Atto di violenza: anche divincolarsi è reato secondo la Cassazione
La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, è tornata a pronunciarsi su un tema delicato: cosa si intende esattamente per atto di violenza nel contesto della resistenza a un pubblico ufficiale? La vicenda analizzata offre uno spunto cruciale per comprendere come anche un gesto apparentemente minore, come il divincolarsi dalla presa di un agente, possa avere serie conseguenze penali. La decisione sottolinea la rigidità con cui la legge interpreta qualsiasi forma di opposizione fisica all’operato delle forze dell’ordine.
I fatti alla base del ricorso
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato contro la sentenza della Corte d’Appello. La difesa non contestava la ricostruzione dei fatti, ovvero che l’imputato si fosse effettivamente liberato con uno strattone dalla presa di un agente di polizia. Piuttosto, il punto cruciale del ricorso verteva sulla qualificazione giuridica di tale gesto. Secondo la tesi difensiva, l’azione di divincolarsi non avrebbe dovuto essere classificata come un “atto di violenza”, ma come una reazione istintiva e non aggressiva. La questione posta alla Suprema Corte era, quindi, prettamente di diritto: un gesto di questo tipo è sufficiente a integrare la violenza richiesta dalla norma penale?
La decisione della Corte e la nozione di atto di violenza
La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. Questa decisione non entra nel merito della questione di fatto, ma si concentra sui requisiti formali e sostanziali dell’impugnazione. Gli Ermellini hanno ritenuto che i motivi addotti dal ricorrente non fossero ammissibili in sede di legittimità. Il ricorso, infatti, si risolveva in doglianze su profili di merito che erano già stati adeguatamente esaminati e respinti dalla Corte d’Appello con argomentazioni giuridiche corrette. La Cassazione ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti, ma di assicurare la corretta applicazione della legge, e in questo caso la Corte territoriale si era attenuta a un principio di diritto pacifico e consolidato.
Le motivazioni
Le motivazioni della Corte si fondano su un principio cardine del nostro sistema processuale: la distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità. Il ricorrente, pur cercando di mascherare la sua contestazione come una questione di qualificazione giuridica, stava in realtà chiedendo alla Cassazione una nuova valutazione del fatto, ovvero della natura del suo gesto. Questo tipo di valutazione è precluso alla Suprema Corte. La Corte ha evidenziato che i giudici d’appello avevano correttamente applicato il principio, citando un precedente specifico (Cass. Sez. 1, n. 29614/2022), secondo cui anche una spinta o un semplice divincolarsi, purché finalizzati a opporsi a un atto d’ufficio, costituiscono un atto di violenza. Di conseguenza, il ricorso è stato ritenuto privo dei requisiti per essere esaminato, portando a una dichiarazione di inammissibilità e alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di tremila euro a favore della Cassa delle ammende.
Le conclusioni
L’ordinanza in esame rafforza un’interpretazione rigorosa del concetto di violenza nel reato di resistenza a pubblico ufficiale. La lezione pratica che se ne trae è chiara: qualsiasi forma di reazione fisica attiva, anche se non palesemente aggressiva come un pugno o un calcio, può essere legalmente qualificata come violenta se ha lo scopo di impedire o ostacolare l’azione di un pubblico ufficiale. Questa decisione serve da monito, sottolineando che la legge non tollera forme di opposizione fisica, anche minime, nei confronti delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni.
Liberarsi dalla presa di un agente di polizia è considerato un atto di violenza?
Sì, secondo l’ordinanza, anche l’atto di divincolarsi dalla presa di un agente può essere qualificato come ‘atto di violenza’, conformemente a un principio di diritto consolidato citato dalla Corte.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi presentati non erano consentiti in sede di legittimità. Essi consistevano in doglianze su profili di merito già correttamente valutati e decisi dal giudice precedente, anziché in censure sulla violazione della legge.
Quali sono state le conseguenze per il ricorrente a seguito della decisione della Cassazione?
Il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 37269 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 37269 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 12/12/2023 della CORTE APPELLO di L’AQUILA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
OSSERVA
Ritenuto che i motivi dedotti nel ricorso non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità, perché costituiti da doglianze su profili di censura adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito, tenut conto dei motivi di appello (la difesa aveva infatti contestato – vedi pag. 4 del gravame – non la ricostruzione del fatto – quanto al divincolarsi dell’imputato dalla presa dell’agente COGNOME – ma la qualificazione di tale atto come “atto di violenza”; sul punto la Corte territoriale si è attenuta al pacifico principio di diritto, tra t Sez. 1, n. 29614 del 31/03/2022, Rv. 283376);
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 12/07/2024.