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Autoriciclaggio e criptovalute: il reato non sussiste

La Corte di Cassazione ha annullato una condanna per autoriciclaggio derivante da presunte attività abusive nel settore delle criptovalute. La decisione si fonda sul principio di legalità: al momento dei fatti (anni 2015-2016), non esisteva una normativa specifica che qualificasse l’intermediazione in valute digitali come reato di abusiva attività finanziaria. Di conseguenza, venendo meno il ‘reato presupposto’, crolla anche l’accusa di autoriciclaggio e criptovalute, portando all’annullamento della sentenza senza rinvio.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Autoriciclaggio e Criptovalute: Annullata la Condanna per Vuoto Normativo

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 22651/2025) ha segnato un punto cruciale nella complessa relazione tra autoriciclaggio e criptovalute, annullando una condanna per la mancanza di una legge specifica al momento dei fatti. La Corte ha stabilito che, in assenza di una normativa che definisse l’intermediazione in valute virtuali come reato, non può sussistere né il reato presupposto di abusiva attività finanziaria, né, di conseguenza, il delitto di autoriciclaggio. Questa decisione riafferma la centralità del principio di legalità, specialmente in settori ad alta innovazione tecnologica.

I Fatti del Processo

Il caso riguardava un soggetto condannato in primo e secondo grado per il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 cod. pen.). L’accusa sosteneva che l’imputato avesse reimpiegato profitti illeciti derivanti dal reato presupposto di abusiva attività finanziaria (art. 166 del Testo Unico Finanziario). Tale attività sarebbe consistita nell’offerta al pubblico, tramite siti web, di servizi di investimento e negoziazione di prodotti finanziari e valute digitali, senza le necessarie autorizzazioni. I fatti contestati si collocavano in un arco temporale conclusosi nel novembre 2016.

La Questione Giuridica: Autoriciclaggio e Criptovalute Prima del 2017

Il fulcro del ricorso in Cassazione si è concentrato su un argomento decisivo: al tempo dei fatti (2015-2016), esisteva un vuoto normativo. La difesa ha sostenuto che nessuna legge, né nazionale né europea, imponeva obblighi di autorizzazione per i servizi legati alla compravendita di monete virtuali. Le normative che hanno successivamente disciplinato il settore, introducendo definizioni di ‘criptovaluta’ e ‘prestatore di servizi relativi a valuta virtuale’, sono entrate in vigore solo a partire dal 2017. Pertanto, la condotta contestata come reato presupposto, all’epoca, non era penalmente rilevante.

La Decisione della Corte di Cassazione

Accogliendo pienamente la tesi difensiva, la Suprema Corte ha annullato la sentenza di condanna senza rinvio, con la formula ‘perché il fatto non sussiste’. Questa decisione ha assorbito ogni altra censura, ritenendo fondante e decisiva la questione relativa alla non configurabilità del reato presupposto. La Corte ha quindi disposto la restituzione di tutti i beni che erano stati sottoposti a sequestro.

Le Motivazioni: il Principio di Legalità e l’Evoluzione Normativa

La sentenza si distingue per una meticolosa ricostruzione del quadro normativo vigente fino al 2016, evidenziando come questo fosse inadeguato a ricomprendere le attività legate alle criptovalute.

L’Analisi del Quadro Normativo Ratione Temporis

La Corte ha analizzato il Testo Unico Finanziario (d.lgs. 58/1998) in vigore all’epoca dei fatti. La norma puniva chi svolgeva abusivamente ‘servizi di investimento’ aventi ad oggetto ‘strumenti finanziari’. Tuttavia, l’elenco tassativo degli strumenti finanziari fornito dalla legge non includeva le valute virtuali come bitcoin o altre criptovalute. Le prime definizioni legali e i relativi obblighi sono stati introdotti solo con il d.lgs. 90/2017 e successivi interventi legislativi, ben dopo la conclusione delle condotte contestate.

L’Insussistenza del Reato Presupposto

Sulla base di questa analisi, i giudici hanno concluso che, sino al 7 novembre 2016, le attività di compravendita di criptovalute non integravano la fattispecie di abusiva attività finanziaria. Applicare retroattivamente la normativa successiva costituirebbe una violazione del principio di legalità e irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 25 della Costituzione. Opinare diversamente, afferma la Corte, significherebbe ricorrere a un’interpretazione analogica non consentita in materia penale.

Il Crollo dell’Accusa di Autoriciclaggio

L’insussistenza del reato presupposto ha avuto un effetto a cascata sull’accusa di autoriciclaggio. Questo delitto, infatti, richiede come elemento costitutivo essenziale l’esistenza di un altro reato dal quale provengono i capitali da ‘ripulire’. Venendo meno, alla radice, la natura illecita dei proventi, l’intera costruzione accusatoria è crollata. Di conseguenza, anche il delitto di autoriciclaggio è stato dichiarato insussistente.

Le Conclusioni: Implicazioni della Sentenza

Questa pronuncia della Cassazione è di fondamentale importanza perché ribadisce un cardine dello stato di diritto: nessuno può essere punito per un fatto che, al momento in cui è stato commesso, non era espressamente previsto dalla legge come reato (nullum crimen sine lege). La decisione mette in luce le difficoltà dell’ordinamento giuridico nel tenere il passo con l’evoluzione tecnologica e finanziaria. Sebbene oggi il settore delle criptovalute sia oggetto di una regolamentazione sempre più stringente, questa sentenza chiarisce che le condotte passate devono essere giudicate esclusivamente sulla base delle leggi vigenti all’epoca. Ciò rappresenta una garanzia fondamentale per tutti i cittadini e gli operatori economici, specialmente in settori innovativi dove il confine tra lecito e illecito può essere definito solo da un intervento chiaro e puntuale del legislatore.

Svolgere attività con criptovalute era reato prima del 2017?
No. Secondo questa sentenza, l’offerta di servizi di compravendita di criptovalute, prima delle specifiche normative introdotte a partire dal 2017, non costituiva il reato di abusiva attività finanziaria, a causa di un vuoto normativo.

Perché è stata annullata la condanna per autoriciclaggio?
La condanna è stata annullata perché è venuto meno il ‘reato presupposto’. L’autoriciclaggio richiede che i beni reinvestiti provengano da un delitto. Poiché la Corte ha stabilito che l’attività con le criptovalute non era un reato all’epoca dei fatti, non esistevano proventi illeciti da riciclare.

Cosa significa che la sentenza è stata annullata ‘senza rinvio perché il fatto non sussiste’?
Significa che la Corte di Cassazione ha chiuso il caso in via definitiva. La formula ‘perché il fatto non sussiste’ indica una piena assoluzione, poiché la condotta contestata all’imputato, secondo la legge applicabile al tempo in cui fu commessa, non costituiva reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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