste prive di una compiuta disamina nella sentenza impugnata.
Costituiscono invero dati certi: la stipulazione nel 2001 da parte della RAGIONE_SOCIALE, quando la stessa aveva già accumulato una forte esposizione debitoria verso l’erario, di un primo contratto di affitto di ramo di azienda – laboratorio-pasticceria – in favore di RAGIONE_SOCIALE, altra società riconducile ai COGNOME, e la stipulazione nel 2009, a seguito del fallimento di RAGIONE_SOCIALE, di un secondo contratto di affitto del
medesimo ramo di azienda alla RAGIONE_SOCIALE – quando oramai il solo debito tributario aveva superato la soglia di un milione di euro.
Tali contratti vengono inseriti dai giudici di primo grado nell’ambito di un ben preciso contesto criminoso, connotato a monte dal disegno illecito di autofinanziare le società del gruppo RAGIONE_SOCIALE attraverso l’inadempimento di determinati debiti, in particolare di quelli tributari e previdenziali, per avviarle infine al fallimento, operando al contempo passaggi di consegne dall’una all’altra società, affinché si perpetuasse il medesimo schema in frode dei creditori (primo tra tutti l’Erario) e a vantaggio dei proprietari (i COGNOME).
I COGNOME, secondo la contestazione di cui al capo 9, provvedevano a prelevare somme a nero dalla cassa comune creata in relazione alle varie società a loro riconducibili, movimentata attraverso annotazioni extracontabili. Società rispetto alle quali viene al contempo tracciato il coinvolgimento di COGNOME, evidenziandone ora il ruolo anche formale dal predetto rivestito rispetto ad alcune di esse (così per la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE), ora quello di fatto (così per la RAGIONE_SOCIALE in relazione alla fase liquidatoria), ora quello di tenutario delle scritture contabili e di consulente (così per la RAGIONE_SOCIALE e per le altre società). Ruoli attraverso i quali il COGNOME, secondo l’impostazione accusatoria recepita dai giudici di merito, avrebbe fornito il proprio contributo alla realizzazione del progetto illecito che avrebbe visto i COGNOME interagire con altre figure a loro volta coinvolte in prima persona nelle società – ora in veste solo formale (COGNOME) ora anche sostanziale o di fatto (COGNOME).
In un siffatto contesto i giudici hanno ritenuto il contratto di affitto di azienda un espediente per continuare di fatto la medesima attività di bar-RAGIONE_SOCIALE mediante altra società – nel caso di cui al capo 2 mediante la RAGIONE_SOCIALE, creata ad hoc nel 2007, sottocapitalizzata, per subentrare nel fitto di azienda concesso alla RAGIONE_SOCIALE nel 2001, altra società dei COGNOME, portata anch’essa al fallimento, come poi la stessa RAGIONE_SOCIALE (che nonostante la sottocapitalizzazione iniziale coagulava, poi, intorno a sé un cospicuo giro di affari per milioni di euro, come emergente dalla stessa entità del debito tributario che la società ebbe ad accumulare).
Rientrerebbe in tale contesto la preordinata intesa di non riscuotere i canoni di affitto dalla società RAGIONE_SOCIALE, che, a sua volta, infatti, non si sarebbe premurata minimamente di provvedere al relativo pagamento (solo dopo la dichiarazione di fallimento della Riviera, veniva azionato il credito per canoni insoluti dal curatore che procedeva alla relativa insinuazione al passivo del fallimento della Sogeri).
Secondo i giudici di merito la dissipazione sarebbe consistita, a monte, nella preordinazione di un siffatto piano in base al quale si sarebbe, appunto, stabilito il passaggio di consegne tra le due società senza una benché minima remunerazione.
Pur a voler convalidare tale ricostruzione dei giudici di merito, rimane da rispondere a rilievi di appello sulla configurabilità della dissipazione rispetto a tale condotta.
L’atto di appello aveva invero posto determinate questioni che miravano a minare l’impostazione accusatoria, insinuando quanto meno il dubbio circa la utilità di un’azione di recupero dei canoni insoluti nei confronti della Sogeri per essere essa priva di risorse economiche, circostanza che avrebbe reso non solo infruttuosa una eventuale azione giudiziaria contro la Sogeri ma anche comportato un inutile aggravio di spese per la Riviera. Ed aveva concluso chiedendo di rivalutare la vicenda anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, al più ravvisabile in quello colposo (come scelta imprudente del contraente e mancata riscossione dei canoni per negligenza).
La sentenza impugnata non fornisce al riguardo risposte esaurienti, pur avendo essa stessa fatto riferimento alla scelta, a monte, da parte della RAGIONE_SOCIALE sRAGIONE_SOCIALEr.RAGIONE_SOCIALE, di un contraente – la RAGIONE_SOCIALE – economicamente non adeguato.
S’impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata anche con riferimento al capo 2 dell’imputazione. Il giudice del rinvio, nell’ambito della nuova valutazione, nel rispondere specificamente ai rilievi difensivi, dovrà tener conto dei principi affermati in tema di bancarotta fraudolenta per dissipazione.
Ha, in particolare, questa Corte già avuto modo di osservare che, in tema di bancarotta fraudolenta, la condotta di “distrazione” si concreta in un distacco dal patrimonio sociale di beni cui viene data una destinazione diversa da quella di garanzia dei creditori, non rilevando se in quel momento l’impresa versi in stato di insolvenza, mentre quella di “dissipazione” consiste nell’impiego dei beni in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla loro funzione di garanzia patrimoniale, per effetto di consapevoli scelte radicalmente incongrue con le effettive esigenze dell’azienda, avuto riguardo alle sue dimensioni e complessità, oltre che alle specifiche condizioni economiche ed imprenditoriali sussistenti (Sez. 5, n. 7437 del 15/10/2020, dep. 25/02/2021, Rv. 280550 – 02).
Per altro verso, questa Corte ha già osservato che, in tema di reati fallimentari, la consumazione del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti integra il delitto di bancarotta semplice nel caso in cui tali operazioni si inquadrino nell’ambito di condotte tenute comunque nell’interesse dell’impresa, configurandosi, invece, il delitto di bancarotta fraudolenta nel caso in cui l’agente abbia dolosamente perseguito un interesse proprio o di terzi estranei
all’impresa (Sez. 5, n. 7417 del 01/02/2023, Rv. 284230 – 02. Conf.: Sez. 5, n. 15850 del 1990, Rv. 185886-01).
Come si è detto, a tali principi di diritto dovrà uniformarsi il giudice del rinvio nell’affrontare il tema posto dall’atto di appello in relazione al capo 2 dell’imputazione, precisando come le condotte descritte possano essere ricondotte nella fattispecie del reato di bancarotta per dissipazione (o ad altra fattispecie).
1.3. Parimenti priva di risposte esaurienti è la sentenza impugnata con riferimento ai motivi di appello che contenevano censure in ordine alla bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo 3 dell’imputazione (avente ad oggetto la condotta di distruzione/sottrazione dei documenti contabili originali e copie tenuti presso lo studio di Gelormini e l’ufficio contabilità della società RAGIONE_SOCIALE nonché la condotta di falsificazione dei libri e delle scritture contabili mediante l’annotazione di rapporti economici relativi ad operazioni inesistenti, in particolare per celare le uscite relative a dazioni di denaro a nero in favore dei COGNOME).
Ebbene, innanzitutto con l’atto di appello, con riferimento alla sottrazione delle scritture contabili-fiscali – risultando l’affermazione di responsabilità del COGNOME rispetto alla bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo 3 concentrata su tale condotta – si era evidenziato, indicando anche gli specifici dati testimoniali che attestassero quanto affermato, che l’istruttoria dibattimentale aveva fatto emergere come gli originali dei documenti della RAGIONE_SOCIALE, trasmessi di volta in volta, al COGNOME fossero periodicamente restituiti alla società e come anche quelli ancora rimasti presso lo studio del COGNOME nel 2017, prima del fallimento intervenuto il 20.10.2017, fossero stati consegnati all’amministratore COGNOME affinché li portasse presso il nuovo commercialista, individuato dai COGNOME, in sostituzione del COGNOME, proprio nei mesi antecedenti al fallimento della RAGIONE_SOCIALE
Indi, il ricorso per cassazione, pur ammettendo la inverosimiglianza della giustificazione addotta dal COGNOME in ordine alla dispersione delle scritture contabili – che sarebbero, a suo dire, andate distrutte a seguito dell’allagamento della cantina ove le aveva riposte – dissente dalla ricostruzione svolta dai giudici di merito che avrebbero, in buona sostanza, fondato il coinvolgimento del COGNOME nella scomparsa delle scritture contabili sul mero dato della ravvisata inattendibilità della versione resa dal COGNOME, come se da essa potesse inferirsi che i documenti contabili fossero rimasti nella disponibilità del COGNOME e che sarebbe stato quindi quest’ultimo l’artefice della loro sparizione.
In altri termini, si evidenzia in ricorso come l’inverosimiglianza della perdita dei documenti a causa dell’allagamento subito non infici minimamente la ricostruzione storica relativa alla precedente consegna delle scritture dallo studio
COGNOME al COGNOME, come attestata dalle testimoni COGNOME e COGNOME all’epoca dei fatti dipendenti dello studio COGNOME.
Era dunque alla luce di tali testimonianze, e delle altre emergenze e considerazioni indicate nell’atto di appello (che tendono peraltro a circoscrivere il compito del COGNOME ai soli adempimenti fiscali, tenendolo fuori dalla tenuta della contabilità vera e propria, curata presso l’ufficio contabilità della società, e a maggior ragione da quella a nero che sarebbe stata tenuta sempre e solo da dipendenti della società), che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare il ruolo del COGNOME nella vicenda della mancata consegna delle scritture contabili al curatore della RAGIONE_SOCIALE oltre che la sua posizione in relazione alla condotta di falsificazione delle scritture contabili vere e proprie, verificando anche quali fossero le effettive incombenze del COGNOME al riguardo.
Non potrebbe, infatti, essere sufficiente che egli fosse al corrente dei prelievi a nero effettuati dai COGNOME e tracciati attraverso la doppia contabilità – doppia contabilità che, come sembra emerso, sarebbe stata tenuta, anch’essa, presso la società e non dal COGNOME. Tale consapevolezza potrebbe ciò nondimeno rilevare come si annota nella pronuncia impugnata – ai fini della valutazione della posizione del COGNOME quale soggetto non affatto avulso rispetto alle effettive dinamiche sottostanti alle vicende societarie, alle quali potrebbe avere comunque preso parte, non solo attraverso i ruoli formali e/o di fatto rivestiti, ma, in alcuni casi, anche mediante il sostegno derivante dalla sue competenze tecniche (le quali vengono peraltro in luce proprio in occasione del fallimento della RAGIONE_SOCIALE, in cui sembra avere affiancato l’amministratore formale, COGNOME nell’interlocuzione con gli organi della procedura fallimentare). Ruoli che, secondo quanto conclude la Corte di appello, sia pure in maniera sintetica e senza confrontarsi con tutto il resto, lo ponevano come ‘il soggetto che sovrintende agli interessi economici della famiglia COGNOME asservendo la sua competenza professionale ad obbiettivi di illecita spoliazione delle società’ (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata).
Pure a voler ritenere fondata tale impostazione di fondo, nulla si dice però sui riflessi specifici della posizione dell’imputato rispetto alla vicenda della sparizione delle scritture contabili relative al fallimento della RAGIONE_SOCIALE, che vede direttamente coinvolta un’altra persona, COGNOME
E’ evidente che non può essere sufficiente il riferimento all’inerzia che COGNOME avrebbe serbato a fronte dei comportamenti illeciti dei COGNOME – operato dalla Corte di merito a pag. 8, a conclusione della scarna valutazione svolta riguardo al reato di cui al capo 3 – se poi non si verifica il peso specifico che quell’inerzia – e più in generale il ruolo assunto dal COGNOME rispetto alle società dei COGNOME – può avere avuto rispetto alla vicenda in argomento, che, si
rammenta, è stata in primo grado ascritta al COGNOME sotto il profilo della sparizione dei documenti contabili e contestata con l’atto di appello anche riguardo all’elemento soggettivo, del dolo specifico, facendosi rilevare come coloro che avevano interesse alla scomparsa delle scritture contabili fossero unicamente i COGNOME.
Nessuna risposta adeguata e specifica si registra al riguardo nella sentenza impugnata che vieppiù s’imponeva a fronte della deduzione difensiva, supportata da riferimenti testimoniali, del tutto trascurati dai giudici di merito, secondo cui le scritture detenute dal COGNOME furono, prima del fallimento, consegnate all’amministratore COGNOME (il contributo del COGNOME dovrebbe pertanto essere consistito in un suo coinvolgimento nella preordinazione della sparizione).
Ruolo/contributo del COGNOME che andrà comunque valutato, anche in relazione alla vicenda in argomento, confrontandosi con tutte le risultanze istruttorie e senza, per altro verso, trascurare, da un lato, il contesto complessivo connotato dal chiaro collegamento esistente tra le varie società dei COGNOME e, dall’altro, i ruoli diversificati svolti dal COGNOME rispetto ad esse, anche attraverso altre società a lui in qualche modo riconducibili, che partecipavano a loro volta a quelle dei COGNOME (così per la RAGIONE_SOCIALE della quale COGNOME fu amministratore dal 1995 al 2010 e successivamente liquidatore, società a sua volta socio unico della fallita RAGIONE_SOCIALE dal 4.2.2005, che diede anch’essa in affitto la sua azienda alla RAGIONE_SOCIALE nel medesimo arco temporale in cui la RAGIONE_SOCIALE ricevette in affitto l’azienda dalla Riviera; così anche per la RAGIONE_SOCIALE, di cui COGNOME fu sindaco effettivo, società partecipante al 50% della RAGIONE_SOCIALE e quindi della fallita RAGIONE_SOCIALE in via indiretta).
1.4. Quanto alla imputazione di bancarotta impropria per operazioni dolose di cui al capo 5, per mancato pagamento, da parte della RAGIONE_SOCIALE, dei canoni di affitto dovuti in virtù di contratto di affitto di azienda stipulato nel 2008 con la RAGIONE_SOCIALEr.lRAGIONE_SOCIALE, si deve in premessa annotare come essa risulti in effetti una ‘costola’ della contestazione di cui al capo 4, ove la bancarotta impropria per mancato pagamento sistematico di debiti della RAGIONE_SOCIALE è stato ascritto in relazione a diverse altre passività insolute della società (ivi comprese le inadempienze tributarie e i mancati pagamenti dei canoni alla RAGIONE_SOCIALE).
Per tale imputazione vi è stata, in primo grado, pronuncia di assoluzione del COGNOME (sul presupposto che mentre per il mancato pagamento dei canoni alla Gros Riviera si potesse riconoscere il ruolo/coinvolgimento diretto del COGNOME, quale amministratore della Gros che non procedeva dal suo canto a chiedere il pagamento dei canoni, per l’inadempimento degli altri debiti di cui al capo 4 dell’imputazione non si potesse, invece, allo stesso modo ravvisare un
coinvolgimento del COGNOME che rispetto alla COGNOME sarebbe solo il consulente. Con la conseguenza che il mancato pagamento in tal caso fosse da ascrivere – in mancanza di una prova certa rispetto al COGNOME – unicamente ai COGNOME, essendo peraltro emerso – come si riporta a pag. 69 della sentenza di primo grado – che il COGNOME inviava regolarmente le intimazioni di pagamento all’ufficio contabilità della fallita i cui addetti le giravano ai fratelli COGNOME, i quali disponevano puntualmente di accantonarle).
Di là della singolarità di una tale estrapolazione – forse giustificata proprio dalla necessità di valorizzare il dato del coinvolgimento diretto del COGNOME rispetto alla Gros Riviera – si deve rilevare la particolarità anche della stessa ricostruzione in diritto della fattispecie, che, come evidenzia la difesa, non può prescindere dal fatto che il credito per canoni di affitto scaduti non sembrerebbe essere mai stato azionato da parte della creditrice Gros Riviera nei confronti dell’affittuaria, debitrice, RAGIONE_SOCIALE, né tanto meno insinuato al passivo del fallimento della RAGIONE_SOCIALE una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento di tale società.
Anche in tal caso si delinea sullo sfondo l’accordo tra le parti, a cui evidentemente non rimase estraneo il COGNOME, quale amministratore della COGNOME (che, peraltro, secondo la ricostruzione dei primi giudici, sebbene non vi avesse preso parte, era comunque a conoscenza dell’inadempimento degli altri debiti da parte dei COGNOME).
Ma il punto, in relazione a tale vicenda, è un altro.
Ed infatti, a fronte di ciò, la difesa coi motivi di appello aveva evidenziato come l’omesso pagamento dei canoni dovuti dalla Sogeri alla Gros Riviera non avesse arrecato alcun danno alla prima e non avesse neppure minimamente contribuito ad aggravarne il dissesto, non essendo stati, tali canoni, mai pretesi dalla Gros neppure dopo la dichiarazione di fallimento della Sogeri (così mancando, in tesi difensiva, lo stesso elemento oggettivo del reato e relativo nesso causale).
La sentenza impugnata, invece di rispondere a tale doglianza, finisce per analizzare l’elemento soggettivo della condotta del COGNOME -che, quale “consigliere” a 360° dei COGNOME, in ragione della pluralità dei ruoli da lui ricoperti (liquidatore della “RAGIONE_SOCIALE” e consulente fiscale della “RAGIONE_SOCIALE“) avrebbe agito con il dolo di voler, da un lato, dissipare un bene della “RAGIONE_SOCIALE in liq.” e, dall’altro, aggravare il dissesto della “RAGIONE_SOCIALE” – senza tuttavia minimamente motivare in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, primariamente messo in discussione con l’impugnazione.
L’unica motivazione fornita sulla sussistenza di un danno a discapito della SOGERI, si rinviene a fine pag. 9 della sentenza, ove la Corte d’appello afferma:
“Occorre infatti sottolineare la differenza giuridica che esiste fra il risparmio e l’inadempimento. Tale omissione espone la debitrice ad azioni civili e risarcitorie e, quindi, non è sostenibile che l’inadempimento si era risolto in un vantaggio per SOGERI”.
La Corte dimentica, però, come efficacemente si sottolinea in ricorso, di indicare in quale modo l’inadempimento, sia pure sistematico, si sia nel caso concreto -caratterizzato, come sottolinea la stessa sentenza impugnata, dall’esistenza di un accordo, a monte, tra le parti di non chiedere il pagamento dei canoni – risolto in un fattore idoneo ad incidere sul fallimento della RAGIONE_SOCIALE, quanto meno aggravando il dissesto che poi la portò appunto al fallimento.
Tali potenziali azioni civili risarcitorie – si sottolinea inoltre in ricorso avrebbero dovuto essere attivate dallo stesso COGNOME quale liquidatore della RAGIONE_SOCIALE, nonché, liquidatore di fatto della RAGIONE_SOCIALE – il cui socio unico era stato la stessa RAGIONE_SOCIALE – e la mancata attivazione delle stesse sarebbero già valse, per altro verso, allo stesso la condanna per il concorso nella bancarotta dissipatoria in relazione alla società RAGIONE_SOCIALE (capo 2).
Tale aspetto, tuttavia, non rileva ai fini della configurazione della bancarotta impropria di cui al capo 5, oggetto di disamina, dal momento che, a rigore, ben possono coesistere, in astratto, i contributi assegnati al Gelormini rispetto alla vicenda dissipativa sub capo 2 relativa alla RAGIONE_SOCIALE – a cui avrebbe concorso non provvedendo a riscuotere i canoni di affitto dalla Sogeri – e a quella di bancarotta impropria per omesso pagamento dei canoni dovuti alla Gros Riviera da parte della Sogeri, di cui al capo 5. Sicché il rilievo che la difesa poi sviluppa sulla base di tale asserita incompatibilità è destituito di fondamento.
Si tratta piuttosto di rispondere al principale quesito posto dalla difesa col motivo in scrutinio, riassunto infine nei seguenti termini in ricorso: ‘Se, poi, addirittura, il disegno criminoso suggerito dal COGNOME sarebbe stato originariamente architettato a svantaggio della società RAGIONE_SOCIALE e se addirittura, a posteriori, la RAGIONE_SOCIALE non ha attivato azioni civili risarcitorie e non si è nemmeno insinuata al passivo fallimentare della RAGIONE_SOCIALE, ecco allora che appare di tutta evidenza come l’operazione contestata non abbia minimamente aggravato e provocato il debito di tale ultima società.
Ed invece, la sentenza impugnata, quasi a voler colpire la condotta del COGNOME per il suo contegno morale, ne afferma la penale responsabilità in ragione della pluralità dei ruoli da lui assunti nel panorama delle società riferibili ai fratelli COGNOME, con una superfetazione accusatoria non giustificata e non giustificabile, da un’analisi serena delle condotte tenute dall’imputato: il danno,
non soltanto non si è mai realizzato, ma, addirittura, non vi è mai stato neanche il pericolo che lo stesso si realizzasse.
Tale risposta – che presuppone una compiuta analisi delle emergenze processuali risultanti al riguardo – s’impone da parte del giudice del rinvio, tenuto conto di quelli che sono i principi dettati da questa Corte in tema di bancarotta impropria per operazioni dolose.
Se è vero, infatti, che, ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (da ultimo, Sez. 5, Sentenza n. 16111 del 08/02/2024, Rv. 286349 – 01), è altrettanto vero che sul piano oggettivo rileva l’incidenza delle operazioni dolose rispetto al dissesto, o al suo aggravamento, e al fallimento che ne è conseguito.
Come ha avuto modo di affermare questa Corte, la fattispecie di dissesto cagionato da operazioni dolose, prevista dall’art. 223, comma secondo, n. 2, legge fall., presuppone – pur sempre – una modalità di pregiudizio patrimoniale, sia pure discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, ma da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Rv. 279071 – 01).
A differenza dalla bancarotta fraudolenta patrimoniale, che postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari, tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia avvenuto, nella bancarotta impropria cagionata da operazioni dolose, le condotte dolose, che non necessariamente costituiscono distrazione o dissipazione di attività, devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ciò che rileva, ai fini della bancarotta fraudolenta, non è, dunque, l’immediato depauperamento della società, bensì la creazione, o l’aggravamento, di una situazione di dissesto economico che, prevedibilmente, condurrà al fallimento della società.
Come ha già avuto modo di precisare, Sez. 5, n. 22765 del 18.2.2021, si tratta di reato a forma libera, integrato da condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri rispettivamente imposti ai soggetti indicati dalla legge, nel quale il fallimento è evento di danno, e si ritiene che la fattispecie si realizza non solo quando la situazione di dissesto trovi la sua causa nelle condotte o operazioni dolose ma anche quando esse abbiano aggravato la situazione di dissesto che costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento (cfr. altresì,
Sez. 5, n. 40998, 20 maggio 2014, Rv. 262189, nella quale si è affermato che “non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod. pen., né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica e implica un fenomeno in sé reversibile”, Conf. Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, Rv. 259051; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247316; Sez. 5 n. 19806 del 28/02/2003, Rv. 224947).
Consegue che, ove si versi nel caso di una scelta gestionale a monte tesa al mancato pagamento, sistematico, di un debito che trova conforto nell’appoggio del creditore consistito nell’assicurare la mancata riscossione del credito, non si può escludere, in astratto, a priori , la configurabilità del reato di bancarotta impropria per operazioni dolose, ben potendo, nel tempo, mutare il creditore – sia che esso sia una persona fisica o come nel caso di specie una società i cui componenti e/o amministratore possono sempre cambiare – e quindi la decisione iniziale di non escutere il debitore evolvere in richiesta di pagamento aggravante il dissesto.
Tuttavia, allorquando la vicenda si è poi concretamente dipanata, mantenendo le parti costanti nel tempo i rispettivi originari impegni comportamentali rispettivamente di inadempimento e di mancata richiesta di pagamento – si deve verificare se tali impegni abbiano, comunque, in qualche modo inciso sul dissesto che condusse al fallimento, perché in caso negativo non sarà configurabile l’elemento oggettivo del reato. Nel caso di specie sembrerebbe che la COGNOME, in virtù dell’accordo iniziale, non abbia mai neppure tentato di riscuotere il suo credito e non si sia neppure insinuata nel fallimento della RAGIONE_SOCIALE. Trattasi di circostanze di indubbio rilievo ai fini che occupano, perché ove il debito accumulato dalla RAGIONE_SOCIALE per il mancato pagamento dei canoni alla Gros fosse sorto e rimasto, come assume la difesa, come debito esistente solo sulla carta, si tratterebbe di verificare in che termini, esso, nonostante tale sua connotazione, abbia potuto incidere sul dissesto della società e quindi contribuire al fallimento.
1.5. Anche il quinto motivo di ricorso relativo alla bancarotta fraudolenta patrimoniale distrattiva, contestata al capo 9 dell’imputazione ed ascritta, nella pronuncia di primo grado, a Gelormini limitatamente alle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, è fondato.
Quanto ad essa si deve innanzitutto richiamare quanto già esposto con riferimento alla bancarotta fraudolenta documentale relativa alla RAGIONE_SOCIALE, di cui al capo 3 dell’imputazione, involgendo la condotta distrattiva sub capo 9 aspetti
afferenti la tenuta delle scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE di cui si è già sopra detto trattando, appunto, le censure inerenti al capo 3.
La lacunosità delle risposte fornite in relazione ai motivi di appello articolati con riferimento al capo 3, si ripercuote sulla ricostruzione della fattispecie di cui al capo 9, trattandosi di stabilire, innanzitutto, il ruolo svolto dal COGNOME rispetto alla contabilità della RAGIONE_SOCIALE, oltre che della Riviera (per quest’ultima vi è stato parimenti l’annullamento della sentenza impugnata per vizi motivazionali in relazione al capo 1 avente ad oggetto la bancarotta fraudolenta documentale relativa al fallimento RAGIONE_SOCIALE.
Coi motivi di appello, specificamente articolati in relazione al capo 9, si era come si espone in ricorso – in particolare chiesto di assolvere l’imputato dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione di cui al capo 9, evidenziando, innanzitutto, che, contrariamente a quanto indicato nella sentenza di primo grado, nessuna distrazione di denaro poteva essere stata realizzata dalle casse della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione per la semplice circostanza che tale società (diversamente da altre riconducibili ai NUNZIATA) non aveva rapporti con il pubblico e, quindi, non aveva entrate di cassa correnti (la RAGIONE_SOCIALE, secondo la prospettazione difensiva, era titolare del laboratorio di pasticceria ad esclusivo servizio della stessa RAGIONE_SOCIALE); che l’unica società ove compariva anche la figura del COGNOME, dalla quale furono indebitamente prelevati soldi dalle casse sociali, e per la quale era astrattamente ipotizzabile un concorso dello stesso, era, quindi, la RAGIONE_SOCIALE ove tuttavia egli rivestiva esclusivamente il ruolo di consulente contabile; che per il fallimento della RAGIONE_SOCIALE lo stesso Tribunale aveva escluso ogni responsabilità del COGNOME (vedi assoluzione dai capi 4 e 6) per i fatti di bancarotta impropria e preferenziale, perché la decisione di non pagare le imposte e di pagare alcuni fornitori invece di altri “attengono strettamente la fase operativa e gestionale, che rimanda a decisioni dirette (ed esclusive) dei membri della famiglia COGNOME.
Indi aveva concluso la difesa che coerentemente il Tribunale avrebbe dovuto assolvere COGNOME anche dal reato di cui al capo 9, perché egli non poté fornire alcun contributo causale alla scelta degli imprenditori di prelevare denaro dalle casse societarie.
La semplice conoscenza da parte dell’odierno ricorrente della gestione personalistica che i NUNZIATA facevano della cassa sociale della RAGIONE_SOCIALE non imponeva al RAGIONE_SOCIALE alcun obbligo di segnalazione e/o denunzia degli stessi alle autorità giudiziarie, ricoprendo egli un ruolo di mero consulente contabile.
Per giustificare un contributo causale quale consulente contabile della “RAGIONE_SOCIALE – proseguiva l’atto di appello – il Tribunale, invece, sarebbe
arrivato ad ipotizzare il concorso del COGNOME nella consumazione di reati tributari (non contestati) e/o operazioni di alterazioni contabili, senza notare che gli episodi, riferiti dalle sorelle COGNOME, in ordine all’utilizzo di false fatture, riguardavano altro consulente contabile, tale dott. COGNOME nonché, riguardavano altre e diverse società del gruppo (“RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“), per le quali il COGNOME non aveva prestato alcuna attività consulenziale né assunto alcun ruolo formale.
Si era altresì posto in evidenza che, quanto al supposto contributo che il ricorrente avrebbe fornito nella tenuta di una contabilità apparentemente corretta, non era, invece, emersa alcuna prova che l’imputato avesse fatto alchimie ed avesse artatamente modificato le risultanze contabili della ‘RAGIONE_SOCIALE“. Ed anzi, sarebbe stato provato che COGNOME (il cui lavoro sarebbe stato a carattere esclusivamente fiscale per il calcolo delle imposte dovute e la elaborazione dei modelli F24 per il pagamento delle stesse – f24 inviati con puntualità ma spesso non pagati da parte dei NUNZIATA) comunicava ai NUNZIATA tutte le considerevoli imposte da pagare sulla base della contabilità ufficiale da lui tenuta (l’unica a sua conoscenza). E quindi egli, sempre secondo la prospettiva difensiva tradotta nell’atto di appello, non avrebbe avuto alcuna necessità di alterare la contabilità; infatti, nessun bilancio della “RAGIONE_SOCIALE” sarebbe mai stato approvato dai Nunziata e nessun concorso sarebbe ipotizzabile da parte dell’odierno ricorrente nella tenuta di una seconda contabilità “a nero”, che, come riferito dalle sorelle COGNOME (dipendenti amministrative interne delle società dei Nunziata), veniva conservata da queste ultime e serviva internamente a giustificare fra i fratelli COGNOME tutti gli ammanchi di cassa. I COGNOME non si erano mai preoccupati di avere una “veste formale ineccepibile” sotto il profilo della corretta tenuta delle scritture contabili ed infatti non avevano mai approvato i bilanci della RAGIONE_SOCIALE anche perché probabilmente non avrebbero saputo giustificare gli ammanchi di cassa.
Indi, aveva evidenziato la difesa che, se veramente COGNOME avesse contribuito alla realizzazione e tenuta di una contabilità apparentemente attendibile, nessuno avrebbe avuto l’interesse e la necessità di occultare e/o distruggere le scritture contabili della Sogeri che, invece, non sono mai state rinvenute.
Si era quindi concluso nell’atto di appello che andava escluso ogni contributo causale del COGNOME tale da rafforzare le determinazioni criminose dei NUNZIATA.
Ebbene, nonostante tali puntuali obiezioni, che si combinano con quelle già svolte riguardo all’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo 3, rimaste parimenti non adeguatamente valutate, la Corte di appello, come
stigmatizza il ricorso, ha ritenuto di confermare la sentenza di condanna sulla base del presunto contributo fornito dall’imputato che, “chiamato a rendere una rappresentazione contabile formalmente corretta” … “approntando una veste formale ineccepibile per la doppia contabilità della società”… “rafforzava la determinazione criminosa dei germani NUNZIATA “.
Per tutto quanto sopra osservato s’impone l’annullamento della sentenza impugnata anche in relazione al capo 9) d’imputazione.
E’ il caso, infine, di precisare che l’eventuale annullamento della sentenza di condanna per il capo 9) comporta il venir meno di ogni motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante del danno di rilevante entità previsto dall’art. 219 legge fallimentare, come correttamente ha evidenziato la difesa al riguardo.
1.6. Quanto al sesto motivo sul diniego delle attenuanti generiche, esso rimane assorbito, stante l’intervenuto totale annullamento della sentenza impugnata.
2.Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME.
Esso è parimenti fondato.
Non possono che valere anche con riferimento alla posizione del COGNOME tutte le considerazioni già svolte nell’affrontare, con riferimento al COGNOME, l’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo 1; l’unico residuato in capo al ricorrente. Anzi, tenuto conto del ruolo solo formale a questi attribuito, vieppiù si imponevano, e si impongono quindi, in relazione alla posizione del COGNOME le precisazioni sopra indicate rispetto a COGNOME.
Sulla base di esse si dovrà verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente, che il ricorso contesta soprattutto sotto il profilo della prova della ‘sua concreta consapevolezza, contro ogni ragionevole dubbio, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto’, soprattutto in ordine al fatto che le scritture contabili erano state tenute dal liquidatore di fatto e ‘consigliere’ COGNOME e presso lo studio di questi anche attraverso i suoi collaboratori (tra i quali non vi era pacificamente il COGNOME) ‘in tale modo da impedire la ricostruzione del movimento degli affari’.
Si tratterà quindi di stabilire innanzitutto il ruolo avuto dal COGNOME nella vicenda – che tuttavia non sembra essersi risolto, alla stregua delle stesse dichiarazioni dal medesimo rese, come riportate dai giudici di merito, in un ruolo del tutto avulso rispetto alle vicende societarie ovvero tale da farlo assurgere a testa di legno rimasta estranea e totalmente al di fuori di tutto – tenendo conto anche delle interazioni del suo agire con quello del COGNOME.
Fermo restando che i parametri interpretativi richiamati nella sentenza impugnata, correttamente tratti dai principi affermati da questa Corte in tema di responsabilità penale per il reato di bancarotta fraudolenta documentale dell’amministratore meramente formale, conservano ovviamente la loro validità, con la conseguenza che la valutazione che il giudice del rinvio è chiamato a ripetere dovrà muoversi negli ambiti già tracciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia.
Si deve al riguardo, in particolare, ribadire che in tema di bancarotta fraudolenta documentale cd ‘generica’, per la sussistenza del dolo dell’amministratore solo formale non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l’abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell’alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono (Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021, Rv. 282280 – 01). Nello stesso senso Sez. 5, Sentenza n. 32413 del 24/09/2020, Rv. 279831-01, ha chiarito che, in tema di reati fallimentari, è sufficiente ad integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, dell’amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto.
Fondamentale è dunque la ricostruzione del contesto in cui si inserisce la nomina dell’amministratore/liquidatore meramente formale, dell’evoluzione che esso ha avuto anche in virtù di tale subentro, oltre che delle ragioni del ricorso ad una tale investitura – sia dal punto di vista del soggetto che l’ha accettata, che, soprattutto, del soggetto o dei soggetti che l’hanno promossa. Tale analisi vieppiù approfondita sarà allorquando si tratta di ragionare in termini di dolo specifico.
Ciò, affinché possa affiorare l’eventuale contributo volontario e consapevole della cd. testa di legno, se non addirittura supportato dalle specifiche finalità richieste in caso di bancarotta fraudolenta documentale cd. specifica.
Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che vorrà, nella valutazione chiamata a compiere, attenersi ai principii di diritto sopra enunciati.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.
Così deciso il 13/03/2025.
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME