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Atti persecutori: si applica la legge più severa?

Una famiglia è stata condannata in via definitiva per il reato di atti persecutori ai danni di una vicina di casa, con condotte protrattesi per sette anni. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna, rigettando i ricorsi degli imputati. La sentenza stabilisce un principio fondamentale: per un reato abituale come gli atti persecutori, se la condotta illecita prosegue anche dopo l’entrata in vigore di una legge che inasprisce la pena, si applica la nuova e più severa sanzione all’intero comportamento criminoso.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Atti Persecutori e Legge Più Severa: Quando si Applica? Il Chiarimento della Cassazione

Il reato di atti persecutori, comunemente noto come stalking, è un crimine che si consuma nel tempo. Ma cosa succede se, mentre la condotta persecutoria è in corso, entra in vigore una legge che prevede una pena più severa? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29444 del 2025, offre una risposta chiara e definitiva, stabilendo un principio cruciale sull’applicazione della legge penale nel tempo per i reati abituali.

I Fatti del Caso: Sette Anni di Persecuzioni tra Vicini

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una complessa vicenda di conflittualità di vicinato trasformatasi in un incubo per la vittima. Per un lungo periodo, dal 2013 al 2020, un’intera famiglia ha posto in essere una serie di condotte vessatorie ai danni della propria vicina di casa. Le azioni includevano aggressioni verbali, urla, suoni molesti a qualsiasi ora (come martellamenti nelle prime ore del mattino e musica ad alto volume), squilli continui e ingiustificati al campanello e invettive.

Questi comportamenti hanno provocato alla persona offesa un grave e perdurante stato di ansia e paura, costringendola a modificare radicalmente le sue abitudini di vita, come smettere di invitare amici o allontanarsi da casa nei fine settimana. La situazione è diventata talmente insostenibile da costringere la vittima a vendere la propria abitazione nel 2020, subendo anche una significativa perdita economica.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano riconosciuto la colpevolezza degli imputati, condannandoli per il reato di atti persecutori.

I Motivi del Ricorso e la questione degli atti persecutori

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione basandosi su tre motivi principali:
1. Omessa valutazione delle prove a discarico: Sostenevano che i giudici non avessero considerato una memoria difensiva e documenti che, a loro dire, avrebbero dimostrato una conflittualità reciproca e l’assenza di dolo.
2. Motivazione illogica: Contestavano che la condanna si basasse su testimonianze risalenti al 2014 per provare una condotta che si sarebbe protratta fino al 2020, ritenendo insufficiente la prova sulla durata del reato.
3. Errata applicazione della legge: Il punto cruciale del ricorso. Gli imputati lamentavano l’applicazione della Legge 69/2019, che ha inasprito le pene per gli atti persecutori, sostenendo che non potesse essere applicata retroattivamente a una condotta iniziata nel 2013.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi del ricorso, ritenendoli in parte inammissibili e in parte infondati.

I primi due motivi sono stati respinti poiché le valutazioni dei giudici di merito sono state ritenute complete e logiche. La Corte ha ribadito che la testimonianza della persona offesa è stata giudicata credibile e ampiamente riscontrata da altre prove, come testimonianze di terzi e perizie tecniche sui rumori molesti. L’omessa valutazione di una memoria difensiva, inoltre, non invalida la sentenza se le argomentazioni in essa contenute non sono decisive per ribaltare il giudizio.

Il cuore della sentenza risiede nella risposta al terzo motivo. La Cassazione ha chiarito la natura del reato di atti persecutori come reato abituale. Questo tipo di reato non si esaurisce in un singolo atto, ma si consuma nel momento in cui cessa la reiterazione delle condotte. Di conseguenza, il momento della consumazione è quello dell’ultimo atto persecutorio.

Partendo da questo presupposto, la Corte ha affermato un principio consolidato: se la condotta criminosa si protrae nel tempo e, durante il suo svolgimento, entra in vigore una nuova legge più sfavorevole (in peius), questa si applica all’intero reato. È sufficiente che anche una sola parte della condotta si sia verificata sotto la vigenza della nuova norma. L’agente, infatti, continuando a porre in essere gli atti persecutori anche dopo l’inasprimento della pena, era perfettamente in grado di prevedere le conseguenze più gravi del suo comportamento.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza. Per i reati abituali, come lo stalking, la legge applicabile è quella in vigore al momento della consumazione del reato, ovvero dell’ultima condotta posta in essere. Chi prosegue in un comportamento persecutorio dopo l’entrata in vigore di una norma più severa non può invocare il principio di irretroattività, poiché la sua condotta illecita si è protratta anche sotto il nuovo e più rigido regime sanzionatorio. Questa decisione rafforza la tutela delle vittime e chiarisce che la persistenza nel reato comporta l’accettazione delle sue conseguenze legali, anche se divenute più gravi nel tempo.

Quando si consuma il reato di atti persecutori?
Il reato di atti persecutori, essendo un reato abituale, si consuma nel momento in cui ha luogo l’ultima condotta persecutoria attuata dall’agente, poiché è in quel momento che cessa l’abitualità del comportamento criminoso.

Se la pena per gli atti persecutori viene aumentata da una nuova legge, quale si applica a una condotta iniziata prima ma proseguita dopo?
Si applica la nuova legge più severa. Secondo la Corte, è sufficiente che la consumazione del reato, con la cessazione della condotta abituale, avvenga sotto la vigenza della nuova normativa più sfavorevole, anche se il comportamento era iniziato prima.

L’omessa valutazione da parte del giudice di una memoria difensiva rende sempre nulla la sentenza?
No, l’omessa valutazione di una memoria difensiva non determina automaticamente la nullità della sentenza. Può influire sulla correttezza e logicità della motivazione solo se le ragioni difensive trascurate sono effettivamente tali da evidenziare errori logici nel ragionamento del giudice e se sono decisive per l’esito del processo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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