Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 12157 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 12157 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato il 12/04/1958 a NUORO NOME nato il 24/07/1979 ad ASTI avverso la sentenza in data 14/05/2024 della CORTE DI APPELLO DI BRE-
SCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentita la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME COGNOME che ha concluso per l’inam- missibilità dei ricorsi;
sentito l’Avvocato NOME COGNOME che ha illustrato i motivi d’impugnazione e ha insistito per il loro accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME e NOME COGNOME per il tramite dei rispettivi procuratori speciale e con separati ricorsi, impugnano la sentenza in data 14/05/2024 della Corte di appello di Brescia, che ha parzialmente riformato la sentenza in data 31/05/2023 del Tribunale di Brescia, che li aveva condannati per delitti in materia
fiscale, autoriciclaggio, trasferimento fraudolento, utilizzo indebito di mezzi di pagamento diversi dai contanti. In particolare, la corte di appello ha assolto gli odierni ricorrenti in relazione al reato di cui all’art. 3 decreto legislativo n. 74 del 2000 contestato al capo 4) limitatamente alla dichiarazione IVA 2017 e in relazione al delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. contestato al capo 7, ha assolto COGNOME NOME dal delitto di autoriciclaggio contestato al capo 22 e del reato di cui all’art. 615-ter cod. pen. contestato al capo 51, ha rideterminato la pena e ha ridotto l’importo della confisca.
Va precisato che i ricorsi, pur separati, hanno dei motivi in comune che saranno trattati congiuntamente.
Deducono:
MURA NOME e NOME NOME
In relazione ai delitti fiscali.
1.1. Violazione dell’art. 3, comma 1, lett. f), decreto legislativo n. 74 del 2000 e degli artt. 72, 81 e 83 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917): se i ricavi non dichiarati pareggiano costi legittimi non dedotti, non vi è alcuna imposta indicata in misura inferiore al dovuto.
A tale riguardo osserva che a causa della presenza di pagamenti in nero pacificamente acclarati- si rendeva necessario ridurre il reddito prodotto, al fine di giungere al pagamento della giusta imposta, altrimenti alterata in danno del contribuente, per l’impossibilità di dichiarare i costi inerenti pagati in nero.
Si osserva, dunque, che con tale operazione veniva pagata l’imposta effettivamente dovuta, ove vi fosse stata la corretta dichiarazione dei redditi prodotti e dei costi inerenti.
Da ciò si deduce la mancanza del dolo di evasione fiscale, che va rinvenuto nella volontà di non pagare l’imposta dovuta, con la conseguente insussistenza del fatto.
1.2. I ricorrenti denunciano, in linea subordinata, il vizio di omessa motivazione quanto alla censura ora esposta e dedotta con l’atto di appello, senza che la corte di appello nulla argomentasse al riguardo.
1.3. Ancora in linea subordinata, denunciano il travisamento di un fatto decisivo, perché i pagamenti effettuati erano destinati a sostenere i costi di RAGIONE_SOCIALE e non di società diverse, per come erroneamente ritenuto dalla corte di appello, non considerando che solo questa società era programmista, mentre RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE erano emittenti, così che solo la prima sosteneva costi.
1.4. Sempre in via subordinata si denuncia la manifesta illogicità della motivazione, atteso che vengono contemporaneamente affermati e negati gli stessi costi, così che la sentenza risulta contraddittoria.
1.5. Ancora in subordine, si denuncia l’inosservanza di norma processuale, atteso che la sentenza inverte l’onere della prova, addossando sull’imputato
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l’onere della prova dell’insussistenza del fatto costitutivo del reato, chiedendogli di provare l’entità dei costi.
Ribadisce che non si ha evasione fiscale quando la dichiarazione di minori ricavi sia pareggiata dalla dichiarazione anche di minori costi, e rimarca che è il pubblico ministero che deve provare l’ammontare dell’imposta evasa.
1.6. Inosservanza di norma processuale, in violazione dell’art. 121 cod. proc. pen., nella parte in cui la corte di appello ha ritenuto tardive le allegazioni dell’imputato in ordine alla rilevanza dei costi.
A tale proposito osserva, preliminarmente, che la produzione degli atti non era necessaria, visto che i costi risultavano già in atti e che l’onere della prova è a carico del pubblico ministero.
Aggiunge che, comunque, tali atti erano stati allegati sin dal primo grado; che le memorie e le questioni erano state comunque sviluppate in precedenza, in quanto depositate prima della fine della discussione e riguardavano questioni decisive.
1.7. In ulteriore subordine, si denuncia l’inosservanza di norma processuale, per la violazione dell’art. 190 cod. proc. pen. e dell’art. 109 TUIR, in quanto la corte ha richiesto all’imputato una prova contabile e documentale dei costi, così limitando il suo diritto alla prova, tanto più in violazione dell’art. 109, comma 4, lett. b), del TUIR, che ammette pacificamente la prova libera dei costi non contabilizzati.
1.8. Sempre in subordine, violazione di legge processuale, per la violazione del diritto al silenzio riconosciuto all’imputato, nella parte in cui si pretende da lui l’indicazione dei destinatari dei pagamenti in nero, tanto più che i costi, l’effettività e l’inerenza erano già emersi in atti.
Osserva come tale indicazione avrebbe una portata autoincriminante quanto al concorso nell’altrui evasione fiscale.
1.9. Ancora in subordine, travisamento di un fatto decisivo, là dove la corte di appello afferma che l’imputato avrebbe ammesso che la deduzione dei costi avrebbe mantenuto l’imposta evasa sopra la soglia di punibilità, mentre era stato dedotto l’esatto contrario, deducendo che i costi risultanti in atti andavano scomputati e verificata la discesa del profitto soglia.
1.10. In subordine, ancora, violazione ed erronea applicazione dell’art. 240 cod. pen., là dove la sentenza afferma che l’imposta evasa sarebbe sopra la soglia della punibilità, così risultando irrilevante la determinazione del profitto ai fini della confisca.
In questo caso si precisa che il profitto confiscabile non è quello indicato nell’imputazione, se quello effettivo, minore, è comunque al di sopra della soglia di punibilità, così risultando abnorme l’argomento secondo cui il profitto confiscabile sarebbe comunque quello indicato nell’imputazione.
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MURA NOME
SULLA PARTECIPAZIONE DI NOME COGNOME –
2.1. Violazione dell’art. 2639 cod. civ. in punto di definizione giuridica della qualifica di amministratore di fatto e dell’art. 110 cod. pen..
Si assume che al ricorrente non può essere attribuita la qualifica di amministratore di fatto, mancando i requisiti richiesti dall’art. 2936 cod. civ. così come inteso dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto quegli non è mai stato socio della società RAGIONE_SOCIALE, non mai stato organicamente inserito nella compagine societaria e non ha mai svolto attività gestoria, neanche in maniera episodica.
Vengono illustrate e compendiate le risultanze investigative convergenti nel senso prospettato, così non potendosi configurare il suo concorso nel delitto tributario.
2.2. In subordine, vizio di motivazione in tema di accertamento del concorso di NOME COGNOME nel reato fiscale e della qualità di amministratore di fatto.
A tale proposito, con separati sottoparagrafi:
2.2.1. si assume che la corte di appello ha violato l’art. 192 cod. proc. pen. in quanto non ha colto l’eccezione relativa alla possibilità di ritenere sussistente la figura dell’amministratore di fatto, atteso che la relativa eccezione è stata respinta osservandosi che essa proponeva una lettura parcellizzata del materiale istruttorio;
2.2.2. si assume che “la sentenza confonde in modo illogico e contrario al diritto il carattere possibilmente occulto delle funzioni dell’amministratore di fatto o del concorrente occulto con la non necessità di prova dell’esercizio delle funzioni d i rettive”.
A sostegno dell’assunto vengono compendiate e illustrate la deposizione del Maresciallo COGNOME della Guardia di Finanza e le testimonianze dei dipendenti; viene valorizzata, inoltre, l’esistenza di guadagni leciti che giustificavano la sua ricchezza, così risultando illogica la necessità di nascondersi quale amministratore di TV INNOVATIVE;
2.2.3. si denuncia il vizio di omessa motivazione sulla provata assenza di rapporti tra Mura Francesco e i fornitori.
2.2.4. si denuncia il vizio di omessa motivazione in ordine alle decisive dichiarazioni scagionanti di coimputati e testi, quali COGNOME COGNOME e COGNOME che hanno positivamente escluso le funzioni di amministratore di COGNOME NOME.
2.2.5. si denuncia la manifesta illogicità e l’apparenza della motivazione, oltre che il travisamento del contenuto delle conversazioni intercettate, che vengono compendiate e illustrate, al fine di evidenziare come la corte di appello abbia loro attribuito un significato del tutto diverso da quello reale, disattendendo le eccezioni difensive con argomentazioni logicamente e giuridicamente errate.
2.2.6. si denuncia il vizio di manifesta illogicità e di contraddittorietà della motivazione sulla presenza di padre e figlio in banca, in quanto non si indica la
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fonte che prova tale circostanza, non riferita da nessuno dei testi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, con conseguente mancanza radicale della motivazione. Si aggiunge che la presenza del figlio in banca aveva una spiegazione alternativa, atteso che gestiva un esercizio commerciale ubicato a fianco della banca.
2.2.7. si denuncia il travisamento del fatto e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alle operazioni di intemet banking effettuate dalla dimora di NOME COGNOME in quanto la testimonianza di COGNOME attesta l’esatto contrario;
2.2.8. si denuncia “il travisamento decisivo della motivazione sul rilievo dei prelevamenti del Mura”, non dandosi atto che si tratta di prelievi effettuati con carta bancomat dei suoceri di NOME COGNOME e non di generici dipendenti della RAGIONE_SOCIALE.
2.2.9. si denuncia la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla carta di credito di COGNOME, del tutto estranea ai fatti del processo, trattandosi -non di carta ricaricabile, ma- di una carta di debito intestata a NOME COGNOME moglie di COGNOME;
2.2.10. si denuncia l’illogicità della motivazione e “il palese travisamento decisivo sulla pretesa confessione del Mura, manifestamente inesistente in atti”;
2.2.11. si denuncia la globale illogicità della motivazione e la mancanza di un’analisi complessiva da cui emerge che NOME COGNOME non poteva essere concorrente nel delitto fiscale né amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE
NOME NOME e NOME
GLI AUTORICICLAGGI
3.1. Violazione dell’art. 648-ter.1 cod. pen., atteso che, mancando il delitto presupposto per le ragioni esposte con i precedenti motivi, non può sussistere l’impiego e la sostituzione di provento del delitto.
3.2. In subordine, viene denunciata l’inosservanza della legge processuale e il vizio di manifesta illogicità della motivazione, in quanto la corte di appello opera un’inversione dell’onere della prova, addossando all’imputato il compito di dimostrare il mancato reimpiego dell’asserito profitto illecito, mentre spetta alla pubblica accusa dimostrare il positivo reimpiego. Il motivo affronta il tema dell’acquisto di due tagliandi del lotto, al cui riguardo si assume che non è stato dimostrato che nel conto corrente della società vi fosse una disponibilità di denaro superiore al risparmio d’imposta, nel momento del prelievo della somma necessaria per realizzare detto acquisto.
3.2. “In subordine. Travisamento evidente di un fatto decisivo: la disponibilità di cassa di TV INNOVATIVE non ha alcun rilievo nelle ipotesi autoriciclaggio contestate”. Si assume che la sentenza ha travisato il fatto in relazione ai capi 17/18 e 20/21, affermando che la disponibilità di cassa era superiore a quella frutto del risparmio d’imposta, pari a 169.000,00 euro, in quanto le movimentazioni effettuate per ristorare gli effettivi vincitori dei tagliandi sono state effettuate
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con compensazioni in denaro contante e con assegni emessi dalla Salerno, tratti sul conto corrente della società.
3.3. “In subordine. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 648-ter.1 cod. pen.. La sentenza assume, contrariamente alla legge penale, che l’utilizzo del profitto illecito del reato fiscale non sia elemento costitutivo del delitto di autoriciclagg io”.
3.4. “Motivazione ictu ()cui/ illogica e travisamento di un fatto decisivo: non vi è alcun reimpiego dell’asserito profitto illecito nella tabaccheria: dalla stessa inequivoca descrizione dei fatti contenuto nella motivazione risulta che essa funge solo da tramite per i pagamenti al titolare delle vincite”.
3.5. “In subordine. Motivazione ictu ocull illogica su punto autonomamente decisivo. La condotta contestata, per come ricostruito dalla stessa motivazione, non cela, né può celare alcun profitto illecito”.
4. MURA NOME
Rispetto ai motivi comuni a quelli di COGNOME NOME, vengono esposti i seguenti ulteriori motivi.
4.1. Violazione di legge in relazione all’indebito utilizzo di carte di credito e/o di pagamento contestato al capo 8).
A tale proposito si assume che sul piano sistematico i prelievi non hanno leso i diritti di alcuno, tanto meno degli istituti di credito, atteso che i fondi erano tutti esistenti e nella disponibilità lecita degli imputati. Sul piano letterale, evidenzia come la norma richieda l’utilizzo indebito dello strumento di pagamento e tale requisito non può identificarsi con il prelievo di propri fondi, asseritamente intestati a un prestanome.
Aggiunge che non si tratta di un sistema escogitato da COGNOME di cui pertanto non si può ritenere il concorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili.
1.1. Con il primo motivo d’impugnazione entrambi i ricorrenti sostengono l’insussistenza del reato di cui all’art. 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000.
A tale riguardo si assume che i redditi non dichiarati sono stati riequilibrati non appostando i costi inerenti pure sostenuti, così che l’imposta pagata è pari a quella dovuta, ove vi fosse stata una dichiarazione dei redditi fedele.
A tale argomentazione principale sono collegate ulteriori argomentazioni che i ricorrenti indicano in linea subordinata e sono stati riassunti nella narrativa in fatto nei paragrafi di seguito indicati:
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§ 1.2., con il quale si assume che la corte di appello non ha dato risposta alla doglianza;
§ 1.5., con il quale si denuncia l’inosservanza di norma processuale, atteso che la sentenza inverte l’onere della prova, addossando sull’imputato quello di provare l’esistenza e l’ammontare dei costi inerenti non dichiarati. In tal senso si ribadisce che non si ha evasione fiscale quando la dichiarazione di minori ricavi sia pareggiata dalla dichiarazione anche di minori costi, e si rimarca che è il pubblico ministero che deve provare l’ammontare dell’imposta evasa;
§ 1.6., con il quale si denuncia l’inosservanza di norma processuale, in violazione dell’art. 121 cod. proc. pen., nella parte in cui la corte di appello ha ritenuto tardive le allegazioni dell’imputato in ordine alla rilevanza dei costi. A tale proposito osserva, preliminarmente, che la produzione degli atti non era necessaria, visto che i costi risultavano già in atti e che l’onere della prova è a carico del pubblico ministero.
Si aggiunge che, comunque, tali atti erano stati allegati sin dal primo grado e che le memorie e le questioni erano state comunque sviluppate in precedenza, in quanto depositate prima della fine della discussione e riguardavano questioni decisive;
§ 1.7., con il quale si denuncia l’inosservanza di norma processuale, per la violazione dell’art. 190 cod. proc. pen. e dell’art. 109 TUIR, in quanto la corte ha richiesto all’imputato una prova contabile e documentale dei costi, così limitando il suo diritto alla prova, tanto più in violazione dell’art. 109, comma 4, lett. b), del TUIR, che ammette pacificamente la prova libera dei costi non contabilizzati;
§ 1.8., con il quale si denuncia la violazione di legge processuale, per la violazione del diritto al silenzio riconosciuto all’imputato, nella parte in cui si pretende da lui l’indicazione dei destinatari dei pagamenti in nero, tanto più che i costi, l’effettività e l’inerenza erano già emersi in atti. Si osserva come tale indicazione avrebbe una portata autoincriminante quanto porterebbe al concorso nell’altrui evasione fiscale.
Sulla base di tali argomentazioni, i ricorrenti sostengono, in sostanza, l’esistenza di costi inerenti non dichiarati che avrebbero controbilanciato i redditi non dichiarati, così che -di fatto- non vi è stata alcuna evasione d’imposta, con l’ulteriore precisazione che la prova della eventuale insussistenza di tali costi grava sulla pubblica accusa, non potendosi chiedere all’imputato né di provarli attraverso documentazione in genere e/o con documentazione contabile, né di indicare gli eventuali fornitori in nero.
1.1.1. L’assunto è manifestamente infondato in tutti i suoi aspetti.
Va al riguardo ribadito che quando il reddito imponibile viene ricostruito incrociando la contabilità di impresa con quella “in nero”, è preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati (Cass. civ., Sez.
5, n. 16198 del 27/10/2001, Rv. 551333; Cass. civ. Sez. 5, n. 11514 del 07/09/2001, Rv. 549206; Cass. civ. Sez. 5, n. 12330 del 08/10/2001, Rv. 549549; Cass. civ. Sez. 5, n. 1709 del 26/01/2007, Rv. 595661; Cass. civ. Sez. 5, n. 11205 del 16/05/2007, Rv. 599458; Cass. civ. Sez. 5, n. 21184 del 08/10/2014, Rv. 632824; Cass. civ. Sez. 6-5, ord. n. 27458 del 09/12/2013, Rv. 629460; cfr. altresì Cass. civ. Sez. 5, n. 5192 del 04/03/2011, 617112; Cass. civ. Sez. 5, n. 2935 del 13/02/2015, Rv. 634377; Cass. civ. Sez. 5, n. 20679 del 01/10/2014, Rv. 632502).
In coerenza a quanto rilevato dalla giurisprudenza in sede civile, è stato già precisato che «in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare della imposta evasa, è tenuto ad operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell’imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, soffre delle limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, sicché, nel caso in cui i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie siano individuati sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, quali le entrate registrate nella contabilità o nei conti correnti bancari, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza. (Fattispecie relativa al delitto di omessa presentazione di dichiarazioni fiscali, in cui l’imposta dovuta era stata quantificata sulla base di ricavi registrati in contabilità e, in modesta parte, di bonifici in entrata sui conti correnti riferibili all’impresa)» (Sez. 3, n. 17214 del 14/03/2023, Gallo, Rv. 284554 – 01).
Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, dunque, il giudice deve accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa attraverso una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, subisce le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale; con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza (quanto meno) di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019, COGNOME, Rv. 277120 – 01; Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019, COGNOME, Rv. 275856 – 01; Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015, COGNOME, Rv. 265160 – 01).
Nella sentenza ora menzionata è stato spiegato che quando i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie sono individuati sulla base di entrate registrate puntualmente nelle scritture contabili o nei conti correnti bancari, e, quindi, sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza, con l’ulteriore specificazione che non sussiste alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anche essi (in tesi) non contabilizzati.
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Tale orientamento, peraltro, si correla alla giurisprudenza sviluppatasi in sede tributaria, nel cui ambito la c.d. documentazione extracontabile costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile anche con la loro comparazione con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente (in tal senso, cfr. Cass. Civ. Sez. 5, n. 21432 del 31/07/2024; Sez. 5, n. 21138 del 24/08/2018).
A fronte di un accertamento pacifico circa la sussistenza di redditi non dichiarati, in assenza di automatismi tra ricavi e costi non contabilizzati, spetta all’imputato fornire la prova circa l’esistenza e l’ammontare dei costi inerenti non dichiarati.
Peraltro, non pare superfluo rimarcare che l’onere della prova gravante sui ricorrenti non è limitato alla sola sussistenza dei costi, dovendosi altresì dimostrare la loro inerenza.
Tanto perché non tutti i costi sostenuti dall’impresa sono deducibili ai fini delle imposte sui redditi, ove si consideri che la deducibilità di costi ed oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, spettando all’imprenditore provare e documentare l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé (in tal senso, cfr. Cass. Civ., Sez. 5, n. 24880 del 18/08/2022).
Da qui la correttezza della motivazione della corte di appello, che -alla pagina 74 della sentenza impugnata- ha ribadito che l’onere di dimostrare i costi spetta ai ricorrenti, anche -eventualmente- con la contabilità irregolare, così che il motivo risulta manifestamente infondato anche nella parte in cui assume che i giudici dell’impugnazione di merito non hanno dato risposta alla doglianza.
Si deve altresì rilevare che con il motivo sintetizzato al § 1.6. i ricorrenti si dolgono della mancata considerazione di allegazioni che -però- vengono genericamente indicate e rispetto alle quali -soprattutto, non ne viene illustrata la valenza probatoria in punto di dimostrazione della sussistenza di costi inerenti, se non nella misura di generiche e apodittiche asserzioni circa la loro decisività, con la conseguenza che il motivo risulta altresì aspecifico.
1.2. A eguale conclusione di inammissibilità si perviene anche per le ulteriori linee argomentative sviluppate dai ricorrenti in via subordinata (sintetizzate ai paragrafi 1.3, 1.4. e 1.9.) che si risolvono in altrettante asserzioni in fatto, che non contengono censure collocabili in alcuno dei vizi denunciabili in sede di legittimità.
Con tali argomentazioni, invero, la sentenza impugnata viene -in sostanzacensurata per non avere accolto la ricostruzione fattuale proposta dalla difesa sulla base di una lettura delle emergenze istruttorie alternativa a quella ritenuta dalla
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corte di appello, tanto che i motivi esposti ai paragrafi 1.3. e 1.9. sono significativamente intitolati dagli stessi ricorrenti al “travisamento del fatto”.
Da ciò un’ulteriore ragione di inammissibilità, atteso che «il giudice di legittimità, investito di un ricorso che proponga una diversa valutazione degli elementi di prova (cosiddetto travisamento del fatto), non può optare per la solu-zione che ritiene più adeguata alla ricostruzione dei fatti, valutando l’attendibilità dei testi e le conclusioni dei periti e consulenti tecnici, potendo solo verificare, negli stretti limiti della censura dedotta, se un mezzo di prova esista e se il risul-tato della prova sia quello indicato dal giudice di merito, sempre che questa veri-fica non si risolva in una valutazione della prova. (…)» (Sez. 4, n. 36769 del 09/06/2004, COGNOME, Rv. 229690 – 01).
Con l’ulteriore precisazione che «in tema di ricorso per cassazione, non è possibile dedurre come motivo il “travisamento del fatto”, giacché è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. Mentre è consentito, (art. 606 lett. e cod. proc. pen.), dedurre il “travisamento della prova”, che ricorre nei casi in cui si sostiene che il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. In quest’ultimo caso, infatti, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se questi elementi esistano», (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, COGNOME, Rv. 235656 – 01).
1.3. Sempre con riguardo al tema dei delitti fiscali, con il motivo riassunto al paragrafo 1.10, i ricorrenti espongono censure quanto alla misura del profitto confiscabile, che si assume inferiore a quello indicato nel capo d’imputazione.
Anche questa doglianza soffre delle medesime ragioni di inammissibilità fin qui evidenziate.
La corte di appello, invero, alla pagina 74 della sentenza impugnata, ha spiegato che la misura del profitto confiscabile era di euro 168.944,80, pari alle imposte evase (escludendo l’evasione dell’IVA), proprio per le ragioni esposte al punto precedente, ossia perché i ricorrenti non hanno provato l’esistenza di costi inerenti, tanto più che «l’ammontare di detti costi erano agevolmente dimostrabili dai Mura con la esibizione della contabilità irregolare o nera delle uscite in contanti. E’, invero, impensabile (e insostenibile) che, nella gestione dei pagamenti neri di una serie di soggetti per importi che si assumono rilevanti (nella dichiarazione acquisita dalla od occulti per 594.000 €), non fosse stata apprestata dai Mura una contabilità irregolare che attestasse chi era stato pagato con contanti e per quali importi » (cfr. pag. 74 della sentenza impugnata).
Diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, dunque, la corte di appello non rende una motivazione contraddittoria, atteso che esclude in toto i costi
opposti dai COGNOME, così confermando che l’ingiusto profitto assoggettabile a confisca era pari all’imposta evasa, per come indicata.
1.3.1. Anche in questo caso, inoltre, i ricorrenti oppongono valutazioni di merito, ossia le medesime già esposte con il gravame e risolte dalla corte di appello con motivazione in gran parte trascurata, mancando un reale confronto con essa,
Tale rilievo porta a una ragione ulteriore d’inammissibilità rispetto a quelle già evidenziate, atteso che esso fa emergere il vizio di aspecificità cui è affetto il motivo. Vizio che si configura non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Rv. 268823; Sez. 2, Sentenza n. 11951 del 29/01/2014 Rv. 259425, Lavorato; Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, COGNOME, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, COGNOME, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
Da quanto esposto discende l’inammissibilità dei motivi dedicati al delitto fiscale.
A eguale conclusione d’inammissibilità si perviene in relazioni ai motivi intitolati alla “Partecipazione di NOME COGNOME.
A tale riguardo, il motivo principale e tutte le linee subordinate a esso collegate, sono mirati a sostenere e a dimostrare che a Mura NOME non poteva essere attribuita la qualifica di amministratore di fatto, mancando i presupposti richiesti dall’art. 2639 del codice civile.
Anche in questo caso le argomentazioni difensive sono inammissibili perché manifestamente infondate, perché denunciano il travisamento del fatto, perché non si confrontano con la motivazione del provvedimento impugnato e perché meramente reiterative delle identiche argomentazioni di merito sollevata con il gravame, affrontate e risolte dalla corte di appello con motivazione adeguata, logica, non contraddittoria e conforme ai principi di diritto affermati nella materia trattata.
2.1. Va premesso che l’art. 2639 cod. civ. definisce amministratore di fatto «chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione».
Coloro che si ingeriscono nella gestione di una società possono, dunque, esserne considerati amministratori di fatto, a meno che non risulti che abbiano compiuto atti gestori solo occasionali (Cass. Civ., Sez. 3, n. 7864 del 22/03/2024).
Ciò premesso, la motivazione della sentenza impugnata è conforme alla nozione legislativa di amministratore di fatto e all’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, atteso che la corte di appello ha evidenziato una
molteplicità di elementi che facevano vedere NOME nell’esercizio continuativo e significativo dei poteri gestori, pur in assenza di un’investitura formale.
In tal senso -alle pagine 75 e ss.- è stato evidenziato che l’imputato era intraneo ai processi monetizzazione attraverso le carte di credito pre-pagate; che si attivava per reperire nuove carte di credito; che gli ordini di bonifico provenivano dalla linea di rete fissa della casa di Mura Francesco e dall’utenza mobile da lui utilizzata, così provvedendo lui stesso alla movimentazione dei conti correnti della TV RAGIONE_SOCIALE, da cui arrivava la provvista per le carte pre-pagate; che COGNOME NOME (amministratore formale) si presentava sempre in compagnia di COGNOME NOME presso gli uffici delle banche dove erano accesi i conti occulti; che dai contenuti delle conversazioni intercettate emergevano le direttive e le istruzioni impartire da COGNOME NOME e i relativi poteri di autonomia decisionale che con esse si manifestava; che le funzioni di amministratore emergevano anche dalle dichiarazioni rese dalla coimputata COGNOME e dal teste COGNOME Carlo COGNOME.
La molteplicità di condotte compiute da COGNOME NOME dimostrano la continuità e la non occasionalità della sua ingerenza nell’amministrazione della società, mentre le plurime istruzioni impartite, in varie e differenti occasioni, oltre che l’autonomia dimostrata nell’effettuazione dei bonifici, connotano gli interventi gestori della significatività richiesta dalla legge, tanto più ove si consideri che essi si concentravano soprattutto in quello che può definirsi il potere cardine in una gestione societaria, ossia la movimentazione bancaria e dei flussi di denari.
Da ciò la manifesta infondatezza dell’assunto secondo cui i giudici avrebbero attribuito a COGNOME NOME la qualifica di amministratore di fatto in violazione dell’art. 2639 cod. civ..
2.2. I Magistrati dell’appello hanno anche evidenziato come le osservazioni difensive intese a superare questa conclusione fossero fondate su di un’analisi parcellizzata degli elementi indiziari che, invece, andavano valutati in maniera unitaria. Osservazioni difensive puntualmente affrontate in motivazione alle pagine 77 e seguenti della sentenza impugnata, dove viene data risposta alle identiche questioni oggi trasfuse nel ricorso, in relazione alle dichiarazioni testimoniali di COGNOME oltre che del commercialista e di un dipendente della TV RAGIONE_SOCIALE, alla lettura alternative dei contenuti delle intercettazioni, alle ragioni della costante presenza in banca di NOME COGNOME insieme al padre NOME COGNOME.
Ebbene, non può evidenziarsi come anche le argomentazioni difensive sviluppate nel ricorso e sintetizzate al paragrafo 2.2. e ai sottoparagrafi a esso correlati operino una sostanziale polverizzazione delle emergenze istruttorie, con osservazioni riconducibili alla nozione di travisamento del fatto, della cui inammissibilità si è già detto.
2.2.1. Tanto perché tutte le argomentazioni sviluppate nel capitolo in esame si risolvono in una valutazione delle risultanze processuali alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito e, in quanto tali, non sono scrutinabili in sede di
legittimità, atteso che il compito demandato dal legislatore alla Corte di cassazione -per quanto qui d’interesse- non è quello di stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti ovvero quello di condividerne la giustificazione. Il compito del giudice di legittimità è quello di verificare la conformità della sentenza impugnata alla legge sostanziale e a quella processuale, cui si aggiunge il controllo sulla motivazione che, però, è restrittivamente limitato alle ipotesi tassative della carenza, della manifesta illogicità e della contraddittorietà. Con l’ulteriore precisazione che la carenza va identificata con la mancanza della motivazione per difetto grafico o per la sua apparenza; che l’illogicità deve essere manifesta -ossia individuabile con immediatezza- e sostanzialmente identificabile nella violazione delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche, così configurandosi quando la motivazione sia disancorata da criteri oggettivi di valutazione, e trascenda in valutazioni soggettive e congetturali, insuscettibili di verifica empirica; la contraddittorietà si configura quando la motivazione si mostri in contrasto -in termini di inconciliabilità assoluta- con atti processuali specificamente indicati dalla parte e che rispetto alla struttura argomentativa abbiano natura portante, tale che dalla loro eliminazione deriva l’implosione della struttura argomentativa impugnata.
Nulla di tutto ciò si rinviene nel motivo in esame, visto che la Corte di appello ha fatto ricorso a una motivazione adeguata, logica e non contraddittoria per affermare che NOME aveva la veste di amministratore di fatto e, anzi, era l’artefice della vicenda in esame.
Con l’ulteriore precisazione che anche i motivi con cui si lamenta la mancata risposta alle deduzioni difensive in relazione alle risultanze probatorie si colloca nel solco delle deduzioni di merito, in quanto essi si risolvono in una valutazione alternativa a quella della Corte di appello, che le ha evidentemente ritenuto infondata la prospettazione difensiva. Si deve considerare, infatti, che il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento eventualmente acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente.
A tal proposito questa Corte ha già avuto modo di affermare che «non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza» (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022 Ud., dep. il 2023, COGNOME, Rv. 284096 – 01; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275500 – 01).
Sono inammissibili anche i motivi comuni a entrambi i ricorrenti, intitolati “gli autoriciclaggi”, per le medesime ragioni fin qui evidenziate.
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3.1. Inammissibile perché manifestamente infondato è l’assunto principale, con il quale si assume che manca il delitto presupposto, ossia il reato fiscale fin qui esaminato e in relazione ai quali sono stati disattesi i motivi intesi a escluderlo.
La confermata sussistenza del delitto presupposto, ossia quello di cui all’art. 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000, destituisce di fondatezza l’assunto difensivo.
3.2. Le restanti argomentazioni non tengono conto della puntuale motivazione resa dalla corte di appello, che ha dettagliatamente illustrato il meccanismo di autoriciclaggio contestato ai capi 18 e 20, aventi a oggetto le somme frutto dell’evasione d’imposta (si vedano, in particolare, le pagine 86-89 della sentenza impugnata), realizzato con la sostituzione del denaro di provenienza illecita attraverso la riscossione della vincita al gioco del LOTTO, conseguita intestando fittiziamente a proprio nome e presentando all’incasso le schedine vincenti, precedentemente procurate presso i vincitori effettivi, presso cui venivano acquistati con il pagamento in denaro contante.
Una volta ritenuta la materialità della condotta (non contestata dagli imputati) e la sussistenza del fatto di reato, la corte di appello si è particolarmente concentrata soprattutto sulla individuazione e quantificazione del profitto realizzato con l’evasione dell’imposta.
3.2.1. Va ricordato, in via generale, che il profitto del reato è identificabile con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (Sez. U., 21 luglio 2015, n. 31617, COGNOME, Rv. 264436 – 01) e che, quindi, in tema di reati tributari, il profitto è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo dovuto a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. 3, n. 166 del 09/10/2019, dep. 2020, COGNOME).
A tale proposito, la sentenza ora citata ha spiegato che «essendo il profitto costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato, esso può consistere anche in un risparmio di spesa (Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, dep. 2014, RAGIONE_SOCIALE e a., Rv. 257788), ciò che, nei reati tributari, coincide col mancato pagamento del tributo ed è di regola costituito, nei reati dichiarativi e di omesso pagamento, dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, non comprendendo anche le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (Sez. 3, n. 17535 de I 06/02/2019, COGNOME, Rv. 275445; Sez. 3, n. 28047 del 20/01/2017, COGNOME e a., Rv. 270429)».
In continuità con tale orientamento, più di recente è stato ribadito che «in tema di reati tributari, ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, costituisce profitto del reato il risparmio di spesa o l’incremento
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patrimoniale concreto per il contribuente, determinati da qualsiasi artificiosa alterazione unilaterale dell’obbligazione tributaria che, fuori dei casi previsti dalla legge, comporti la sottrazione degli importi evasi alla destinazione fiscale, senza che rilevi che l’imposta evasa sia stata in concreto non pagata o indebitamente portata a credito dal contribuente» (Sez. 4, n. 42195 del 21/09/2023, Trantino, Rv. 285226 – 01).
3.2.2. Così individuata la nozione di profitto nei reati tributari e la sua identificabilità con il risparmio di spesa -costituito dall’esistenza di un ricavo effettivamente introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere- bisogna tuttavia precisare che ai fini della sua esatta individuazione è necessario stabilire il rapporto di pertinenzialità tra il vantaggio economico così conseguito e il reato.
L’esatta identificazione del profitto, peraltro, risulta rilevante ai delle condotte di riciclaggio, di autoriciclaggio o di reimpiego, costituendo esso elemento strutturale di tali reati.
Proprio nella prospettiva di indicare dei parametri interpretativi utili alla individuazione del profitto inteso quale risparmio di spesa, è stato affermato che «in tema di sequestro finalizzato alla confisca, il risparmio di spesa può integrare un profitto confiscabile solo a condizione che il vantaggio derivante dal risparmio si traduca in un immediato ed effettivo incremento del patrimonio, consistente in un risultato economico positivo, già identificabile in termini certi al momento della commissione del fatto, di modo da potersene affermare la pertinenzialità rispetto al reato. (Fattispecie relativa al sequestro emesso a carico di una società concessionaria del servizio autostradale, parametrato al risparmio di spesa risultante dai mancati lavori di manutenzione, disposto a distanza di anni dal momento in cui i lavori dovevano essere svolti e materialmente eseguito sui finanziamenti statali successivamente ottenuti per le opere di adeguamento)» (Sez. 6, n. 20179 del 10/03/2021, RAGIONE_SOCIALE.p.A. Costruzioni).
L’individuazione del rapporto di pertinenzialità tra il risparmio di spesa e il reato costituisce attività squisitamente ricostruttiva e di accertamento rimessa al giudice del merito, il quale, tuttavia, a tal fine, potrà -dunque- valorizzare il fatto che sia stato esattamente determinato il suo ammontare e sia accompagnato da elementi concreti sintomatici della sua derivazione dal reato.
3.2.3. Va, dunque, rilevato come la motivazione della corte di appello abbia assolto all’obbligo di motivazione così delineato, sviluppando una struttura argomentativa con la quale, anzitutto, ha puntualmente ed esattamente individuato l’ammontare del profitto, indicandolo nel risparmio di spesa, correttamente identificandolo in ciò che non è stato “esborsato” (e, dunque “risparmiato”) e determinato in euro 169.000,00 euro, pari all’importo dell’imposta evasa.
I giudici dell’appello, però, non si sono limitati a individuare e a determinare il profitto e il suo importo, essendosi altresì preoccupati di rintracciare elementi
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che facessero ritenere che proprio quel risparmio di spesa, proveniente dal mancato pagamento dell’imposta dovuta, fosse stata utilizzato per l’acquisto delle schedine vincenti, che avrebbero consentito la sostituzione del profitto del reato con il denaro di provenienza lecita, in ciò essendo consistita la condotta di autoriclaggio.
A tale riguardo, invero, i giudici hanno rilevato la sostanziale contemporaneità tra il reato presupposto e le immediatamente successive condotte riciclatorie, in un momento in cui nei conti correnti utilizzati per i pagamenti non risultavano presenti somme superiori all’importo dell’imposta evasa, così che si poteva dedurre che le disponibilità monetarie provenissero proprio dal risparmio di spesa derivata dall’evasione d’imposta.
Più nel dettaglio, la corte di appello ha osservato che il reato presupposto si è consumato il 30 ottobre 2018 (data della fraudolenta dichiarazione IRES 2017), mentre i delitti contestati si collocano tra il 1° e il 7 novembre 2018 (capo 18, per un valore pari a euro 13.800,00) e tra il 31 dicembre 2018 e il 4 gennaio 2019 (capo 20, per un valore pari a 25.392,00); che il risparmio di spesa, inteso come mancato decremento, pari a 169.000,00 euro; che tale risparmio di spese si è verificato in strettissima connessione con le condotte di riciclaggio; che non risultava e non è stato dimostrato che la società RAGIONE_SOCIALE al momento della realizzazione delle condotte contestate, ossia al momento della emissione dei titoli di pagamento indicati ai capi d’imputazione avesse, sui propri conti correnti, disponibilità superiori all’importo dell’imposta evasa (euro 169.000,00); che NOME aveva riconosciuto di avere avuto interesse all’acquisto dei tagliandi di cui ai capi 18 e 20 per utilizzarli nelle trasmissioni televisive e a tal fine emetteva assegni in favore di COGNOME che quei tagliandi aveva acquistato in contanti per procurarglieli e per forniglieli; che, dunque, risultava che il pagamento dei tagliandi avveniva con le somme disponibili sui conti correnti societari in ragione del risparmio di spese conseguente all’evasione dell’imposta e alla commissione del reato di cui all’art. 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000.
La corte di appello, ancora, evidenziava, tra le altre cose:
– «con riferimento al reato contestato a COGNOME NOME e a COGNOME NOME al capo 18, la condotta di acquisto di schedine vincenti veniva consumata emettendo, a nome di RAGIONE_SOCIALE, due assegni bancari per l’importo complessivo di 7.500 euro tratti sul conto corrente n. 2172 della filiale UNIPOL Banca di Cremona. Per tale reato è del tutto evidente la piena so i fraudolenta dichiarazione e quello di riciclaggio/autoriciclaggio, commessi a di (30 ottobre e primi di novembre 2018)».
– «Analoghe considerazioni valgono per il fatto ascritto al capo 20), che documenta il riciclaggio per la somma di euro 4.290, versata con un assegno bancario tratto sul conto corrente della RAGIONE_SOCIALE n. 11536 di Roveto e di quella versata mediante un bonifico di 12.100,00 euro proveniente dal conto corrente n.
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2172 della stessa società attivo presso la filiale della RAGIONE_SOCIALE banca di Cremona, giustificate con una falsa causale, per come ammesso dallo stesso NOME COGNOME, di “acquisto di Gratta e Vinci per concorsi a premi”. Anche in relazione a tale capo d’imputazione veniva sottolineata la sostanziale contemporaneità della commissione del reato presupposto e del successivo reato di autoriciclaggio.
3.2.4. A fronte di tale apparato argomentativo, i ricorrenti, con i motivi intitolati all’autoriciclaggio, persistono nelle identiche argomentazioni contenute nell’atto di gravame, eccependo nuovamente anche il travisamento del fatto, senza che esporre contenuti riconducibili alla violazione di legge o a mancanze argomentative e a manifeste illogicità della sentenza impugnata, mirando a sollecitare un improponibile sindacato sulle scelte valutative della corte di appello, attuata sulla base di una lineare e adeguata motivazione, strettamente ancorata a una completa e approfondita disamina delle risultanze processuali, oltre che conforme ai principi di diritto affermati in materia.
Valgono, dunque, le ragioni d’inammissibilità già esposte, dovendosi altresì ricordare che «è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella ripetizione di quelli già dedotti in appello, motivatamente esaminati e disattesi dalla corte di merito, dovendosi i motivi stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso” (Sez. 5, Sentenza n. 11933 del 27/01/2005, Rv. 231708; più di recente, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710 – 01; altre non massimate: Sez. 2, Sentenza n. 25517 del 06/03/2019, COGNOME; Sez. 6, Sentenza n. 19930 del 22/02/2019, Ferrari).
In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta.
3.2.5. Va aggiunto che anche in relazione al tema in esame, i ricorrenti sostengono che i giudici avrebbero operato un’inversione dell’onere della prova, facendo gravare sugli imputati l’onere di dimostrare il mancato reimpiego del profitto illecito.
L’assunto è manifestamente infondato, alla luce di quanto fin qui esposto, da dove emerge come i giudici abbiano indicato loro stessi gli elementi significativi dell’utilizzazione del profitto per l’acquisto dei tagliandi vincenti, senza che sia stata operata alcuna inversione dell’onere della prova.
Anche in relazione alle condotte di autoriciclaggio, quindi, si perviene all’inammissibilità dei ricorsi.
Inammissibile risulta, infine, l’unico motivo di ricorso esposto da COGNOME NOME in relazione al reato di indebito utilizzo di strumenti di pagamento diversi dal contante, contestato al capo 8).
4.1. Il ricorrente eccepisce che la condotta non ha leso i diritti di alcuno, in quanto i fondi utilizzati erano tutti esistenti e nella disponibilità lecita degli imputati; che non può ritenersi configurata la condotta di “utilizzo” indebito nel prelievo di denaro da fondi propri, ancorché fittiziamente intestati a terzi.
Si aggiunge che il sistema non è stato escogitato da NOME COGNOME così che non poteva ritenersi il suo concorso.
4.1.1. Va premesso come i motivi siano esattamente sovrapponibili a quelli sollevati con il gravame, affrontati e risolti dalla corte di appello, con motivazione che -di fatto- viene trascurata.
Tale preliminare notazione già conduce all’inammissibilità del motivo, per le ragioni esposte al superiore paragrafo 3.2.4..
Vanno, tuttavia, rilevate, ulteriori ragioni di inammissibilità.
4.1.2. La materialità del fatto risulta sostanzialmente pacifico e non contestato, in quanto ammesso da COGNOME NOME e COGNOME NOME, oltre che riferito da COGNOME NOME e talvolta verificato con i servizi di OCP: gli imputati utilizzavano, senza esserne titolari, innumerevoli carte di debito o di pagamento (ne sono state accertate 38), relative a diversi istituti di credito, su conti correnti in chiaro od occulti accesi dalla RAGIONE_SOCIALE, procurate da COGNOME NOME al fine di compiere centinaia di operazioni di prelievo dagli sportelli ATM, al fine (per lo più) di pagare i debiti delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
Quanto alla partecipazione di COGNOME NOME a tale sistema, la corte di appello ha descritto il pieno coinvolgimento dell’imputato a tale attività di sostanziale distrazione di fondi, in quanto le provviste appartenevano soprattutto alla RAGIONE_SOCIALE o da altre imprese televisive in forma societaria riconducibili allo stesso COGNOME NOME, il cui patrimonio, attraverso tali prelievi, venivano depauperati per far confluire il denaro su carte di debito o di pagamento nella disponibilità di soggetti diversi da quelli che ne risultavano intestatari, i quali, utilizzandole uti domini, prelevavano le somme della TV INNOVATIVE -o di altre società riconducibili a COGNOME NOME– per effettuare pagamenti di debiti di altre società, in contanti e in nero.
I giudici -esaminando la posizione di COGNOME NOME– hanno altresì sottolineato che il fatto di non avere escogitato tale sistema non escludeva il concorso, attesa la piena consapevolezza e partecipazione a esso.
Nell’impugnazione in esame manca il pur minimo confronto con tale motivazione, giacché il motivo è la pedissequa riproduzione del motivo di gravame, che dall’appello è stato trasfuso nell’odierno ricorso, senza censure alla motivazione del provvedimento impugnato, dal che deriva la già richiamata ragione d’inammissibilità del motivo.
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4.1.3. Parimenti trascurate le ulteriori argomentazioni spese dalla corte di appello per dare risposta alle obiezioni difensive secondo cui non vi sarebbe reato in mancanza di lesione di diritti e non vi sarebbe un indebito utilizzo nel prelievo di somme nella disponibilità degli utilizzatori.
Anche in questo caso i motivi di ricorso sono entrambi la mera trasposizione dei motivi di appello, ai quali la corte di merito ha dato puntuale e giuridicamente corretta risposta e, per ciò solo, sono inammissibili.
Tuttavia:
4.1.3.1. Premesso che le carte erano pacificamente utilizzate da soggetti diversi dagli intestatari delle stesse, in relazione al profilo dell’assenza di danno per i titolari, va ricordato quanto già più volte affermato da questa Corte, ancor prima della collocazione del reato nel corpo del codice penale (cfr. Sez. 2, n. 7019 del 17/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259004 – 01), ossia che «l’indebita utilizzazione, a fini di profitto, di una carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il delitto di cui trattasi, indipendentemente dall’effettivo conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine» (cfr. Sez. 5, n. 5692 del 11/12/2018, dep. 2019, S., Rv. 275109, più di recente, non nnassimate, Sez. 2, n. 9818 del 12/01/2024, COGNOME; Sez. 2, n. 40936 del 07/09/2023, COGNOME).
Da ciò la manifesta infondatezza dell’assunto difensivo, per il suo contrasto con un orientamento della giurisprudenza di legittimità assolutamente consolidato e risalente nel tempo, correttamente richiamato dai giudici della sentenza impugnata.
4.1.3.2. Con riguardo alla dedotta insussistenza del fatto in quanto i prelievi venivano effettuati su fondi propri, ancorché fittiziamente intestati a terzi, la manifesta infondatezza discende dal fatto che il ricorrente non considera la natura plurioffensiva del reato e le ragioni stesse della sua elaborazione, correttamente richiamata dalla corte di appello, con motivazione rimasta indenne da censure.
La dimensione lesiva del reato, invero, trascende il mero patrimonio individuale per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili all’ambito dell’ordine pubblico, economico e della fede pubblica (cfr. Corte cost., n. 302 del 19/7/2000).
Del resto, che il bene giuridico tutelato non sia solo il patrimonio del titolare della carta di credito è confermato sia dalle finalità perseguita delle leggi speciali con cui era stata introdotta l’originaria norma incriminatrice (ossia il contrasto dei fenomeni di riciclaggio, anche attraverso il controllo dell’utilizzo dei nuovi strumenti elettronici di circolazione del denaro), sia dalla successiva collocazione della previsione incriminatrice nella struttura del codice penale nell’ambito dei delitti di falso (art. 493-ter cod. pen), secondo le indicazioni contenute nella legge di delega e recepite dall’art. 4, del decreto legislativo 1° marzo 2018 n. 21, che ha previsto
l’inserimento della fattispecie in esame nel corpo del codice penale annoverandola quale norma a tutela del sistema finanziario.
Ove si consideri che la fattispecie in esame ha natura di reato di pericolo, in quanto risponde all’esigenza di prevenire, di fronte ad una sempre più ampia diffusione delle carte di credito e dei documenti similari, il pregiudizio che l’indebita disponibilità dei medesimi è in grado di arrecare alla sicurezza e speditezza del traffico giuridico e, di riflesso, alla fiducia che in essi ripone il sistema economico e finanziario (cfr. Corte cost., n. 302 del 19/7/2000), può affermarsi che l’utilizzo di tali mezzi di pagamento debba considerarsi “indebito” non solo quando sia realizzato invito domino, ma ogni qual volta essi siano strumentali al perseguimento di finalità illecite, a prescindere dall’eventuale conoscenza e/o indifferenza del titolare formale.
In tal senso la corte di appello ha correttamente evidenziato che le condotte in esame devono considerarsi lesive proprio dell’interesse collettivo, attesa l’intrinseca natura fraudolenta di prelievi e pagamenti effettuati a margine di condotte di riciclaggio, con finalità distrattive di capitali.
Quanto esposto comporta la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, cui segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 18/02/2025