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Attività libero professionale: la Cassazione decide

Un ricercatore universitario, assolto in appello dalle accuse di truffa e falso per aver svolto attività privata in violazione del patto di esclusiva, vede la sua assoluzione annullata dalla Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha ritenuto la motivazione dei giudici di secondo grado carente e superficiale, soprattutto nel distinguere tra consulenza lecita e attività libero professionale vietata. Il caso è stato rinviato per un nuovo processo d’appello.

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Pubblicato il 4 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Attività Libero Professionale e Truffa: La Cassazione Annulla l’Assoluzione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8914 del 2024, ha affrontato un caso cruciale che definisce i confini tra consulenza lecita e attività libero professionale vietata per i dipendenti pubblici in regime di esclusiva. La Suprema Corte ha annullato l’assoluzione di un ricercatore universitario, accusato di truffa e falso, stabilendo che la valutazione della sua attività esterna era stata troppo superficiale e imponendo un nuovo e più rigoroso esame dei fatti.

I Fatti del Caso: Tra Ricerca Pubblica e Pratica Privata

Un ricercatore universitario a tempo pieno, legato da un rapporto di lavoro esclusivo con un policlinico pubblico, era stato accusato di due gravi reati:

1. Truffa aggravata (Capo A): Per aver svolto, all’insaputa dell’ente pubblico, una continua e organizzata attività professionale privata presso due strutture sanitarie e lo studio paterno. Omettendo di comunicare tale violazione del patto di esclusiva, avrebbe indotto in errore l’amministrazione, percependo indebitamente lo stipendio maggiorato previsto per il regime a tempo pieno.
2. Falso ideologico in atto pubblico (Capo B): Per aver redatto e firmato piani terapeutici e prescrizioni per farmaci specialistici, utilizzando il timbro della sua superiore (unica autorizzata) e apponendo una sigla illeggibile, creando così la falsa apparenza che gli atti provenissero dalla persona legittimata.

In primo grado, il ricercatore era stato condannato. I giudici avevano ritenuto provata l’esistenza di un’attività privata stabile e non occasionale, incompatibile con il suo status. Tuttavia, la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione, assolvendolo con la formula “perché il fatto non sussiste”. Secondo i giudici d’appello, le attività esterne erano semplici “consulenze” permesse dalla legge e l’apposizione della firma sui piani terapeutici era avvenuta con l’autorizzazione della superiore.

L’analisi sull’attività libero professionale e il silenzio

La Procura Generale ha impugnato l’assoluzione e la Cassazione le ha dato ragione, bacchettando la Corte d’Appello per la sua motivazione carente. La Suprema Corte ha sottolineato che, nel ribaltare una condanna, il giudice d’appello ha un obbligo di “motivazione rafforzata”: deve cioè smontare pezzo per pezzo le argomentazioni della prima sentenza, cosa che non era avvenuta.

Il punto centrale è la distinzione tra “consulenza” (permessa) e attività libero professionale (vietata). La legge consente ai ricercatori a tempo pieno di svolgere consulenze occasionali, non organizzate e di natura prettamente intellettuale. Al contrario, l’attività libero professionale implica stabilità, organizzazione di mezzi e un rapporto diretto con la clientela. La Corte d’Appello si era limitata a definire l’attività “saltuaria” senza confrontarsi con le prove (agende, testimonianze, ricevute fiscali) che indicavano una pratica sistematica e continuativa.

Inoltre, la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in tema di truffa: anche il “silenzio maliziosamente serbato” su circostanze che si ha il dovere giuridico di comunicare (come la violazione del patto di esclusiva) costituisce un raggiro idoneo a integrare il reato.

La Questione del Falso Ideologico e della Delega di Funzioni

Anche riguardo all’accusa di falso, la motivazione dell’assoluzione è stata giudicata inadeguata. La Cassazione ha chiarito che l’autorizzazione ricevuta dalla professoressa era giuridicamente irrilevante. La facoltà di prescrivere quel particolare tipo di farmaco era una funzione pubblica non delegabile, attribuita dalla legge solo a specifiche figure sanitarie.

Apporre una firma illeggibile sul timbro di un altro medico, inducendo in errore sulla reale paternità dell’atto, integra pienamente il reato di falso ideologico. Lo scopo della norma, infatti, è tutelare la fede pubblica, garantendo che ogni atto provenga effettivamente dal soggetto che appare come suo autore. La Corte d’Appello non aveva considerato questo aspetto cruciale, concentrandosi erroneamente sulla correttezza clinica dei piani terapeutici.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione perché viziata da profonde lacune motivazionali. I giudici d’appello non hanno applicato il principio della “motivazione rafforzata”, omettendo un confronto critico e approfondito con le prove e le argomentazioni della sentenza di primo grado. Hanno qualificato in modo apodittico le attività esterne del ricercatore come “consulenze” senza analizzarne la natura continuativa e organizzata, che le avrebbe invece configurate come attività libero professionale vietata. Inoltre, hanno erroneamente ritenuto che il silenzio sulla violazione dell’esclusiva non potesse costituire un raggiro e che una delega di fatto potesse sanare un atto (la prescrizione) la cui competenza era per legge non delegabile. Per queste ragioni, ha disposto un nuovo processo d’appello.

Conclusioni

Questa sentenza rappresenta un importante monito per i dipendenti pubblici in regime di esclusiva. La Cassazione chiarisce che non basta etichettare un’attività esterna come “consulenza” per renderla lecita; è necessaria un’analisi sostanziale della sua natura. Viene inoltre riaffermato con forza che l’omessa comunicazione di una situazione di incompatibilità costituisce una condotta fraudolenta. Infine, la decisione ribadisce l’inderogabilità delle competenze attribuite dalla legge, la cui usurpazione, anche se autorizzata informalmente, può integrare gravi reati come il falso in atto pubblico. Il caso torna ora alla Corte d’Appello, che dovrà riesaminare i fatti attenendosi ai rigorosi principi di diritto stabiliti dalla Suprema Corte.

Il silenzio di un dipendente pubblico sulla violazione del patto di esclusività può costituire truffa?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, il “silenzio maliziosamente serbato” su circostanze rilevanti che si ha il dovere giuridico di comunicare, come lo svolgimento di attività incompatibili con il regime di esclusiva, può integrare gli artifizi e i raggiri richiesti per il reato di truffa contrattuale ai danni dell’ente pubblico.

Un’attività esterna può essere considerata semplice “consulenza” se svolta in modo continuativo e organizzato?
No. La sentenza chiarisce che la consulenza consentita dalla legge per i ricercatori a tempo pieno deve avere carattere occasionale, non abituale, non continuativo e non organizzato. Se l’attività è svolta in modo sistematico, con una struttura e una cadenza regolare, essa si qualifica come attività libero-professionale, incompatibile con il regime di esclusiva.

L’autorizzazione di un superiore a firmare atti al suo posto rende lecita la condotta se la funzione non è delegabile?
No. Se una funzione pubblica è attribuita dalla legge in via esclusiva a un determinato soggetto e non è delegabile, l’autorizzazione informale da parte del titolare non ha alcun valore legale. La firma apposta da un soggetto non autorizzato su un atto pubblico, creando la falsa apparenza che provenga dal titolare legittimo, integra il reato di falso ideologico.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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