Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 5232 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 5232 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a BRESCIA il 17/04/1952
avverso la sentenza del 28/02/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME che ha concluso chiedendo
udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Brescia confermava la sentenza con cui in data 12.3.2021, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Brescia, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato COGNOME NOMECOGNOME in qualità di amministratore unico della società RAGIONE_SOCIALE, esercente attività di commercio di articoli di abbigliamento e calzature, dichiarata fallita dal tribunale di Brescia in data 7.3.2017, alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta impropria da falso in bilancio e di bancarotta semplice per non avere richiesto la dichiarazione di fallimento aggravando il dissesto della società, a lei ascritti nei capi 1) e 2) dell’imputazione.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, lamentando: 1) violazione di legge in relazione al reato di bancarotta impropria da falso in bilancio, posto che, nel caso in esame, non sussiste un aggravamento del dissesto causalmente derivante dalla falsificazione dei bilanci, in quanto lo stato di dissesto si era già verificato prima dell’esecuzione delle pretese falsificazioni, con cui, giova ricordare, si celava la reale notevole esposizione debitoria della società, senza creare nuove poste debitorie, riducendo, piuttosto, quelle già presenti, salvo l’ineluttabile aumento degli interessi, che comunque si è ripercosso sulle diminuite poste debitorie. In altri termini, osserva la ricorrente richiamando le conclusioni cui è pervenuto il consulente della difesa, l’insolvenza, al momento delle contestate “alchimie contabili” si era già consolidata in precedenza, per cui non poteva essere né causata, né direttamente aggravata dalle annotazioni in questione, che hanno effettivamente rappresentato la realtà in modo edulcorato, ma solo allo scopo di consentire alla società la possibilità, altrimenti preclusa, di continuare la sua attività fino alla liquidazione, attività che non ha portato ai risultati sperati, a causa del venir meno degli accordi con il fornitore “RAGIONE_SOCIALE“, ma che nella migliore delle ipotesi avrebbe interamente coperto il pregresso deficit patrimoniale; 2) vizio di
motivazione, in punto di travisamento della prova, in relazione alla deposizione resa dalla curatrice fallimentare nel giudizio di primo grado, che, incalzata dalla difesa, ha dovuto ammettere che la causa civile di abuso di dipendenza economica, per abuso di posizione dominante, iniziata dalla società fallita contro il fornitore “RAGIONE_SOCIALE” vizio di motivazione in punto di valutazione della deposizione della curatrice fallimentare-travisamento della prova. In definitiva insiste sempre sullo stesso tasto: tutto è addebitabile alla Benetton, che ha determinato la situazione di crisi e che ha indotto l’imputata a quelle alchimie contabili che hanno malamente riportato il contenuto degli accordi presi con il fornitore, che era a conoscenza delle reali condizioni della società, mentre le banche hanno ridotto gli affidamenti. Non è stata considerata la sentenza di primo grado che ha assolto per mancanza di dolo l’imputata dal mancato versamento dell’I.V.A. causato da una situazione di crisi economica non a lei addebitabile, ma causata dalle scelte della RAGIONE_SOCIALE ben istrú’i 2 ta e volta a ottenere il risarcimento del danno causato dal reale mancato rispetto da parte del principale fornitore della fallita degli accordi che hanno determinato le presunte falsità contabili, dando conto, inoltre, del fatto che tali falsità possono ben essere state indotte proprio dalle scorrettezze continue della “RAGIONE_SOCIALE“, che hanno verosimilmente portato la fallita a rappresentare nelle scritture contabili i predetti accordi in modo errato, il che spiega la ragione per cui la curatrice nella relazione ex art. 33, I.fall., non avesse rinvenuto tra le cause del dissesto le false comunicazioni sociali di cui si discute. La corte territoriale, rileva la ricorrente, non solo ha frainteso le critiche svolte nell’atto di appello in ordine alle modalità con cui si è svolta la deposizione della curatrice fallimentare, ma, soprattutto ha omesso di considerare, da un lato, che le contestate “alchimie contabili”, pur stigmatizzabili dal punto di vista ragionieristico, non hanno rappresentato falsamente la realtà, ma hanno reso, a tutto voler concedere, una prospettiva distorta rispetto ad accadimenti commerciali rilevanti ed esistenti; dall’altro, è stata la stessa curatrice fallimentare
ad affermare in contraddittorio tra le parti che le pratiche scorrette della “RAGIONE_SOCIALE” potrebbero aver influito non solo sul dissesto, ma anche sull’erronea contabilizzazione delle false comunicazioni sociali.
Senza tacere che la corte territoriale ha omesso di valutare un ulteriore dato di notevole importanza, puntualmente rappresentato nell’atto di appello, costituito dalla sentenza resa il 13.6.2018 dal tribunale di Brescia passata in giudicato, con cui l’imputata è stata assolta dal reato di omesso versamento di ritenute d’acconto perché il fatto non costituisce reato, individuandosi la ragione di tale assoluzione nella ritenuta incolpevole crisi di liquidità, causata dalle condotte della “Benetton”, che hanno portato agli atti di ritenuta falsificazione di bilancio.
2.1. Con requisitoria scritta del 7.10.2024, da valere come memoria essendo stata chiesta, nelle more, la trattazione in forma orale del ricorso, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, dott. NOME COGNOME chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
2.2. Con memoria del 15.10.2024, il difensore di fiducia dell’imputata, per un verso deduce la nullità dell’intero procedimento di cassazione, ai sensi dell’art. 178, lett. c), c.p.p., eccependo di non aver ricevuto la requisitoria scritta del sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, nonostante l’avvenuto pagamento dei relativi diritti di cancelleria per il rilascio delle copie degli atti processuali, in tempo utile per svolgere una memoria ex art. 611, co. 1, c.p.p.; per altro verso eccepisce, con motivo nuovo, l’estinzione, per compiuto decorso del relativo termine massimo di prescrizione alla dfata del 7.9.2024, del concorrente reato di bancarotta semplice, di cui al capo 2), con conseguente caducazione della circostanza aggravante della cd. continuazione fallimentare.
Infine con memoria del 24.10.2024, il medesimo difensore nel replicare alla menzionata requisitoria del pubblico ministero, insisteva per l’accoglimento delle proprie doglianze.
Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da motivi, in parte infondati, in parte inammissibili.
Infondata è l’eccezione di nullità dell’intero procedimento innanzi alla Corte di Cassazione per mancato inoltro della requisitoria scritta del sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione.
Al riguardo sarebbe sufficiente evidenziare come l’attuale formulazione dell’art. 611, c.p.p., applicabile al caso in esame come riconosciuto dalla stessa ricorrente (cfr. p. 1 della memoria del 15.10.2024) non prevede alcun obbligo di comunicazione al difensore delle richieste formulate dal procuratore generale, sicché nessuna nullità è configurabile per il mancato assolvimento di un obbligo di comunicazione che, in realtà, non è previsto dall’attuale ordinamento processuale penale.
Sotto diverso profilo non può non rilevarsi che, in ogni caso, il difensore dell’imputata, con memoria di replica del 24.10.2024, ha puntualmente replicato al contenuto della requisitoria a firma del sostituto procuratore generale della Repubblica del 7.10.2024, sicché appare evidente che nessuna lesione del diritto di difesa appare configurabile in quanto l’imputata, a mezzo del suo difensore, ha avuto non solo la possibilità di replicare alle osservazioni del pubblico ministero, ma di tale possibilità si è avvalsa in concreto.
Va, inoltre, sottolineato, a ulteriore conferma della mancanza di un obbligo di comunicazione della requisitoria del pubblico ministero, che con provvedimento organizzativo della Prima Presidente del 9.10.2024 si è stabilito che “con riguardo alle modalità di comunicazione alle parti delle requisitorie, delle memorie, delle note d’udienza, si è convenuto che il personale di cancelleria comunichi ai difensori delle parti l’avvenuto deposito in cancelleria di tali tipologie di atti e che sia onere del difensore richiedere l’invio di copia dell’atto stesso, previo pagamento dei diritti di cancelleria”.
Resta al di fuori della competenza di questa Corte nella presente sede la questione del pagamento dei diritti di Cancelleria per ottenere il rilascio
della copia dell’indicata requisitoria, che, in via generale, trova la sua giustificazione nella previsione generale di cui all’art. 116, co. 1, c.p.p. 5. Infondato appare il secondo motivo di ricorso.
Al riguardo si osserva che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo un condivisibile orientamento, integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Rv. 261759; Sez. 5, n. 1754 del 20/09/2021, Rv. 282537; Sez. 5, n. 28508 del 12/04/2013, Rv. 255575).
Orbene i giudici di merito (le sentenze di primo e di secondo grado vanno lette congiuntamente, costituendo esse un unico complessivo corpo decisionale, in quanto la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado: cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 37295 del 12.6.2019, Rv. 277218), hanno reso una motivazione del tutto conforme a tali principi.
Partendo infatti dalla constatazione, da un lato, che nel 2011 il bilancio era stato corretto apportando una riduzione artificiosa dei debiti e dei costi per euro 2.234.000,00, attraverso la creazione di un inesistente credito verso terzi fornitori, senza la quale sarebbe emersa una perdita di euro 2.106.020, con conseguente azzeramento del capitale sociale; dall’altro, che nel 2012 il bilancio era stato corretto apportando ricavi non corrispondenti alla realtà, pari ad euro 1.000.000,00, in tal modo mascherando una perdita di euro 906.427, i giudici di merito hanno evidenziato, con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica, come l’occultamento del conclamato stato di dissesto della società fallita, reso possibile dalla mancata indicazione in bilancio dei debiti maturati e delle perdite subite, abbia indotto i creditori a confidare nello stato di salute della società, consentendole di ottenere nuove forniture di merce e di
continuare ad avvalersi degli importanti finanziamenti bancari già concessi, anche se in diminuzione rispetto agli anni 2011 e 2012, attestandosi a poco oltre i 3.100.000,00 euro nel settembre del 2014.
L’indebita prosecuzione dell’attività, in presenza di una situazione di insolvenza manifestatasi già nel 2011, come sottolineato dal curatore fallimentare, aveva comportato un incremento del debito per euro 5.154.551,00 fino al 2015 e per euro 6.087.706,00, fino alla dichiarazione di fallimento, ripartito tra il debito verso le banche (pari a euro 2.238.257,00); i debiti tributari (pari ad euro 1.722.816) e verso i fornitori (pari a euro 669.081) (cfr. pp. 3-7 della sentenza di secondo grado).
Quale che sia la ragione alla base di tale occultamento, non è revocabile in dubbio che si tratti di una rappresentazione di dati non veritieri effettuata per consentire fa prosecuzione dell’attività di impresa, come in definitiva riconosce la stessa ricorrente, apparendo al riguardo del tutto generica e tale da sollecitare una valutazione di merito, non consentita in questa sede di legittimità, l’assertiva affermazione dell’imputata, secondo cui le contestate falsificazioni non hanno rappresentato falsamente la realtà, ma hanno reso, a tutto voler concedere, una prospettiva distorta rispetto ad accadimenti commerciali rilevanti ed esistenti, con particolare riferimento al rapporto tra la società fallita e il gruppo “RAGIONE_SOCIALE“.
In questa prospettiva appare integrato anche l’elemento soggettivo del reato di cui si discute, che richiede il dolo, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico, correttamente desumibile dall’esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria della società, al fine di ottenere la continuazione dell’attività d’impresa mediante manipolazione dei dati contabili e conseguente falsa rappresentazione della situazione contabile ai creditori e agli organi della procedura (cfr. Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Rv. 274449).
Diversi sono i profili di inammissibilità che inficiano il secondo motivo di ricorso.
La ricorrente, invero, omette di considerare che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso, come quello in esame, di cosiddetta “doppia conforme”, solo nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Rv. 280155), circostanze entrambe non riscontrabili nella fattispecie de qua, posto che il giudice di appello non ha richiamato dati probatori non esaminati dal giudice di primo grado, fondando la sua decisione sulle dichiarazioni rese dalla curatrice fallimentare innanzi al giudice per le indagini preliminari nel contraddittorio delle parti, oggetto di puntuale valutazione da parte di entrambi i giudici di merito, rispetto alle quali la ricorrente propone una diversa lettura.
A tale proposito non può non rilevarsi, sotto altro concorrente profilo, con riferimento all’atto processuale di cui la ricorrente lamenta un’inadeguata valutazione da parte della corte territoriale, come si è detto le dichiarazioni rese dalla curatrice fallimentare, la violazione del principio della cd. autosufficienza del ricorso, per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che deduca vizi di motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga, come nel caso in esame, la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Rv. 256723; Cass., Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Rv. 270071). Siffatta interpretazione va mantenuta ferma, come chiarito da alcuni recenti arresti, anche dopo
l’entrata in vigore dell’art. 165 bis, co. 2, d.lgs 28 luglio 1989, n. 271, inserito dall’art. 7, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, dovendosi ribadire l’onere di puntuale indicazione ed allegazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419; Cass., Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432).
Allo stesso modo va rilevato che la sentenza del 13.6.2018 dal tribunale di Brescia, allegata al ricorso, non contiene l’attestazione del passaggio in giudicato, invocato dalla difesa, senza tacere, peraltro, che l’intervenuta assoluzione della COGNOME dal reato di cui all’art. 10 ter, d.lgs. n. 74 del 2000, con riferimento alla sola annualità 2013, fondata dal giudice di primo grado sull’impossibilità di addebitare all’imputata la crisi di liquidità che aveva determinato il mancato adempimento dell’obbligazione tributaria, non implica di per sé il medesimo esito assolutorio per il delitto di cui all’art. 223, co. 2, n. 1), I.fall., essendo diversi i beni giuridici tutelati dalle rispettive norme incriminatrici, ovvero gli interessi del Fisco, da un lato, e quelli dei creditori, dall’altro.
Inammissibile, infine, appare l’eccezione volta a far valere la sopravvenuta estinzione per prescrizione del reato di bancarotta semplice di cui al capo 2), il cui termine sarebbe perento dopo la pronuncia della sentenza di appello.
Come GLYPH affermato, GLYPH infatti, GLYPH dall’orientamento GLYPH dominante GLYPH nella giurisprudenza di legittimità, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di
appello (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, Rv. 268966; Sez. 6, n. 20525 del 13/04/2022, Rv. 283269; Sez. 3, n. 26807 del 16/03/2023, Rv. 284783).
Orbene nel caso in esame, in relazione al reato di cui al capo 2), si è cristallizzato un giudicato parziale ancora più radicale di quello derivante dall’inammissibilità dei motivi di ricorso, posto che la decisione sul punto della corte territoriale non ha formato oggetto di alcuna censura in sede di ricorso per cassazione, con la conseguenza che risulta preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la pronuncia della sentenza di appello.
Al rigetto del ricorso, segue la condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 31.10.2024.